1830: Didier a San Demetrio e Santa Sofia
di Francesco Marchianò
Come risaputo, nei primi decenni del XIX sec. la Calabria è stata meta dei viaggiatori del Gran Tour attratti dalla sua bellezza selvaggia e dall’alone di ferocia che circonda i suoi abitanti descritti ora come terribili briganti ora come gente ospitale.
Non sfuggono a questi viaggiatori, per la verità tutti intellettuali o colti avventurieri, le
colonie degli Albanesi d’Italia noti al mondo, in quel periodo, perché accomunati a quelli dell’Albania per le vicende allora note di Alì Pasha di Tepelena e per il loro contributo all’indipendenza greca, epopee molto in voga in quel periodo del Romanticismo.
Charles Didier (1805-’64), uno di questi avventurosi viaggiatori, nelle sue narrazioni di
viaggio nella Calabria afferma che nella primavera del 1830 è passato per Spezzano Albanese, nell’autunno di aver visitato Civita (autunno 1830 e non 1829!) e, prima ancora, afferma di essere stato ospite presso le comunità albanesi di San Demetrio e Santa Sofia.
Il viaggio di Didier inizia una domenica mattina da Corigliano, passando per la masseria fortificata di San Mauro, a piedi verso San Demetrio attraverso una campagna solitaria essendo giorno di festa. La natura varia man mano che il colto viandante sale verso le alture argillose, la monotonia è rotta solamente dalla presenza di un contadino a dorso di mulo che sale verso il paese “sporco e meschino” ma in posizione incantevole. E’ un sandemetrese armato di ascia – avendo una legge del 1821 proibito le armi da fuoco – che lo fa montare sulla propria modesta cavalcatura
ritenendo un’offesa il rifiuto.
L’albanese conversa con Didier parlandogli dei propri antenati, di Skanderbeg e giudicando in malo modo gli italiani dei dintorni. Nel frattempo giungono davanti alla casa di un notabile che lo ospita dopo aver letto le lettere di raccomandazione dategli a Corigliano. L’uomo, di cui non cita il nome, viene descritto come un uomo colto, perseguitato per i moti del 1821, che ha ricoperto alti incarichi nella magistratura del regno e che ora è sorvegliato dalla polizia borbonica. Questi scarni e significativi dati ci rimandano alla persona di Salvatore Marini (1772-1850), giacobino nel 1799, Commissario di Polizia ed infine presidente della Gran Corte Criminale della Calabria Ultra durante il decennio francese.
Subito dopo il giovane Didier si presenta dal giudice regio, che proprio in quel momento sta leggendo una circolare a favore degli stranieri, e da questi viene a lungo interrogato prima della concessione del visto.
Didier apprezza l’ospitalità dei sandemetresi e cita la gentilezza del “mastro scarparo” che gli sistema gratuitamente le scarpe ritenendo un onore aver servito un “forestiere” e sostenendo che l’ultimo straniero passato circa quindici anni prima era stato un inglese. Il giovane francese offre brevi cenni geoantropologici evidenziando che San Demetrio è il capoluogo, San Giorgio il paese più grande mentre Vaccarizzo è famosa per le sue belle donne; inoltre, la montagna circostante è caratterizzata da miniere che non vengono sfruttate.
Lo stesso prosegue parlando delle colonie albanesi, la cui presenza in Italia si fa risalire fin dalla caduta di Costantinopoli (1453), e narrando la vita e le gesta di Skanderbeg; si sofferma a descrivere gli Albanesi che hanno condotto un’esistenza nomade nelle contrade del Regno di Napoli abbandonando,nel tempo, “l’indole oziosa e bellicosa” per dedicarsi alla vita agreste rimanendo, però, sempre dei soldati.
I paesi calabresi vicini non hanno stima degli Albanesi perché sono stati capaci di cambiare il volto delle terre che hanno ripopolato; la lingua è rimasta pressoché integra ma hanno dovuto subire gli italianismi e ricorrono al calabrese solo in caso di necessità. Il governo cerca di integrarli con la “sua livella di ferro”, infatti, una legge del 1821 li costringe a non portare armi, pena la morte!
Didier prosegue descrivendo il carattere gaio ed ospitale degli Albanesi che però il regime poliziesco, “idra dalle mille teste”, ha ridimensionato, ma, nonostante tutto essi conservano uno spirito generoso! “Tu vedi ormai solo la nostra ombra; ai tempi della mia giovinezza avresti trovato l’Albania sulle montagne di Calabria. La gente ti avrebbe ricevuto a festa e al suono delle chitarre; ti avrebbero invitato ai banchetti; ma oggi siamo noi stessi? Hanno paura di te, ti prendono per spia!”, gli confida sconsolato un vecchio sandemetrese, che forse fa parte del corteo di curiosi che
lo accompagna per le strade del paese.
