lunedì 30 aprile 2012

Un sorriso, ogni tanto, non fa mai del male.

CHI VUOL FARE IL PARROCO?

Se inizia le funzioni al minuto esatto, è un perfezionista.
Se inizia qualche minuto più tardi, non ha rispetto per i fedeli.
Se predica per più di dieci minuti, è prolisso.
Se predica di meno, è facilone.
Se si prepara le prediche, è arido.
Se le improvvisa, è superficiale
Se la parrocchia non ha fondi, è un cattivo amministratore.
Se menziona il denaro, è troppo avido.
Se dà attenzione ai poveri della parrocchia, gioca a fare il megalomane.
Se dà attenzione ai ricchi, gioca a fare l'aristocratico.
Se visita i parrocchiani, è irreperibile.
Se non li visita, è indifferente.
Se organizza feste, è uno che sfrutta i parrocchiani.
Se non le organizza, è uno che li priva di vita sociale.
Se prende tempo per le confessioni, è uno che tira tardi.
Se non ne prende, è uno che non si dedica ai fedeli.
Se decora la chiesa, è uno spendaccione.
Se non la decora, è uno che la porta alla rovina.
Se richiede cambiamenti per migliorare la chiesa, è un dittatore.
Se non richiede cambiamenti, è un immobilista.
Se condanna le azioni peccaminose, è un bigotto.
Se non le condanna, compromette la verità.
Se predicando espone fatti veri, è offensivo.
Se si limita a fare allusioni, è un ipocrita.
Se non riesce ad accontentare qualcuno, danneggia la chiesa.
Se cerca di accontentare tutti, è uno scemo.
Se non ha una bella automobile, getta vergogna sui fedeli.
Se ha una bella automobile, pensa solo all'immagine.
Se predica tutte le volte, ama ascoltare se stesso.
Se invita altri predicatori, si ritrae dalle sue responsabilità.
Se riceve un buon compenso, è un mercenario.
Se non lo riceve, questo prova che comunque non vale granché.
Se è giovane, è inesperto.
Se è vecchio, deve andare in pensione.
Se muore... non ce ne sarà più uno come lui!

sabato 28 aprile 2012

Nicola D'Amico tramite facebook
La risurrezione di Cristo è l’annientamento della morte
del protopresbitero Giorgio Metallinos
Preside della Facoltà di Teologia dell’Università di Atene

L’evento più significativo della storia: la risurrezione di Cristo è l’evento più significativo avvenuto nella storia. È l’evento che differenzia il Cristianesimo da ogni altra religione. Altre religioni hanno capi mortali, mentre il Capo della Chiesa è il Cristo Risorto. La “Resurrezione di Cristo” implica la deificazione e la resurrezione della natura umana, e la speranza per la deificazione e la risurrezione delle nostre stesse ipostasi. Da quando il farmaco è stato scoperto, allora c’è speranza per la vita.
Con la risurrezione di Cristo, la vita e la morte assumono un nuovo significato. La “Vita” ora è la comunione con Dio, “la morte” non è più la fine di questa vita presente, ma il distacco dell’uomo da Cristo. La separazione dell’anima dal corpo mortale non è più vista come “morte”, è solo un sonno temporaneo.
È la risurrezione di Cristo, che giustifica la sua unicità ed esclusività, come il Salvatore che davvero è in grado di darci la vita e ci trasfonde la Sua Vita che vince la morte nella nostra vita deperibile. Cristo è uno, una è la risurrezione, ed anche la possibilità per la salvezza-deificazione è una. È per questo che la nostra aspettativa di superare tutte le impasse che confondono la nostra vita è orientata verso Cristo, al Cristo dei Santi, al Cristo della storia.
Il “Cristo” distorto che si trova nelle eresie o il Cristo “relativizzato” che si trova nel sincretismo religioso della New Age pan-religiosa costituiscono un rifiuto del vero Cristo, e della salvezza offerta da Lui. Il Cristo dei nostri Santi è anche il Cristo della storia, ed Egli esclude ogni possibilità di confonderLo con tutti gli altri sostituti redentivi inventati per indurre in errore le masse, perché questo inganno è l’unico modo possibile per mantenere qualcosa di fraudolento: facilitando il dominio dei poteri dell’Anticristo (poteri che si sono con facilità infiltrati anche nella Chiesa); poteri, che anche se diffondono la morte sul loro cammino, tuttavia, possono apparire come “angeli di luce” e “diaconi della giustizia”.
Studiando l’esperienza dei nostri Santi, ci rendiamo conto che non ci sono esistenze più tragiche di quelle “che non hanno speranza” – la speranza di resurrezione – in quanto questi considerano la morte biologica, come la distruzione e la fine. Purtroppo, la scienza ha inoltre ceduto a questo tragico stato, con la disperata ricerca di metodi per prolungare la durata della vita dell’uomo e per trasmettere l’illusione di poter vincere la morte naturale. Tuttavia, altrettanto tragiche sono le esistenze di coloro che – anche cristiani – si trovano intrappolati in visioni millenariste “ermeticamente chiuse” di beatitudine universale ed escatologia mondana (perdendo così il vero significato della Resurrezione), e sacrificano l’iper-cosmico all’endo-cosmico, l’eterno al transitorio.
La risurrezione di Cristo come la resurrezione dell’uomo e di tutta la Creazione acquista un significato solo nel quadro della soteriologia patristica, in altre parole, nella co-crocifissione e nella co-risurrezione con Cristo. Questo è il modo in cui l’Ellenismo ha inoltre conservato la risurrezione durante il suo corso storico. Sempre fedele alla risurrezione di Cristo, l’Ortodossia è stata caratterizzata come “Chiesa della Resurrezione”, perché è sulla Risurrezione che struttura la sua presenza storica, innestando la speranza della resurrezione nella coscienza dei popoli; fatto che si rivela nel suo seguito culturale. Tra essi, il popolo ellenico ha anche imparato a dissipare – alla luce della Risurrezione – l’oscurità che permeava i propri anni di schiavitù (quale è stata l’occupazione turca) durante la quale non avrebbero esitato ad augurarsi l’un l’altro “Cristo è risorto!” per aggiungere: “e la Grecia è risorta!”. Ed hanno mantenuto questo, per ben quattrocento anni...
È in questo quadro teorico che è contenuto l’invito di piena-speranza del “Venite e ricevete la luce!”. È un invito alla pasquale Luce increata, che è concessa solo a coloro che hanno purificato il loro cuore da vizi e passioni. Senza la “catarsi” del cuore – in altre parole, il pentimento – non si può essere in comunione con la luce della risurrezione. Il pentimento è il superamento del peccato, la causa della nostra morte.
Questo fatto ci viene costantemente ricordato con il peculiare (per l’orecchio non iniziato) detto monastico: “Se muori prima di morire, allora non morirai quando muori!”.
Cristo è risorto!

Tradotto per © Tradizione Cristiana da E. M. marzo 2010

Dal sito amico: http://makj.jimdo.com/

L’INVENZIONE DEL PURGATORIO
 
“In una società profondamente impregnata di religione
cambiare la geografia dell'aldilà significa operare

una vera rivoluzione mentale, vuol dire cambiare la vita.”
 
