domenica 30 giugno 2013

Tratto dal sito: http://tradizione.oodegr.com


La nostra Presbytera
 
del metropolita Theofilos Kanavos
 
 
La figura ed il ruolo della presbytera, in una riflessione indirizzata dal metropolita Theofilos di Gortina (Creta) al suo clero. Certamente il vescovo si rivolge ad un clero che prevalentemente svolge il ministero in villaggi e zone rurali, ma universale rimane quanto detto sul ministero cristiano della presbytera, svolto non solo nella parrocchia ma anche nella vita sponsale, poiché, come ripeteva un altro grande pastore dei nostri tempi: “La moglie del prete è la sua salvezza o la sua dannazione”.

Il testo è tratto dall’ottimo studio di F. QUARANTA, Preti sposati nel medioevo. Cinque apologie, Claudiana, Torino, 2000, p.137-140.


             La presbytera è la prima fedele della tua parrocchia. Ne è la vetrina. Tu formi con lei la tua chiesa “domestica”. Dalla vostra comunione voi potete trarre molti benefici. E certamente, che riusciate o che falliate come chierici, ciò è opera anche delle vostre mogli.
            Tua moglie, caro prete, deve avere forte consapevolezza del posto che lei occupa. Se è in età avanzata ciò le sarà difficile. Se è giovane e piena di zelo e ha per marito un sacerdote altrettanto zelante, ella potrà imparare ogni cosa e riuscire in tutto. Basta che sappia che lei non è una semplice sposa, uguale alle altre donne coniugate, ma che ha un proprio titolo, una missione, un lavoro e un ministero propri. È compagna e sposa, collaboratrice fidata del parroco, la prima delle madri cristiane, alla quale tutti guardano. Padrona di casa modello, mostrerà come si governa la casa. Discepola virtuosa nella fede, insegnerà la virtù prima ai suoi figli e poi a ogni donna.
            Tutto avrà ripercussioni su di te. Quando lei non sa comportarsi né muoversi nelle buone e dovute forme, quando non è un’ordinata madre di famiglia e non ha interesse per la casa e le conoscenze che essa richiede, quando non è ospitale o non riceve tutti con bontà e gentilezza, tutto ciò avrà ripercussioni su di te. E se al contrario lei emana come un profumo la sua purezza e la trasmette ai suoi figli o la vedi talvolta soffrire, consapevole di essere la moglie di un sacerdote e di essere sotto gli occhi di tutti, e la decora l’umiltà e l’illumina la grazia e ha la ricchezza dell’amore e le ali della fede con le quali prende il volo, allora le gioie della tua presbytera saranno anche le tue e lei ti darà forza, ti proteggerà, ti inciterà ad agire quando è opportuno e ti tratterrà quando il momento lo richiede.
            Voi tutto questo lo sapete, dato che siete dei bravi ecclesiastici; tutti quelli della regione lo sanno. Certamente voi avete scelto come moglie una ragazza seria, che sa vestirsi correttamente e come comportarsi in pubblico, che ha appreso in una famiglia cristiana quando parlare, quando tacere e quando non intervenire. Esito anche solamente a toccare il discorso.
            Spesso, dicono, molte di loro non hanno giudizio, non badano alla casa e non hanno intenzione di badarvi, e neppure agli obblighi propri dell’essere vostre mogli. Io non credo a queste critiche, anche se le ho qui riportate. D’altronde, neppur esse vi prestano fede e le smentiscono con un sorriso fiorito sulle loro labbra. Se, malgrado tutto, ne esiste una di tal fatta, (ripeto, io non lo credo), allora abbassi la testa, perché non solo è una cattiva presbytera, ma rende un cattivo servizio al parroco suo marito. Ripeto che di tutto ciò, o prete, porterai le conseguenze.