Le sue note proseguono con il culto affermando che i fedeli seguono il rito greco e
riconoscono la curia di Roma “ che detestano definendola perfida e rapace”; egli descrive sacerdoti colti che, oltre dalle autorità e che per questo essi acquistano a peso d’oro: “Insomma, il clero albanese è protestante quanto quello di Ginevra e Edimburgo”. Le note curiose continuano con il sacro terrore che domina il vescovo di Bisignano circa i matrimoni dei sacerdoti albanesi che ricatta concedendo favori solo a quelli che se ne astengono.
Didier si reca quindi a S. Adriano, dove viene ricevuto dal vescovo-presidente Mons.
Domenico Bellusci (1774-1833), di Frascineto, “istruito e affatto fanatico”, che lo fa partecipe di una sua futura pubblicazione storica che paragona gli Albanesi alle antiche popolazioni germaniche, avendo in comune la passione “per le armi e la libertà”. Il Bellusci ha come testo di riferimento quello di Angelo Masci che presta al suo gradito e colto ospite.
La narrazione del Didier continua con la descrizione della condizione della donna albanese totalmente ignorante e sottomessa all’uomo e prosegue descrivendo le usanze del paese: i funerali raggiungono livelli di parossismo con uomini e donne che urlano, si percuotono il petto e si tirano i capelli aggiungendo che dopo l’orazione funebre tutto termina con un lieto banchetto!
Il matrimonio, simile a quello che si svolge ai nostri giorni, si celebra in una chiesa “nuda e buia”; il costume delle donne è italianizzato nella forma ed i colori contrastanti sono sia calabresi che albanesi. Il velo è “scarlatto bordato di bleu o giallo, il corsetto verde, ricamato di oro. Esse lo chiamano vulgarida (sic!) dal nome di un uccello da cui ha preso la forma. È graziosissimo e poiché le fanciulle sono tutte ben messe, fa perdere la testa”! I costumi sgargianti contrastano con la chiesa buia ma il giovane Didier viene colpito dalla figura di una giovane assorta nella preghiera:
“Questa bella testa greca, tutta illuminata, si stagliava come una visione celeste sulle tenebre del luogo sacro” mentre vari cori innalzavano inni sacri fra le sue volte.
Didier, attratto dai canti albanesi, viene indirizzato dal vescovo Bellusci presso un suo amico di Santa Sofia che ne ha curato una raccolta.
Il tragitto si presenta arduo per le asperità del territorio caratterizzato da profondi burroni senza ponti; di tanto in tanto dalle alture si intravedono scorci del Crati e della pianura di Sibari “oggi trasformata in palude insalubre e popolata da bufali e da selve piene di lupi”.
Nell’impervio itinerario il viaggiatore è preceduto da un albanese che intona un’aria
evocante nel francese “la mitologia poetica della Grecia moderna”. Il canto narrava della disperazione di una madre che aveva il proprio figlio unico prigioniero in una terra tanto lontana che lui non poteva mandarle notizie. Un giorno il giovane scrisse una lettera che attaccò alle piume di un uccello che andò a posarsi vicino alla donna lasciando cadere la missiva su cui era scritto: “
Madre, tornerò da voi quando cucirete una camicia con i vostri capelli e la laverete con le vostre lacrime, quando il mare diventerà un giardino di fiori e quando il sambuco porterà fichi e il noce uva!”.
Didier finalmente giunge presso l’abitazione del Barone **** di Santa Sofia, che in quel
momento non dall’aspetto del giovane che non aveva le sembianze del mendicante pur presentandosi in disordine per il penoso viaggio.
La donna, visibilmente imbarazzata, venne tranquillizzata dal giovane viandante che le
assicura di trovarsi lì solamente per “elemosinare canti”.
Subito dopo si manifesta la generosità dei sofioti: tutte le case erano aperte per lui! Il nipote di Pasquale Baffi si mostrò il più ospitale. La considerazione espressa dal Didier sul piccolo paese di Santa Sofia era positiva avendo dato i natali a uomini illustri: “Tutti gli italo-albanesi sono, del resto, dotati di un’intelligenza aperta e di una mentalità vivace e pronta”.
La spedizione di Didier, però, non giunge a buon fine perché la raccolta di canti è stata portata a Cosenza e forse è andata persa, ma non dispera confidando nell’oralità che si perpetuava da secoli nelle generazioni locali. Volendo ascoltare qualche componimento dalla viva voce dei sofioti viene condotto da una vegliarda che ricordava “brani sparsi” di questi canti intonandoli con un’armonia lenta e monotona.
La vecchia gli canta le gesta di Skanderbeg e di “Costantino il piccolo” – una versione
diversa da quella a noi nota – muovendo il busto al ritmo del canto.
Il giorno seguente Didier lascia Santa Sofia accompagnato dai suoi amici fino alle rive del Crati che attraversa “sulle robuste spalle di un montanaro”.
Le prossime tappe saranno Civita – di cui abbiamo già parlato – e San Costantino Albanese.
(Apparso in “Katundi Ynë – Paese Nostro”, Anno XLI –n.140 – Settembre 2010)
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