Jacques Le Goff
Copertina del libro di Jacques Le Goff
 
1. La nuova geografia dell’aldilà: un terzo luogo, il purgatorio. (1)
     L’aldilà cristiano bipolare rimase pressoché invariato fino al XII secolo, quando grandi mutamenti religiosi e sociali sfociarono nella nascita di una nuova società che trasformò la propria visione del mondo, non soltanto quaggiù ma anche nell’aldilà.
     Sant’Agostino aveva diviso gli uomini in quattro categorie: i «del tutto buoni» destinati al paradiso; i «del tutto cattivi» spediti all’inferno; i «non del tutto buoni» e i «non del tutto cattivi» per i quali non si sapeva bene che genere di sorte Dio avesse in serbo. Si pensò che i defunti che, morendo, avevano sulla coscienza soltanto peccati «leggeri» se ne sbarazzassero dopo la morte subendo «pene purgatorie» attraverso un «fuoco purgatorio» simile al fuoco infernale e situato in certi «luoghi purgatori».
     L’individuazione di questi luoghi restava assai vaga. Alla fine del VI secolo Gregorio Magno pensò che potessero trovarsi sulla terra, ma la soluzione più frequentemente adottata fu quella di distinguere all’interno dell’inferno una Geenna inferiore, l’inferno propriamente detto da cui non si usciva mai, e una Geenna superiore dalla quale, dopo un periodo più o meno lungo di supplizi e di purgazione, si poteva ascendere al paradiso.
     Nella seconda metà del XII secolo si inventò un luogo indipendente per questi eletti rimandati, il purgatorio. Fu il «terzo luogo dell’aldilà», intermedio fra il paradiso e l’inferno, che sarebbe scomparso al momento del Giudizio finale, ormai svuotato dei suoi abitatori, tutti saliti in cielo. La durata del soggiorno in purgatorio dipendeva da tre fattori. In primo luogo, era proporzionale alla quantità di peccati (ormai chiamati «veniali», ossia riscattabili, per contrasto con i peccati mortali irredimibili che non potevano evitare l’inferno) che pesavano sul defunto al momento della morte. Poi, dipendeva dai «suffragi» (preghiere, elemosine, messe) che alcuni vivi, parenti o amici, pagavano per abbreviare il tempo di purgatorio di certe «anime». Infine, la Chiesa, dietro pagamento in denaro, poteva ottenere il riscatto integrale o parziale del tempo di purgatorio che restava da scontare ad alcuni defunti. Si trattava di quelle «indulgenze» di cui la Chiesa, a partire dal Duecento, fece un commercio sempre maggiore.
     Il purgatorio, per finire, era a senso unico. Se ne usciva soltanto per andare in paradiso. Non si poteva «retrocedere» verso l’inferno.
   Grande fu l’importanza di questo terzo luogo, che svuotava parzialmente l’inferno e sostituiva il sistema binario dell’aldilà con un sistema più complesso e più elastico, conforme all’evoluzione degli «statuti» sociali terreni, e che fu ampiamente diffuso dai frati degli ordini mendicanti creati all’inizio del Duecento (domenicani, francescani).
    L’“invenzione” del purgatorio […] accrebbe in modo considerevole il potere sui morti [ma anche sul denaro dei vivi…] della Chiesa (che nel Duecento trasformò l’esistenza del purgatorio in dogma) in quanto, tramite i suffragi e le indulgenze che erano di sua pertinenza, essa estese all’aldilà del purgatorio un potere giurisdizionale che, in precedenza, era appartenuto soltanto a Dio. 
 
2. Intervista a Jacques Le Goff (2)
 
«Il Purgatorio di Dante rappresenta la conclusione sublime della lenta genesi del Purgatorio avvenuta nel corso del Medioevo». Lo ricorda Jacques Le Goff, il celebre medievista francese, che quasi venticinque anni fa pubblicò La nascita del Purgatorio, un saggio appassionante, il cui ultimo capitolo era proprio dedicato alla seconda cantica del capolavoro dantesco.
     «Quella proposta da Dante è una costruzione complessa, la più ricca di tutta la storia del Purgatorio, il quale non è mai stato descritto con altrettanta dovizia di particolari e di significati», spiega lo storico oggi ottantunenne, ricevendoci nella sua abitazione parigina ingombra di libri, tra i quali figurano anche i due ultimi tradotti in italiano, Il corpo nel Medioevo e, in uscita tra pochi giorni, Eroi & meraviglie del Medioevo (entrambi da Laterza). «La forza del poema dantesco», prosegue, «ha contribuito in maniera decisiva ad ancorare nell'immaginario collettivo l'esistenza di questo "terzo luogo", la cui nascita era tutto sommato recente».

Vuol dire che, per i primi cristiani, il Purgatorio non esisteva?


«Esatto. E' convinzione diffusa che il Purgatorio sia sempre esistito, ma non è affatto così. Esso ha preso forma nella seconda metà del XII secolo. In precedenza, pensando all'aldilà, gli uomini immaginavano solo due luoghi antagonisti, l'Inferno e il Paradiso. A poco a poco, ha poi iniziato a delinearsi una realtà intermedia, la cui funzione era quella di consentire la purificazione delle anime prima dell'ingresso nel Paradiso. Il Purgatorio, quindi, non è nato all'improvviso e già definito nelle sue caratteristiche. E' piuttosto il risultato di una lenta e progressiva maturazione legata a un insieme di cambiamenti intervenuti nelle credenze e nei comportamenti degli uomini del Medioevo. Fin dalle origini, il cristianesimo aveva immaginato la possibilità che le anime potessero liberarsi dai peccati rimasti dopo la morte. Nel VII secolo s'inizia a parlare di "fuoco purgatorio " e di "pene purgatorie", ma fino a metà del XII secolo il luogo dove le anime si purificano resta indefinito. La grande novità introdotta dal Purgatorio è la definizione di un luogo unico, preciso e riconoscibile. Ma l'esistenza di un terzo luogo dotato di uno statuto di unicità implica diverse conseguenze».


Può fare qualche esempio?
 
«La nascita del Purgatorio modifica la giurisdizione esercitata sui morti, favorendo la pratica delle indulgenze. Secondo la dottrina tradizionale, gli uomini da vivi rispondevano al tribunale della Chiesa, una volta morti però erano giudicati solamente dal tribunale di Dio. Con il Purgatorio si crea una sorta di tribunale comune in cui intervengono sia Dio che la Chiesa. Le anime che vi transitano, infatti, continuano a dipendere da Dio, ma beneficiano anche dell'azione della Chiesa che distribuisce le indulgenze. Il Purgatorio, dunque, ha rinforzato il potere della struttura ecclesiastica, che così, oltre che dei vivi, è responsabile in parte anche dei morti. Una situazione che la Riforma protestante ha in seguito fermamente condannato. Per gli uomini del Medioevo però l’esistenza del Purgatorio accresceva le speranze di salvezza, dato che non tutto era definitivamente stabilito al momento della morte. Perfino per gli usurai, che fino ad allora erano irrimediabilmente condannati all'Inferno, inizia a profilarsi un aldilà meno cupo. Naturalmente vivere con tale speranza modifica radicalmente la prospettiva della vita quotidiana».

Come si spiega l'avvento del Purgatorio?


«Il passaggio da un aldilà caratterizzato da due luoghi antagonisti, Inferno e Paradiso, a un aldilà articolato in tre regni va messo in parallelo con l'arretramento del manicheismo avvenuto nella società medievale tra la metà del XII e la metà del XIII secolo. Il mondo medievale diventa più sfumato. L'antica opposizione tra ricchi e poveri, potenti e deboli, inizia a modificarsi con l'emergere di una fascia intermedia. Nella gerarchia sociale, tra signori e sudditi, si profila la categoria dei borghesi. Sul piano culturale, altri elementi che giocano a favore della nascita del Purgatorio sono il crescente interesse per le rappresentazioni geografiche come pure le nuove traduzione di Euclide, da cui si ricava la nozione di intermediario. Più in generale, poi, la nascita del Purgatorio s'inseriva in quel lento processo che di solito viene definito come la discesa dei valori dal cielo alla terra. Da questo complessa evoluzione della società è nata la credenza del Purgatorio, credenza che poi si è diffusa grazie alle predicazioni di francescani e domenicani».


All'inizio il terzo luogo come viene rappresentato?