            Certamente, non devo educare io la tua presbytera. Io la considero in rapporto a te. Descrivo come tu la vuoi, come dovresti volerla, e se lei si rende conto e ritiene che questa esigenza è seria, giustificata e possibile, ad essa si conformerà.
            Io cerco di immaginare la tua gioia, o mio prete, quando vedi la tua presbytera essere una buona madre, raccogliere intorno a te la sera i figli e trasmettere a essi la bontà che nasconde nell’intimo. E quando guida con saggezza la femminuccia e modera con pazienza il ragazzo. Tu sei fiero della casa governata da lei. La vedi radunare le figlie e insegnare loro il ricamo, mostrare alla vicina il dolce che ha fatto per la tua festa, insieme al grembiule che ha cucito per tua figlia; come ha messo dei pomodori in conserva, come ha saputo preparare lo iogurt, le torte e le altre cose.
            Vedo anche la tua emozione, quando una sera la vedi alzarsi per andare a casa di un povero e somministrargli all’ora stabilita l’iniezione di penicillina o cambiare la fasciatura di un ragazzo ferito, perché non c’è un medico nel paese! Veramente che gioia hai provato, quando ti chiede di poter seguire in città il corso per diventare infermiera o crocerossina…: “Sarebbe bello, ti diceva, seguirlo anch’io; se non altro per fare un’iniezione qui in casa nostra, per imparare a portare i primi soccorsi in caso di incidente. E nella nostra parrocchia ci sono tanti poveri che difficilmente possono chiamare un medico. Quale gioia proveranno e come diventeranno tuoi quando parteciperanno al nostro amore, amore che trasmetterò nei momenti difficili. I loro cuori saranno più docili e aperti verso di te che vi seminerai un momento benedetto di meditazione”.
             Queste gioie e tante altre ancora puoi ricevere dalla tua presbytera, se tu accendi il suo zelo e la fede nella tua missione e nel suo ruolo nella casa, nella parrocchia e nella società. Quando la fai partecipe della tua missione e la chiami per confidarle un assillo, possiedi e onori in lei una collaboratrice. Ancora una cosa. È molto probabile che lei possieda qualche bella qualità che tu non hai. Qui voglio fare appello alla tua comprensione e alla tua modestia. Ricevi e accetta il suo consiglio; ha tutta l’aria di essere buono, non temere di essere portato fuori strada. Non abbiamo, infatti, delle presbytere che sono dei modelli per i loro mariti? Io ne conosco una che sa rimediare a tutti gli sbagli commessi dal suo sacerdote. Come anche succede il contrario. Ci sono, infatti, anche delle mogli di ecclesiastici le quali non sanno rinunciare a niente, che oscurano la virtù del sacerdote. Certamente ciò accade quando lui non ha forza e personalità. Vuoi che te lo dica? Quando hai una moglie che non prega, che non va mai in chiesa, allora devi preoccuparti. E se anche tu non preghi, allora tutti avranno paura di voi due. Se invece pregate entrambi, non temete nessuno: Cristo vi illuminerà. Cristo non allontana nessuno. Quando vede le mani alzate in preghiera, il Suo cuore perdona. Egli riconosce il figlio fedele e umile, riconosce il Suo soffio in un “vaso di creta”, libero, docile e pronto a volare verso di Lui. Come potrebbe non accorrere, Lui che si è fatto crocifiggere per il suo nemico, che ha pregato per coloro che hanno inchiodato le sue mani, come potrebbe non andare incontro ai suoi figli fedeli e umili, che Lo supplicano con le mani levate?


Theofilos Kanavos, metropolita di Gortina e Megalopoli in
“Ekklisia O ephimerios” (15/2/81), pp. 40-44.
 