«In realtà, vi furono molte resistenze alla credenza del Purgatorio e l'arte da questo punto di vista fu abbastanza conservatrice. Le prime rappresentazioni del regno intermedio appaiono alla fine del XIII secolo, come quella del Breviario del Re Filippo il Bello. Per gli artisti dell'epoca era certamente difficile rappresentare un regno per sua natura provvisorio, a metà strada tra Inferno e Paradiso. Le prime immagini propongono uno spazio simile all'Inferno, in cui alcuni angeli vengono a sottrarre al castigo delle fiamme le anime dei giusti, le quali spesso sono rappresentate in preghiera con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo. Bisognerà aspettare il XV secolo per avere delle vere e proprie rappresentazioni del Purgatorio, nelle quali è evidente l’influenza decisiva di Dante, il quale, inserendo il terzo luogo al centro della più importante opera letteraria del Medioevo, ha fondato una nuova iconografia e un nuovo immaginario. Non a caso le più antiche illustrazioni del Purgatorio come luogo autonomo e geograficamente definito sono quelle legate alla Divina Commedia».


Immaginare il Purgatorio come una montagna fu una novità?


«Certamente. Dante ha trasformato completamente la geografia dell'aldilà. Per lui, il Purgatorio non è più un luogo sottoterra, vicino e simile all'Inferno. E' invece una montagna che si erge in mezzo al mare, fatta di circoli concentrici che le anime percorrono dal basso verso l'alto. Per accedere al Paradiso devono risalire completamente le pendici del Purgatorio, con un percorso ascensionale inverso a quello dell'Inferno. Dante traduce in immagini l'elemento rivoluzionario introdotto dal Purgatorio, vale a dire la dimensione della speranza. Una speranza che sul piano dell'immaginario collettivo cambia tutto».


Eppure nel Purgatorio rimangono diversi aspetti ricollegabili all'Inferno...


«E' vero. La dottrina della Chiesa immagina le anime del Purgatorio come dotate di una specie di corpo che le rende sensibili alle sofferenze, sia quelle spirituali che quelle corporali. Nel Purgatorio esse subiscono pene simili a quelle dell'Inferno, ritrovando il fuoco, che ne è l'elemento più tipico e virulento. Nonostante ciò, Dante ha molto contribuito a sottrarre il terzo luogo al dominio dell'Inferno. Egli, infatti, ha attribuito al Purgatorio uno statuto autonomo, uguale a quello degli altri due luoghi, mentre la Chiesa aveva la tendenza a farne una regione dipendente dall'Inferno. Il poeta fiorentino è uno spirito positivo, ispirato verso l'alto dal suo umanesimo, e quindi la sua visione del Purgatorio ne risente. Al contempo però, mantenendo il Purgatorio lontano e diverso dal Paradiso, grazie anche al paradiso terrestre che fa da confine, egli ne sottolinea il carattere provvisorio. Dopo il giudizio universale, infatti, resteranno solo l’Inferno e il Paradiso. Tra le anime ci saranno solo eletti o dannati. E quelle passate per il Purgatorio accederanno al regno dei cieli».


Come ha reagito la Chiesa al poema dantesco?


«Come ho detto, la Divina Commedia ha svolto un ruolo fondamentale nel processo che ha imposto il Purgatorio come un elemento essenziale dell'oltretomba. La Chiesa pero non se ne è occupata più di tanto. Dante era un laico e quindi il suo straordinario poema non venne preso in considerazione come opera spirituale. Egli però non è solo un immenso poeta ma anche un uomo di pensiero, che quindi ha saputo pensare il Purgatorio, rappresentandolo in maniera completa e introducendo perfino alcuni elementi originali, come ad esempio l'antipurgatorio».


Quali sono gli episodi del Purgatorio che lei ricorda più volentieri?


«Mi piace molto il canto undicesimo, quello del girone dei superbi, dove Omberto Aldobrandeschi parla della vanità della gloria mondana. Si tratta di versi particolarmente commoventi e efficaci. Ma vorrei anche ricordare l'inizio del canto settimo, dove, attraverso le parole di Virgilio, Dante sottolinea il senso simbolico dell'ascensione della montagna. Un viaggio verso la beatitudine».
 
 
3. Secondo la Chiesa ortodossa (3)
 
In sintonia con i Padri della Chiesa, la teologia ortodossa parla di uno stato intermedio dopo la morte, di beatitudine per i giusti e di tormento per i peccatori: uno stato ancora privo (prima del Giudizio Finale) di un carattere definitivo. Per coloro che sono morti con piccoli peccati inconfessati, o che non hanno portato frutti di pentimento per i peccati confessati in vita, si parla della purificazione di questi peccati o nella prova della morte, o attraverso l'intercessione della Chiesa (con la preghiera e le buone opere dei fedeli). Questa intercessione è in grado anche di dare una certa misura di sollievo ai tormenti dei peccatori destinati al castigo eterno, come testimoniano numerosi Padri e alcune preghiere pubbliche della Chiesa per i defunti (per esempio, la terza delle preghiere in ginocchio della domenica di Pentecoste, attribuite a San Basilio). Ogni perdono di peccati dopo la morte viene unicamente dalla bontà di Dio, con la cooperazione delle preghiere degli uomini, e senza bisogno di alcuna forma di "soddisfazione" o "pagamento". La Chiesa cattolica romana era giunta, al tempo del concilio unionista di Lione, a considerare lo stato intermedio dei defunti prima del Giudizio Finale come definitivo e irreformabile. L'inutilità di pregare per i beati già perfetti, o per i dannati senza speranza, giunse a fare ipotizzare un "terzo stadio" di sofferenza limitata e purificatrice, dove anche i peccati già perdonati devono ricevere "soddisfazione". La tradizione ortodossa vede questa dottrina come qualcosa di essenzialmente estraneo alla fede apostolica, aggravata dall'assenza di riferimenti espliciti, nelle Sacre scritture, a uno stato che non sia quello della beatitudine dei giusti o del tormento dei peccatori.
    Il Purgatorio nasce dalla concezione di una punizione ecclesiastica che deve necessariamente corrispondere a ogni peccato, in questa vita o nella prossima, e dalla nozione giuridica di opere supererogatorie (in eccesso rispetto al necessario per la salvezza), una dottrina sviluppatasi nella scolastica del XIII secolo, e confermata da Papa Clemente VI nel 1343. Questa dottrina per l'Ortodossia, non solo non è scritturale, ma addirittura in chiaro contrasto con le parole di Cristo (i "servi inutili" di Lc 17,10 non sembrano depositari di meriti sovrabbondanti). L'ideale di perfezione cristiana, del resto, è per i fedeli ortodossi così alto, che la sua stessa irraggiungibilità esclude a priori che si possa superarne la misura.  Infine, l'Ortodossia mantiene serie riserve sul contorno legalistico che il Cattolicesimo romano ha costruito attorno al Purgatorio, così come sulla pratica delle indulgenze (ovvero il trasferimento dei meriti sovrabbondanti di Cristo e dei Santi per colmare i debiti dei peccatori), che ne è il logico coronamento”.
 
NOTE
 
(1) Da Dizionario dell’Occidente medievale, Einaudi - Voce: Aldilà – a cura di Jacques Le Goff (in http://annamaria75.altervista.org);
(2) Intervista pubblicata sul giornale “La Repubblica”, del 27 settembre 2005 di Fabio Gambero (Parigi) – Il libro di Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio è edito dalla Casa Editrice Einaudi (collana Einaudi Tascabili). Jacques Le Goff (1924) è uno storico francese, studioso della storia e della sociologia del Medioevo tra i più autorevoli nel campo della ricerca agiografica;
(3) Da “99 differenze tra Ortodossia e Cattolicesimo romano” (vedi Il PDF nel nostro LINK BESA);

venerdì 27 aprile 2012

Ho ricevuto questa e-mail, l'ho letta attentamente e senza fare commenti personali la posto.
Non sono io "povero prete di montagna" a dare giudizi in merito e su fatti che non rientrano 
nell'ambito circa la mia Giurisdizione Canonica di appartenenza.
Sono fatti a cui personalmente preferisco non fare nessun commento, per quel che mi riguarda, prego solamente Dio affinchè nella nostra amata "Ortodossia" non succedano più, anzi non succedano mai cose del genere. Ognuno che leggerà, sia solo lui e nessun altro a dare un giudizio imparziale a questi fatti, che
danno impressioni sbagliate sul ruolo, in suolo italiano, della Santa e bi-millenaria Ortodossia e dei suoi fedeli, dei suoi chierici, dei suoi monaci e delle sue gerarchie eclesiastiche.