Dal sito: https://mospat.ru

Convegno sui Santi Cirillo e Metodio


Si è svolta a Mosca il 25 giugno 2013 nella Sala Grande della Biblioteca per la letteratura straniera la cerimonia di apertura del convegno scientifico sui Santi Cirillo e Metodio, organizzato dalla Scuola di dottorato e alti studi teologici dei Santi Cirillo e Metodio, in collaborazione con la Biblioteca di Stato russa per la letteratura straniera e con il sostegno della fondazione «Meta».
La conferenza è dedicata al doppio anniversario associato ai santi patroni della Scuola di dottorato e alti studi teologici della Chiesa ortodossa russa: il 1150° anniversario dell’opera di evangelizzazione dei fratelli Cirillo e Metodio e il 150° anniversario dell’istituzione della festa in loro memoria da parte del Santo Sinodo.
Hanno preso parte al convegno il rappresentante del Patriarca bulgaro presso il trono del Patriarca di Mosca e di tutta la Rus’ e rettore del metochion bulgaro a Mosca, archimandrita Feoktist (Dimitrov), gli insegnanti e gli studenti della Scuola di dottorato e alti studi teologici, studiosi di slavistica russi e stranieri.
Intervenendo alla cerimonia di apertura, il , metropolita Hilarion di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca e Rettore della Scuola di dottorato e alti studi teologici, ha tenuto una relazione sul tema: «L’opera educativa dei Santi Cirillo e Metodio come tradizione vivente della Chiesa».
Sono intervenuti con relazioni anche: E.J. Genieva, direttrice della Biblioteca di Stato russa per la letteratura straniera, l’ambasciatore polacco Wojciech Zaionchkovskij, l’ambasciatore di Serbia Slavenko Terzic, il consigliere dell’Ambasciata di Ucraina Taras Malyshevskij, il primo segretario dell’Ambasciata di Bulgaria Vasilka Kehayova, l’addetto per la cultura dell’Ambasciata del Vaticano in Russia Giovanna Parravicini.
Alla sessione plenaria sono state tenute le seguenti presentazioni: prof. E.M. Vereshagin (Istituto di lingua russa dell’Accademia Russa delle Scienze) – «Aspetto filologico dell’attività dei Santi Cirillo e Metodio nella primavera dell’ 863», monsignor Francesco Braschi, direttore del dipartimento slavo della Biblioteca Ambrosiana di Milano – «I Santi Cirillo e Metodio e la loro vita nei codici liturgici latini occidentali», prof. A.V. Vinogradov (Università Nazionale di Ricerca «Scuola Superiore di Economia») insieme a D. V. Kashtanov – «ll miracolo di San Clemente – cronologia della sua tradizione».

venerdì 28 giugno 2013

Dal sito:http://makj.jimdo.com/

O Santa Fede, dei nostri amati Padri, che ci hanno traghettato sulle coste del " Mare Nostro " (Deti Jonë), quando ritornerai ad essere la protagonista della Vita Spirituale di coloro che si definiscono ancora ARBËRESHË ?  Quando dobbiamo ancora aspettare perché lo spirito religioso dell’oriente cristiano torni ad essere predicato, pregato, annunciato e proclamato nelle nostre contrade, nei nostri paesi, nelle nostre Chiese? I nostri Avi non aspettano altro, da secoli memorabili: far risplendere nei nostri animi, nei nostri cuori la Santa Fede Ortodossa !!!!
  (Padre Giovanni Capparelli)
 
ARBERIA: LA REALTA’ DEL NOSTRO TEMPO
 
 
 I vostri makkioti
 
“Non troverai mai la verità se non sei disposto
ad accettare anche ciò che non ti aspetti”

     Gent.ma Redazione di Makij,

Vi confessiamo da subito che eravamo molto indecisi nello scrivere questa lettera. Primo, perché non vi è scritto niente di “sensazionale”, né trattasi di chissà quale “scoperta” o “novità di vita”. Poi perché non volevamo (forse) “urtare e infastidire” i gentili lettori col sentirsi  “richiamati” forse dalle solite menate, del “già sentito” e dèjà vu vari. Ma poi, per amore della verità o se volete della realtà, abbiamo lo stesso deciso di scriverla nel rispetto del salmo che recita: la nostra storia “sta sempre davanti a noi”, anche quando come gli struzzi, non vogliamo vederla o la rimuoviamo. E allora, sforziamoci di ripeterla questa verità (cui si cerca di sfuggire),  all’insegna dell’utile repetita iuvant,  nella speranza che - come scriveva Giordano Bruno - lectio repetita placebit.
  Iniziamo dalle “onorevoli” istituzioni politiche dei nostri (o loro?) paesi. E’ da molto tempo ormai che hanno abbandonato i propri cittadini, salvo ricordarsi (di noi) quando gli serviamo o quando ci serviamo (di loro): la chiamiamo “democrazia”.
   Loro (specchio di noi stessi) ci salutano “popolarmente” con quel sorriso da stampa elettorale, come dire: “non preoccupatevi adesso ci siamo  noi”.  Ci accarezzano massonicamente, dandoci le pacche sulle spalle: “non aver paura non ti mancherà la nostra protezione”. Si presentano con quell’aria populistica e finta-dimessa usando  parole accomodanti per sentirsi dire da noi: “è proprio uno di noi”.  (Si) “spendono” molto per “la custodia, la valorizzazione e il ripristino dell’identità arbëreshë”: Vedi i vari festival canori della serie “canta che ti passa”.  (Si) sponsorizzano con le “commoventi” e colorate vallje per tenersi in “movimento e non farci sentir depressi”. Organizzano sagre a sfondo cul-inario/cul-turale per non pensarci poi tanto: “Mangiate e bevete, domani è un altro giorno e si vedrà”. Si “interessano” così tanto di noi al punto da impegnarci a diventare “uno di loro”. Ma in tutto questo “casino” l’Arberia dov’è?
   Le istituzioni e associazioni civili impegnate a promuovere, a far conoscere l’Arberia (dove e quando ci sono) sporadicamente si fanno presenti e si fanno sentire, soprattutto in occasione di qualche nuova legge appena promulgata per accompagnare dolcemente l’eutanasia della “minorata” etnia arbëreshë. In queste occasioni li vedi tutti “in berlina” intorno a qualche tavola rotonda a parlare, parlare, parlare…, a scrivere, scrivere, scrivere… e tutti (solo) allora si riscoprono arbëreshë per la serie “felici e contenti”.
     I protagonisti di queste istituzioni per “l’Unione e la rinascita dell’Arberia” - quando con aria professorale, altezzosità e quando con vanitosa umiltà - sono sempre lì, pronti a dar voce alla cultura e alle gloriose tradizioni dei nostri avi. Amano pavoneggiarsi (dall’alto) dei loro pulpiti, facendo sfoggio dei loro titoli universitari e accademici, ma (quasi) mai si degnano di “scendere” in basso, in mezzo a noi, a toccare con mano la nostra realtà. (Sarà che puzziamo?)  
     Sono così sicuri delle loro cono-scienze, da fare a meno di  sperimentare se sono poi così vere le “storielle romantiche e  favolose” che vanno raccontando(si) in giro. Hanno forse paura di “s-porcare” il loro sapere? Allora si sprecano a più non posso, di qua e di là,  con conferenze “illuminate e altolocate”: amano sentirsi dire “bravi” (anche se sanno in cuor loro di parlare a loro stessi). E così, anche quando ci raccontano in realtà si raccontano. Amano fare “vita letteraria” ma mai “letteratura di vita”. Parlano sempre di noi ma mai con noi. Non abbiamo mai capito (spero ci perdonerete di essere forse dei ritardati - cosa c’entra mai l’anima alata dell’Arberia con tutto questo gracchiare e ciarlare? A codesti “esperti” dell’Arberia ricordiamo il detto dei professori del deserto: “è meglio una vita senza parole che delle parole senza vita”.