Intervista a Roma di P.Nilos Vatopedinos
pubblicata il 25aprile del 2012 da  www.romfea.gr.

Abbiamo incontrato il P. Nilos Vatopedinos durante un coffee break del Convegno Internazionale svoltosi nella Pontificia Università Lateranense  di Roma.
Il Primo dei Congressi Internazionali, programmati in Italia per celebrare il 17 centenario della pubblica dichiarazione di adesione di Costantino al cristianesimo ha avuto luogo alla presenza di cardinali, ambasciatori e noti scienziati. Durante il corso dei lavori è emerso come la questione”costantiniana”, prosegua ad essere dibattuta, dal quarto secolo ad oggi, tanto riguardo alla personalità dell’imperatore, quanto al tempo della sua conversione e alla sua legislazione. In questi ultimi anni nuovi studi hanno approfondito questi temi, basati sulle opere di Lattanzio e di Eusebio di Cesarea, i noti autori cristiani che di persona hanno conosciuto l’imperatore Costantino. Le interessanti relazioni presentate hanno registrato, ancora una volta, le contrastanti opinioni di noti scienziati, relativamente alla conversione e al Battesimo di Costantino.
Durante il corso dei suoi interventi il p. Nilos Vatopedinos, Professore ordinario di Diritto Romano e Bizantino nell’Università Magna Graecia di Catanzaro, ha prospettato sue osservazioni sul sommo sacerdozio imperiale di Costantino, “vescovo ton ektos”, sul suo ruolo di isapostolo, protettore di tutti i cristiani anche al dì fuori dell’impero romano. Lo studioso ha evidenziato come la Chiesa Ortodossa ne riconosca la santità e lo prospetti come modello di tutti gli imperatori e legislatori cristiani.
P. Nilos ha rilasciato a romfea.gr. la seguente dichiarazione scritta relativa alla sua riduzione all’ordine monastico.
Caro signor Poligene, dopo aver taciuto per 4 anni di ininterrotte persecuzioni, sono stato informato mediante internet dell’atto della mia deposizione dal sacerdozio, specificamente dal sito ufficiale della Metropolia I’Ortodossa di Italia e di Malta, e da un altro sito web greco di notizie ecclesiastiche, che da ultimo pare funzionare come ufficio stampa atipico del Patriarcato ed, inoltre, cosa del tutto inconcepibile, in face book, dal vicario generale dell’Arcidiocesi Ortodossa di Italia, Evangelos Ifantidi..!
Ho scelto di rispondere mediante romfea.gr alle domande di quanti sono rimasti attoniti alla notizia. Indubbiamente già i miei rappresentanti legali hanno compiuto i passi necessari, in Grecia ed in Italia. La questione trova origine in un rapporto, pesantemente provocatorio, inviato dal Metropolita di Italia e Malta,  nell’ottobre del 2011, al Patriarca Ecumenico. Firmato dall’autore “con amore privo di ipocrisia” (è possibile amore ipocrita..!), il documento provoca in realtà tutta la Santa Chiesa Ortodossa, Nostra amata Madre e, di seguito, la Grecia e l’Italia, paesi dei quali ho l’onore di essere cittadino.
Dal giugno del 2010 non appartengo al Sacro Clero, né della Metropolia di Italia, né della Metropolia di Dimitriade (Grecia). Con licenza canonica della Metropolia di Dimitriade, data in seguito a decisione del Monastero di Vatopedi, sono ritornato lì per motivi di salute ed altri originati dai miei crescenti impegni di professore ordinario di Giurisprudenza. Sono stato dunque giudicato e condannato da qualcuno che non mi ha mai cercato da quell’ora. Sono stato calunniato e pesantemente offeso nel mio onore tanto di Monaco Aghiorita e di professore universitario, pur senza essere stato mai chiamato a difendermi. Infatti, da quando sono chierico non sono stato mai canonicamente convocato da un Tribunale Ecclesiastico né a Venezia, né a Volo, né altrove.
I sacri canoni riferiti nell’atto di deposizione sono i seguenti:
1) Il canone 31 del Santi Apostoli condanna chi ha eretto un altare separato dal proprio Vescovo. Al dì fuori del Monte Athos, sono stato canonicamente appartenente soltanto alle Metropolie di Italia e di Dimitriade. In nessuna di entrambe ho compiuto tale reato. Questo Canone, punisce inoltre, i Presbiteri che hanno concelebrato e scomunica i fedeli che hanno partecipato alla Sacre Funzioni, lì svolte.
2) I Canoni 18 di Calcedonia e 34 in Trullo, in accordo alla Legislazione Imperiale, condannano le società segrete. Non sono stato mai partecipe di società segrete, né ho mai agito contro la Chiesa Ortodossa e la Patria Grecia. L’accusa specifica mi costringe a rivolgermi ai tribunali dei paesi dei quali sono leale cittadino, anche se fino ad oggi non ho mai agito in giudizio contro Autorità Ecclesiastiche o civili.
3) Il Canone 13 del Concilio A-B prevede la deposizione del presbitero che non commemori il proprio Vescovo e provochi eresia o scisma. Benché il rapporto mi accusi di avere commesso anche questi pesantissimi reati contesto, categoricamente e pubblicamente, innanzi a tutta la Chiesa ortodossa queste calunnie, secondo quanto insegna il Gerontikon. Dal giugno del 2010, ho celebrato in Chiese Ortodosse, solo come Ieromonaco Vatopedino, sempre con il permesso dei rispettivi Vescovi, i quali appartengono canonicamente alle Chiese di Costantinopoli, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Grecia rientranti nell’Ortodossia universale.
Deposto dal Supremo Tribunale Ecclesiastico della Chiesa Autocefala, alla quale ho l’onore di appartenere, cioè il Patriarcato Ecumenico di Costantinipoli, ricorro alle Chiese Ortodosse nell’ambito delle quali ho celebrato dal giugno del 2010, costretto dai Sacri Canoni utilizzati nell’atto della mia deposizione.
Deposto sulla base di accuse prodotte nel menzionato rapporto, ritengo di non pubblicarlo, per adesso, per non provocare ulteriore caos e turbare maggiormente:
1) la coscienza di Chierici, Monaci e fedeli Ortodossi;
2) l’immagine pubblica del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, soprattutto in Italia.
Come Monaco Aghiorita, recepisco “l’invito della deposizione alla conversione”, resto comunque amareggiato per il modo con il quale sono stato giudicato, non conforme all’identità di noti difensori dei diritti umani e del creato.
Come cittadino della Grecia e dell’Italia, ricorro, tuttavia, ai tribunali di entrambi i paesi, per quanto penalmente rilevante, e per le conseguenze provocate anche alle mie condizioni di salute dal Metropolita di Italia, nonché cittadino Greco e Turco autore del calunnioso rapporto.
Come sincero Greco scelgo di non presentare denuncia anche innanzi ai competenti Tribunali Turchi, per avendone diritto, per rispetto all’istituzione del Patriarcato Ecumenico e allo sforzo internazionale per la riapertura della Facoltà di Teologia di Halki.
Prego Cristo Risorto di condurre i calunniatori nella strada della conversione.