     Le istituzioni religiose ci sono ma è come se non ci fossero. La loro esistenza storica è sempre in “via provvisoria”. Mentre i vecchi quadri dirigenziali delle tre eparchie italo-bizantine (composti una volta da sacerdoti e vescovi dei paesi arbëreshë) si sentivano ancora legati e ad-dentro alla tradizione dei papas di un tempo e alcuni hanno perfino combattuto per recuperare e tenere in vita quel pò di storia “bizantina-greca” (come impropriamente la chiamano) rimasta, “il nuovo che avanza”, cioè i nuovi-giovani sacerdoti arbëreshë + rumeni + ucraini, neanche riconoscono (ormai) più la tradizione di vita teologica orientale, fatto salvo il fogliame di cui si rivestono.  Dai nuovi seminari sono usciti ben educati, preparati e istruiti nel raffinato ritualismo orientale.  
     Basta guardarli alcune volte quando escono per le strade dei nostri paesi, svolazzando con le loro pulitissime tonache “alla greca”, tutti profumati (non d’incenso s’intende) e con le barbe ben raccolte e d’estate abbronzati. Tutti belli, carini e soprattutto impeccabili! Ma la caratteristica che salta di più agli occhi è il loro essere terribilmente buonisti: cioè i peggiori nemici della bontà. Li vedi sempre pronti a benedirti francescanamente, li senti sempre (così) vicini (fin troppo) quando non sono (quasi sempre) fuori in tournè per far conoscere agli altri (ai latini) i “bei e beati” canti della (loro) liturgia greco-cattolica-orientale. Dedicano molto tempo a curare il look (esterno) della chiesa. Del resto succede quasi sempre così: quando si è vuoti dentro si rincorre all’esterno. Che fighi!
     Ma, il momento clou (o clownèsco?) dello spettacolo è quando li vedi in azione, cioè quando (si) cantano e (si) suonano messa. Manageriali nei minimi dettagli, prestano una cura estrema affinchè tutto si compia secondo il rito e i canoni “orientali” stabiliti dalle varie encicliche papali per questi figli predi-letti di santa-romana-chiesa. Loro sì, che sanno ascoltare, capire e andare in-contro al popolo. Animano la tranquilla (?) vita  dei nostri paesi con sempre più feste popolari (latine). Dicono sempre, “si!”, alle iniziative della gente: sanno e stanno ben attenti a non inimicarsi la gente (soprattutto quella che conta) e non turbare i falsi equilibri dello status quo. Come collaudati politici sanno distrarre e accalappiarsi il consenso e il plauso popolare. Tutto quello che il popolino vuole, loro acconsentano. Il tutto all’insegna dell’”Actor Studios”. Oh, Dio! Come amano il popolo.
     In questi “ultimi” arrivati, a dispetto dei vecchi zoti, è difficile trovare in loro segni ”d’insofferenza”. Tutti allineati, coperti e in linea con i nuovi tempi: zeloti e zelanti nel trovarsi sempre pronti ad annunciare la “buona novella” (del papa-capo). Alcune volte vengono (sacrosantamente) ripresi dalla gente per la superficialità dimostrata nell’affrontare le sofferenze dell’animo. Ma, “benedetto (loro) gregge”! Bisogna comprenderli: chi glielo fà fare” di “renderTi libero con la Verità”. Loro fanno parte della “famiglia” e alcuni hanno anche una vera famiglia. Del resto il loro animo è lëtisth  e da italiani-praticanti osservano il detto: “Tengo (alla) famiglia”.
     E poi, cosa mai aspettarsi da chi non vive nella e di quella “Verità che rende liberi”? Come può chi non è libero dare libertà agli altri? Il “cielo”  sotto cui vivono è quello della “cupola” vaticanista e difficilmente (ma molto difficilmente) “chi ha fatto la scelta di vivere così farà ritorno” alla Verità. Ma veramente pensate che questa sia quella (chiamiamola ancora) chiesa lasciataci dai nostri antichi padri della retta-fede? Quei nostri padri che për besen e për lirin (la fede e la libertà) che li sosteneva e li nutriva – ricordiamolo sempre - sono stati imprigionati, torturati e… scomunicati ka lëtisth (dai latini). E da chi? Guarda caso, proprio dai c.d. latini (papisti) di cui le attuali (tre) eparchie militano e si vantano di militare come “una gemma orientale incastonata nella tiara papale” (come disse di loro  il papa Paolo VI).  A ragione il (nostro) poeta Girolamo De Rada (figlio di un sacerdote) nella sua Autobiologia, scriveva: “la chiesa dei nostri padri si è fatta a noi estranea”.