mercoledì 25 aprile 2012


Domenica 29 aprile 2012
'Delle Mirofore' - Tono II
celebrazione della Divina Liturgia con inizio alle ore 10.00 presso la Parrocchia Ortodossa del Patriarcato di Mosca di San Giovanni di Kronstadt
  
   Palazzo Gallo - P.zza Vittorio Em. II                                  (di fronte la pizzeria da Armando)
Castrovillari (cs)
Carissimi Fedeli Ortodossi di Castrovillari e del circondario come sempre
vi aspetto numerosissimi, per cantare le lodi al Signore!
Per qualsiasi informazione chiamate il Parroco al: 3280140556

domenica 22 aprile 2012

Dal sito: http://ortodossia-sija.ortox.ru

Una lettera di p. Antonio Lotti a proposito delle funzioni ecclesiastiche svolte in lingue locali

 
A proposito della lingua delle funzioni ortodosse
 
L'Arciprete Antonio Lotti è il Decano del Patriarcato di Mosca per l'Italia, nonchè curatore del Compendio Liturgico Ortodosso. Con il suo permesso, riproduciamo questi brani di una sua lettera riguardante la lingua delle celebrazioni liturgiche:
 
Gentile Signor S.,
Lei è perplesso per l'uso liturgico della lingua parlata, nella fattispecie italiana. Le sue argomentazioni mi ricordano quelle di Padre Nicola Madaro, mio stimato concittadino francavillese, e ora Sacerdote a Venezia. Che dirle, che non abbia giа detto a Padre Nicola? Pur conoscendo il greco, io non sono Greco, sono Italiano. Vado più d'accordo col santo vescovo Innocenzo dell'Alaska, il quale tradusse i testi liturgici e biblici nella lingua degli Indiani Aleutini (tutt'ora Ortodossi insieme con diverse tribù del Nord America). Non vado affatto d'accordo con i vescovi germanici (eretici, tra l'altro, perchè filioquisti), che perseguitarono i santi Cirillo e Metodio con l'accusa delle loro traduzioni in slavonico (i predetti, guarda caso, professavano che le sole lingue gradite a Dio in liturgia erano il latino, il greco e l'ebraico). Penso all'orrore degli Ebrei di Palestina quando seppero che 70 saggi avevano tradotto la Bibbia in... greco! Questa versione è poi divenuta l'unica riconosciuta dai Cristiani Ortodossi, pur tradotta in centinaia di lingue "parlate", di cui solo 200 nella sfera della Chiesa Russa. Penso almeno al classico siriaco (per rimanere nell'ambito liturgico ortodosso) e alle recenti traduzioni in arabo, che hanno arginato, forse da sole, (denaro e potentati mancando) il proselitismo papista e mussulmano sugli Ortodossi Mediorientali. Penso alla lingua inglese, che ha fatto ortodossi tanti Anglosassoni (intere parrocchie e diocesi, tanto per intenderci, mentre in America le chiese dove si celebra in greco mi vengono descritte come dei club riservati su rigorosa base razziale). Concludo, per non dilungarmi con i mille esempi che ho in mente: gli Apostoli continuano oggi a parlare le lingue esattamente come il giorno della Pentecoste! Cosa le può far pensare che il parto o il medo, il fenicio o il greco della koinè siano meglio dell'italiano, dell'inglese, o dell'aleutino?
Preciso che non mi paragono certo agli Apostoli per aver tradotto qualche testo, ma affermo che questa traduzione è nell'ottica missionaria e pastorale della Chiesa, quella Ortodossa nella sua plenitudine, e quella Russa in particolare, cui mi onoro di appartenere in piena canonicità. Per ciò che mi riguarda, ho ricevuto la benedizione da ben due Ierarchi che si sono succeduti quali miei diretti superiori, e perciò non dico e non applico idee strampalate e personali, ma compio il dovere missionario con i mezzi culturali di cui dispongo. Questo è il primo punto da chiarire.
Il secondo punto verte sulla perfetta legittimità del greco liturgico. Sono d'accordo con Lei. Oltre alle Sue argomentazioni, in parte psicologiche, in parte attinenti al "numen", mi permetto di aggiungerne un'altra: alla lingua "greca" della liturgia, col suo patrimonio teologico e innologico grandioso e originale, si rifа ancor oggi la Nazione dei Romani (l'erede, cioè, dell'Impero Romano legittimo, della sua cultura e della sua fede) cui noi tutti Ortodossi (anche gli Indiani Aleutini!) apparteniamo idealmente. Non ho dunque nulla da eccepire ai suoi argomenti in favore del "greco" (forse lo si può chiamare greco-romaico), ma non mi sento di assolutizzarli al punto da disprezzare le altre lingue, che possono sempre riaccumulare il patrimonio liturgico-teologico, pur con "suoni" diversi, come è giа accaduto per lo slavonico.
A questo proposito le faccio notare che lo slavonico, così come il greco liturgico, non sono lingue morte come il latino, ma una sorta di lingua "specifica", relativamente comprensibile da tutte le classi culturali di quelle aree linguistiche; il modello per le nuove lingue è proprio questo: creare una lingua aulica, letteraria, con un dizionario specifico, e di mantenerlo per le future generazioni senza riforme degne di nota, nell'ambito dell'area linguistica prefissata; per fare un esempio, una grazia divina la si può tentare di scucire o di strappare, chiedere, o, nel linguaggio liturgico, "impetrare", a seconda dei livelli culturali, e ciò senza dover parlare greco. Introduco così il terzo punto: il linguaggio liturgico ha un vocabolario particolare e un livello elevato: verosimilmente l'Aleutino impiegato da Sant'Innocenzo è quello della "letteratura", e non quello di chi baratta pesce con pelli di castoro; l'italiano delle mie traduzioni, senza poetica e senza stile marcato, voleva avere gli stessi intenti.
Quanto al libro in sè, non gli sia severo, ma lo consideri come un esperimento per conseguimenti migliori e come una guida per chi, divenuto Ortodosso, non cessa di essere Italiano. Tutto il testo è giа stato rivisitato, e sarò grato anche a Lei se volesse farmi giungere le Sue osservazioni. A dispetto di chi usa pretesti come questi per dividere gli Ortodossi italiani e poi perderli a causa di qualche patto "ecumenico", presto stamperò anche una raccolta innologica. A Lei resterà di comprendere che le certezze della Chiesa Ortodossa non vanno cercate nelle espressioni linguistiche, nè nei "suoni" diversi che un laringe umano può emettere per significare le stesse cose, nè nella dovizie delle tradizioni locali benedette dalla Chiesa, ma nelle incrollabili verità dogmatiche della Chiesa stessa: a che cosa Le servirebbe la sicurezza di una Liturgia in greco se poi qualche ortodosso campione della grecitа barattasse con "chiese" eretiche e mondane le stesse verità della santa fede? Non si lasci dunque distogliere da argomenti marginali, e concentri la sua vigilanza sulla "parte migliore, che non Le sarа tolta" al momento del giudizio finale.
La saluto, e chiedo umilmente per Lei ogni bene dall'alto, primo fra tutti il dono della Fede Ortodossa, non greca, non russa, non siriaca, ma semplicemente e totalmente Ortodossa.
Arciprete Antonio Lotti

Dal sito: http://tradizione.oodegr.com


Archimandrita Placide Deseille
 
La mia conversione all’Ortodossia
 
(conferenza tenuta in Grecia, registrazione originale in: http://pigizois.net/france/omilies/2071_MA_ROUTE_ENVERS_%20L'%20ORTHODOXY.mp3)
 
  Sono molto felice d’essere qui ma, sfortunatamente, non parlo bene il greco. Penso quindi sia meglio che la sorella Ypandia traduca il mio intervento dal francese.
Inizialmente vorrei dirvi, con qualche discorso, come Dio mi ha condotto verso l’Ortodossia. Durante gli anni della mia formazione sia scolastica sia spirituale e religiosa, in Francia nella Chiesa cattolica esisteva un movimento di rinnovamento spirituale e intellettuale essenzialmente fondato sullo studio dei santi Padri della Chiesa. Uomini che erano spesso universitari o preti istruiti e con una fede profonda, come poteva aversi nella Chiesa cattolica, pensavano che il Cristianesimo in Occidente era divenuto qualcosa di troppo misero, chiuso, freddo, separato dalla vita e pensavano che nella dottrina e nell’insegnamento dei Padri della Chiesa si poteva trovare un Cristianesimo autentico, giovane, pieno di gioia e di freschezza. Sia nella mia famiglia che nella scuola da me frequentata, era seguita questa corrente di rinnovamento. È così che, assai giovane, quando avevo quattordici o quindici anni, ho avuto un’iniziale conoscenza di quello che potevano essere i Padri della Chiesa. In quell’epoca non pensavo di divenire monaco. Intravvedevo di sposarmi e lavorare nel mondo. Tra i quindici e i sedici anni conobbi dei monaci, frequentando dei monasteri, e incontrai un padre spirituale, Igumeno* di un grande monastero. Egli mi disse che potevo divenire monaco ed è in questa direzione che trovai la mia strada. Sono allora entrato in un monastero cattolico nel quale si seguiva una regola antica, scritta prima della separazione tra la Chiesa latina e l’Ortodossia da san Benedetto, definito il “padre dei monaci d’Occidente”. Il padre spirituale del monastero spiegava ai giovani monaci che nei Padri della Chiesa e nei Padri del deserto dei primi secoli, si trovano le sorgenti della nostra regola monastica e, allo stesso tempo, si poteva comprendere la nostra regola monastica. In questo contesto cattolico ci s’interessava all’Ortodossia ma in una prospettiva che, in seguito, capii essere inesatta: generalmente si pensava che l’Ortodossia fosse la forma orientale del Cristianesimo e che il Cattolicesimo fosse la forma occidentale. Quindi il Cattolicesimo poteva rinnovarsi e trovare una nuova gioventù ispirandosi all’Ortodossia ma conservando la sua linea tradizionale. In fondo, si pensava con una formula utilizzata in tutti quegli anni, che l’Ortodossia e il Cattolicesimo erano due forme, due maniere d’esistere d’una stessa Chiesa, erano due rami d’uno stesso albero. Pian piano, tuttavia, studiando i Padri, entrando pienamente in questo movimento di rinnovamento che partiva dalle fonti patristiche, sono arrivato alla convinzione che il Cattolicesimo in quanto tale è profondamente differente dall’Ortodossia. Le differenze non sono semplicemente superficiali, provenienti da culture differenti. Esistono delle autentiche differenze dottrinali. Mi ci è voluto del tempo per scoprirlo pienamente ma, ad un certo punto, io stesso e diversi compagni che mi avevano seguito in questo cammino pensammo non fosse più possibile restare nella Chiesa cattolica. Non era sufficiente migliorare il Cattolicesimo ispirandosi all’Ortodossia; era necessario chiedere d’essere ricevuti nella Chiesa ortodossa. In quel tempo vivevamo in un piccolo monastero fondato con l’accordo dei nostri superiori cattolici, un piccolo monastero che avevamo costruito noi stessi con le nostre mani nei pressi di una foresta. I monaci abitavano in piccole capanne di legno costruite nella foresta. Lì vivevamo la nostra vita monastica pregando e leggendo i Padri. Ogni tanto lasciavamo il monastero per fare dei viaggi in Grecia, in Romania per conoscere meglio l’Ortodossia e il monachesimo ortodosso. Non sapevamo ancora quale cammino seguire per entrare nell’Ortodossia. Un giorno con i miei compagni ci trovavamo ad Atene, in una libreria in cui cercavamo dei libri ortodossi. Lì incontrammo un prete italiano ortodosso. Gli comunicammo il nostro problema. Egli ci disse: “C’è un uomo che qui in Grecia vi può comprendere: l’Archimandrita Aemilianos, igumeno di Simonos Petra nel Monte Athos”. Siamo dunque andati nel Monte Athos, abbiamo incontrato il geronda Aemilianos, abbiamo pure incontrato altri geronda*, ad esempio il geronda Paisios, il geronda Efrem di Katounakia. Tutti ci hanno consigliato di diventare ortodossi nella Santa Montagna, di chiedere l’ingresso nella Chiesa e, allo stesso tempo, di divenire monaci nel Monte Athos. È così che divenimmo monaci di Simonos Petra. Dopo due anni nel monastero [atonita], il nostro igumeno ci ha consigliato di rientrare in Francia per creare due metochia* di Simons Petra in Francia. È quanto abbiamo fatto. Questo è stato all’origine del monastero di sant’Antonio il Grande, monastero maschile, e del monastero della Protezione della Madre di Dio, il corrispondente monastero femminile. Le cose si evolsero in tal maniera che uno dei membri del nostro gruppo fondò un terzo metochion femminile di Simonos Petra nella Francia occidentale: il monastero della Trasfigurazione.
Perché dei monasteri in Francia? Era certo molto più facile condurre la vita ortodossa nel Monte Athos. Evidentemente ci sarebbero stati problemi di lingua, di adattamento ma con il tempo sarebbero stati superati. Il geronda Aemilianos era molto cosciente del fatto che stava per nascere la Chiesa ortodossa in Francia. La Francia non era più ortodossa dalla separazione con l’Ortodossia nell’XI secolo ma gruppi consistenti di ortodossi si erano stabiliti in Francia, a causa dell’emigrazione russa dopo la rivoluzione sovietica e dell’emigrazione greca dopo la catastrofe dell’Asia minore. Quindi, pressappoco dal 1920, l’Ortodossia riapparse in Francia, composta soprattutto da gruppi di stranieri. Molto presto, verso il 1926 o il 1930, dei francesi, pure dei preti cattolici, cominciarono a convertirsi all’Ortodossia. Erano soprattutto persone che avevano partecipato al movimento del ritorno ai padri della Chiesa di cui vi ho parlato all’inizio. Attorno al 1975, epoca in cui siamo divenuti ortodossi, nonostante il tempo trascorso, nonostante un numero relativamente importante di francesi divenuti ortodossi, l’Ortodossia rimaneva ancora esclusivamente legata a questo contesto di emigrazione. Il geronda Aemilianos era convinto che dei monasteri sarebbero stati un fermento per una ortodossia veramente francese. In quell’epoca in Francia era apparso qualche monastero prima delle nostre fondazioni. Due di questi monasteri erano russi. Erano monasteri di monache. Gli altri erano fondati da francesi. Noi ci siamo inseriti in questo movimento di fondazioni monastiche ortodosse in Francia. Ora sono pressappoco vent’anni che il nostro monastero di sant’Antonio il Grande è stato fondato e questo ci ha permesso di verificare l’esattezza della visione del nostro padre igumeno. Penso che l’esistenza di monasteri, particolarmente di tradizione atonita, caratteristica del nostro metochio atonita, sono molto utili per la Chiesa in Francia. I nostri monasteri sono divenuti luogo d’incontro e di raccolta in cui ortodossi di diverse origini, possono ritrovarsi, conoscersi e prendere coscienza che sono tutti membri di un unico Corpo di Cristo superando qualsiasi nazionalismo. D’altronde, da una trentina di anni in Francia, si è sviluppato una specie di movimento spirituale, o almeno un movimento di ricerca spirituale. I suoi aderenti si sono staccati dal Cattolicesimo, nel quale hanno pensato di non trovare sufficiente nutrimento spirituale, preferendo rivolgersi all’induismo o al buddismo. Per tali persone i monasteri ortodossi con una ricca tradizione spirituale, in cui si può prendere conoscenza dell’insegnamento dei padri spirituali, di tutti i geronda apparsi nel Monte Athos e in Grecia in questi ultimi trenta o quarant’anni, sono stati una scoperta. Questo ha permesso a tali persone allontanate dal Cristianesimo, di ritrovare una forma di vita cristiana, una fede cristiana, che ha tutta la ricchezza, tutta la pienezza dell’Ortodossia. Qualche volta dico che i monaci ortodossi in Francia hanno un ruolo di missionari tra i buddisti! Ecco, dunque, riassunto brevemente quanto stiamo cercando di fare in Francia. Per questo è necessario seguire una linea rigorosa con il Monte Athos. Però non solo con il Monte Athos ma con la Grecia e Cipro. Infatti il monachesimo non si può separare dal popolo ortodosso. Il monachesimo è come una pianta che deve immergere le sue radici nel popolo ortodosso! In Francia il popolo ortodosso è ancora piccolo per conoscere molte cose e, dunque, è presso voi [greci] che cerchiamo questo radicamento, questa tradizione e questo sostegno fraterno.
Penso che, ora, la cosa migliore sia che facciate delle domande che mi permetteranno di precisare questo o quel punto di quanto stavo cercando di dirvi.
 
Qual’è stata la reazione del Vaticano alla vostra decisione?

Quando siamo divenuti ortodossi la reazione dello stesso Vaticano e degli uffici legati ad esso è stata assai ostile. Da allora in quella direzione abbiamo incontrato difficoltà. Ad esempio, quando siamo divenuti ortodossi in Francia c’era un’organizzazione cattolica che pagava delle borse di studio per studenti greci o di altri paesi ortodossi, per sostenerli all’Istituto san Sergio di studi ortodossi a Parigi. Ebbene, quando siamo divenuti ortodossi hanno soppresso tre borse di studio all’Istituto san Sergio. Noi stessi siamo stati obbligati a lasciare il piccolo monastero che avevamo costruito con le nostre mani e andare altrove. Oggi mi è ancora difficile pubblicare un libro presso un editore francese perché l’editore teme sempre che vi siano reazioni negative da parte delle autorità cattoliche e che il libro non si possa vendere. Tuttavia questa opposizione giunge da certi vescovi, da certi ambienti del Vaticano mentre, contrariamente, dai semplici fedeli cattolici, da comunità monastiche cattoliche, come la comunità nella quale io stesso appartenevo, ci sono ottime relazioni. Il superiore del monastero cattolico da me conosciuto disse, ad un visitatore che gli parlava del nostro ingresso nell’Ortodossia, “Non solo non rimprovero padre Placide d’essere divenuto ortodosso ma qualche volta mi chiedo se non sia lui ad avere ragione”. In molti ambienti cattolici francesi esiste una simpatia e, a volte, una specie di nostalgia verso l’Ortodossia. Non hanno una coscienza viva delle difficoltà dogmatiche esistenti tra Cattolicesimo e Ortodossia, non pensano di divenire ortodossi, ma nonostante ciò, penso esista un germe che più avanti potrà svilupparsi.
 
Potete condividere con noi il ricordo dei due grandi gerondes, padre Efrem e padre Paisios, da voi incontrati?
 
Sarebbe troppo lungo descriverlo dettagliatamente. Mi ricordo, in particolare, di un incontro con padre Paisios quando ci preparavamo a divenire ortodossi. Esposi a padre Paisios le ragioni che ci spingevano a divenire ortodossi e le ragioni che vi si opponevano. Padre Paisios rispose a tutto questo con delle ragioni estremamente chiare e precise, con un grande rigore unita ad una grande bontà. Sentendolo pensavo ad un’espressione di san Gregorio il Teologo secondo la quale il discorso del prete o del padre spirituale dev’essere contemporaneamente tranciante, come una spada, e attraente come un magnete. Questo è il ricordo dell’incontro con il padre Paissios. Riguardo a papa Efrem ho conservato un ricordo realmente luminoso. Si può dire che l’amore di Dio per noi traspariva visibilmente e sensibilmente attraverso di lui.
 
Quali sono le ragioni spirituali che vi hanno spinto a rivolgervi all’Ortodossia?
 
Le ragioni spirituali sono che nell’Ortodossia abbiamo trovato la pienezza della vita spirituale, la pienezza dei Sacramenti e della verità. È la vera Chiesa di Cristo.
 
Ci potete elencare le differenze essenziali tra l’Ortodossia e il Cattolicesimo?
 
È difficile riassumere brevemente le differenze tra Ortodossia e Cattolicesimo. Tuttavia penso che si possono ricondurre a due differenze fondamentali. C’è innanzitutto una differenza sulla concezione stessa della Chiesa, della sua struttura. La Chiesa cattolica è un grande corpo diffuso in tutto il mondo di cui il papa di Roma è la testa. Roma è il vero governo centrale della Chiesa. Questo comporta, evidentemente, tutta una concezione della Chiesa e della vita della Chiesa. Viceversa, nell’Ortodossia non esiste un governo centrale. Le differenti Chiese canoniche sono tutte in piena comunione tra loro, sono veramente una nella fede, nella pratica dei sacramenti, nel modo di vivere il cristianesimo ma non c’è un’autorità umana che sia, in qualche modo, al di sopra della Chiesa e che governi la Chiesa.
La seconda differenza è contemporaneamente teologica e spirituale. Nel IV secolo l’Occidente ha conosciuto un padre della Chiesa che fu un grande genio e un autentico santo. Tuttavia egli non conosceva il greco – oppure assai poco – non conosceva dunque bene il pensiero dei padri della sua epoca e dei Cappadoci* in particolare. Perciò su qualche punto il suo insegnamento, sulla santa Trinità ad esempio, fu un po’ differente e deviato rispetto all’insegnamento degli altri padri. Si trattava di errori personali su alcuni punti. D’altronde pure presso qualche altro padre della Chiesa ci potevano essere alcuni insegnamenti che dovevano essere rettificati e corretti, comparandoli con quelli di altri padri. Purtroppo in Occidente sant’Agostino è stato così ammirato che, invece di correggere alcuni suoi inesatti insegnamenti comparandoli con gli altri padri, il suo insegnamento è stato progressivamente solidificato e sistematizzato. Così su qualche punto, come ad esempio il Filioque, la teologia dello Spirito Santo, la teologia occidentale è divenuta nettamente differente da quella dei santi padri. Questo ha avuto conseguenze su altri punti, forse meno importanti ma che hanno avuto il loro peso, come ad esempio la relazione tra la grazia di Dio e la libertà umana. Penso che le differenze tra Cattolicesimo e Ortodossia hanno la loro origine da queste due cose e, di conseguenza, da una differente concezione del ruolo del papa di Roma nella Chiesa e, dall’altra parte, da un’ipertrofia, un’esagerazione e una solidificazione del pensiero di sant’Agostino. Perciò il pensiero [cristiano] occidentale perse la pienezza della tradizione ortodossa.
 
Potete offrirci la vostra opinione su quanto si dice riguardo all’unione delle Chiese in questo periodo?
 
Questo riguarda ciò che è denominato come “l’unione delle Chiese”. Bisogna dire che quest’espressione per se stessa è inesatta. Infatti la Chiesa non può essere “divisa”, la vera Chiesa è una e le Chiese non ortodosse non sono pienamente delle Chiese. Questo è, piuttosto, un modo d’argomentare in funzione della storia ma l’unione di tutti i cristiani non si può fare che con il ritorno di tutti i gruppi cristiani all’Ortodossia. È un fine che dobbiamo molto sperare, per il quale dobbiamo pregare ma che, a meno di un grande miracolo di Dio, non penso possa rapidamente realizzarsi. D’altra parte, c’è pure l’Uniatismo. L’Uniatismo, all’origine, era un metodo impiegato dal Vaticano per accorpare certi gruppi ortodossi che avevano lasciato l’Ortodossia per ragioni generalmente politiche permettendo loro il rito, o la maniera di celebrare la liturgia. Ma la loro teologia e il dogma è cattolico. La Chiesa cattolica si è resa conto, da trent’anni o più, che gli Uniati sono un ostacolo per l’incontro con gli Ortodossi. Ma gli uniati esistono, sono un grosso problema per tutti e non si possono sopprimere con un tratto di penna. D’altra parte, si deve aggiungere che fintanto che la Chiesa cattolica pensa d’essere la vera Chiesa e che l’Ortodossia è una Chiesa scismatica, si comprende la presenza degli Uniati. Gli Uniati manifestano che la differenza tra Chiesa cattolica e Ortodossia è più profonda di quanto si dice nei discorsi ecumenici.
 
Come comparate la vita liturgica della Chiesa cattolica e di quella ortodossa e quali furono le vostre prime impressioni davanti ad un’agripnìa* aghioritica?
 
Parlando della liturgia cattolica bisogna fare una distinzione. La liturgia cattolica di 50 anni fa, soprattutto nei monasteri, era certamente meno ricca di quella ortodossa ma le assomigliava ancora e vi si poteva trovare una reale bellezza e nutrimento spirituali. In seguito c’è stata una profonda evoluzione nella liturgia cattolica e, come molti cattolici hanno riconosciuto, è divenuta fredda, secca e non può più nutrire le anime. Le prime agripnìe alle quali ho assistito nel Monte Athos furono per me una grande meraviglia e una grande esperienza spirituale.
 
Qual’è il comportamento del popolo che circonda il vostro monastero nei riguardi dell’esistenza del monastero? Quali sono le difficoltà del vostro monastero, in quanto ortodosso, in Francia?
 
Bisogna fare una distinzione a seconda delle regioni. I nostri due monasteri (maschile e femminile) non sono molto distanti ma sono in regioni molto diverse. Attorno al Monastero di sant’Antonio la maggioranza della popolazione è scristianizzata e sono ostili verso quant’è cristiano, ortodosso o cattolico che sia. Ad esempio l’indicazione stradale che indica il monastero è stata divelta diverse volte. Solo i cattolici profondamente credenti della regione hanno benevolenza verso il monastero. Invece, per quanto riguarda il monastero femminile, questo si trova in una regione rimasta molto più cristiana, cattolica ma con una simpatia verso l’Ortodossia. Le nostre monache sono state molto ben accolte da tutta la popolazione. Invece noi, al monastero di sant’Antonio, abbiamo difficoltà anche amministrative perché siamo cristiani. Per esempio, ci hanno imposto diverse tasse molto alte ma non siamo riusciti a trattare con il governo per la diminuzione del loro importo. Abbiamo diverse difficoltà presso l’amministrazione [statale].
 
Traduzione a cura di © Pietro Chiaranz
 
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Igumeno = è il termine greco che corrisponde all’Abate del mondo latino. È il superiore di un monastero.
Geronda = significa letteralmente “anziano”. È normalmente riferito ai monaci o ai padri spirituali.
Metochion = Dipendenza monastica da un grande Monastero. Corrisponde pressappoco ad un “priorato” benedettino.
Agripnìa = Veglia di preghiera che nei monasteri dura tutta la notte. Si compie solitamente in occasione d’una solennità.
Padri Cappadoci = Sono Basilio Magno, Gregorio il Teologo e Gregorio di Nissa provenienti dalla Cappadocia, una regione interna dell’odierna Turchia.

sabato 21 aprile 2012

Dal sito: http://www.shqiptariiitalise.com

Të huajt e parregullt. Sanksione më të ashpra për ata që i punësojnë, por lejeqëndrimi mbetet një mirazh

Vetëm kush shfrytëzohet egërsisht, padit dhe bashkëpunon mund të marrë leje qëndrimi. Ja çfarë parashikon dekreti legjislativ i miratuar nga qeveria
Romë, 21 prill 2012 – Mbërrijnë sanksione më të ashpra për ata që punësojnë imigrantë të parregullt, por këta të fundit vetëm nëse shfrytëzohen veçanërisht shumë, nëse padisin punëdhënësit dhe bashkëpunojnë me autoritetet e drejtësisë do të mund të marrin një leje qëndrimi. Për të gjithë të tjerat, zgjidhja e vetme mbetet dëbimi.
Këshilli i Ministrave ka miratuar më 16 prill një skemë dekreti për të përvetësuar direktivën evropiane 2009/52/CE mbi “normat minimale lidhur me sanksionet dhe masat ndaj punëdhënësve që punësojnë qytetarë të vendeve të treta qëndrimi i të cilëve është i parregullt”. Duke lexuar tekstin mbi të Dhoma e Deputetëve dhe Senati duhet të shprehin një mendim, kuptohet se sa pak të huaj, ndër qindra mijëra punonjës të huaj “të padukshëm” mund të kenë ndonjë fitim prej dekretit.
Në Itali, t’i japësh punë një të huaji që nuk ka leje qëndrimi të vlefshme është prej kohësh vepër penale e ndëshkuar nga Teksti unik për imigracionin me arrestin nga 3 muaj në 1 vit dhe me gjobë prej 5.000 eurosh për çdo punonjës të punësuar. Këtij ndëshkimi i shtohen edhe sanksionet administrative për shkeljen e detyrimeve në rrogë, taksa e kontribute.
Skema e dekretit parashikon që të gjithë ata që janë dënuar (edhe jo përfundimisht) për këtë vepër penale nuk do të mund të sjellin në Itali punonjës të huaj me flukset, pra përjashtohen nga e drejta e përfitimit të kuotave. Për më tepër, duhet të paguajnë një gjobë të re sa “kostoja mesatare e riatdhesimit të punonjësit të huaj të marrë në punë në mënyrë të parregullt”, para që do të shërbejnë për të financuar riatdhesimet, por edhe projektet për integrimin.
Ministria e Punës duhet të kryejë kontrolle “të përshtatshme dhe efikase” në sektorët më në rrezik (dhe nuk kuptohet se si do t’ia bëjnë me punën shtëpiake) dhe të referojnë çdo vit rezultatet pranë Komisionit Europian. Kur të zbulohen marrëdhënie të parregullta, do të konsiderohet se zgjasin prej të paktën tre muajsh, nëse nuk provohet e kundërta, për të llogaritur diferencën në rrogë, taksa dhe kontribute që do të paguajë punëdhënësi.
Qeveria dëshiron të fusë është një rrethanë rënduese për rastet e shfrytëzimit të veçantë të punonjësve të huaj të parregullt. Në fakt, dënimet rriten me një të tretën deri me gjysmën nëse punonjësit e parregullt janë më shumë se tre, nëse janë të mitur me moshë nën 16 vjeç ose nëse detyrohen të punojnë në “kushte rreziku të rëndë”, duke mbajtur parasysh “karakteristikat e detyrave që kryhen dhe kushtet e punës”.
Dhe vetëm në këto raste të fundit, me propozim ose me mendim të favorshëm të Prokurorisë, nëse punonjësi do të padisë punëdhënësin dhe do të bashkëpunojë gjatë procesit, ai do të mund të marrë një leje qëndrimi për motive humanitare. Do të zgjasë gjashtë muaj dhe do të mund të konvertohet në leje qëndrimi për punë nëse ndërkaq i huaji gjen një tjetër punësim, këtë herë, natyrisht të rregullt.
Nëse dekreti legjislativ mbetet kështu siç është, duket se nuk do të ketë asnjë “legalizim të punonjësve të huaj në masë”. Qeveria e di mirë këtë gjë, siç shpjegon relacioni që shoqëron tekstin: “numri i lejeve të qëndrimit lëshuar punonjësve të huaj të shfrytëzuar “do të jetë faktikisht i pandjeshëm”.


Elvio Pasca