   E del popolo e/o di quello che è rimasto degli Arbëreshë? Ridotti allo stremo, si strascinano nella solitudine della loro vita quotidiana. Come sedotti e abbandonati si sentono traditi e rassegnati. Paurosi di uscire dal coro stanno ben attenti a non sbagliare la parte loro assegnata: di vassalli, coloni e mezzadri del padrone di turno.
    Cosa fare? Pensiamo che il primo e fondamentale passo da fare, prima di tutto sia quello di riconoscere e prendere veramente e pro-fondamente coscienza che siamo tutti ammalati. E’ questo, crediamo, l’inizio verso la guarigione. Ma, vogliamo veramente guarire? O, come invece avviene, continuiamo  a far finta che tutto sommato “va bene”, (anche) quando in realtà i mali presenti in noi-paesi, ci stanno spopolando e spappolando fino all’osso?  Va a finire che in futuro (non così lontano) per trovare un arbëreshë bisogna far visita ai cimiteri e ai musei. Quando decideremo, una volta per tutte, di non rinchiuderci nel (solo) passato o di raccontarci le favole senza che ci sia più la “vatra e la ghitonja”, cioè la comunità?  
     Può un popolo fare a meno della propria vita storica, di quello che “in verità” si è? Tremendamente ma meravigliosamente pochi Arbëreshë e di quello che si è diventati (in massa), lëtisth, tristemente ma apaticamente in molti?  Certo! Si può fare! Ma è come vivere senza.
     Di che cosa, della nostra martoriata storia dovremmo vergognarci? Anzi, come dice s. Paolo: dobbiamo “vantarci del martirio subito e delle stigmate che ci portiamo”.  Fino a quando ancora continueremo a s-fuggire dalla realtà, dalle nostre responsabilità e da noi stessi?  E, se mai dovremmo (pur) finire (come nella storia è già successo a  tante altre etnie), per favore! Cerchiamo almeno di dare un minimo di dignità al nostro finale e non chiudere la tenda della nostra storia da vigliacchi, paurosi e vili. I nostri padri del resto non c’è lo perdonerebbero.
  E non diamo tanto importanza al numero.  Ricordiamo(ci) che “la Verità non é matematica”. Da che mondo e mondo, sono “maledettamente”  pochi queiche amano veramente e perfettamente il loro paese, cioè disinteressatamente. Così sono e saranno sempre pochi quelli che sanno riconoscere la “ricca povertà” riposta nelle nostre misere comunità e si sentiranno “orgogliosi del privilegio che si ha di essere un popolo disprezzato e confinato” (Che Guevara). I molti invece,  amano elaborare il lutto (infinito), come piangere sul latte versato e versare lacrime di coccodrillo.  Scriviamo questo non perché quei pochi debbano sentirsi confortati dal pensare di essere “esclusivi e/o eletti”,  ma con la timida speranza che siano da esempio ai molti e che da pochi diventino sempre più molti.
   Vogliamo concludere invitandoVi a prestare attenzione alla vita storica dei popoli componenti le varie nazioni del mondo. Vi accorgerete che essi sono ricordati e rinomati solo per quei pochi ed è per quei pochi che gli altri possono ben andare orgogliosi.
  Vi salutiamo e Vi ringraziamo anticipatamente, ricordando(ci)  che: “Gjaku s’behet uj!” (= il sangue non si fa acqua).
 
Makij, 20/06/2012                                                        
 
Costante Francesco  - Marchianò Stanislao - Michele Avati
 
P.S.
 
Un Arbëreshë per definirsi tale, deve possedere almeno due requisiti fondamentali (come risulta dalla sua carta d’identità storica): “Besa e Liria” (cioè Fede e Libertà). Senza questi “segni” caratteristici, si può pensare, dire e fare di tutto, ma non si è Arbëreshë.

martedì 25 giugno 2013

IL MANUALE LESSICOGRAFICO DELLA PARLATA ALBANESE DI ACQUAFORMOSA di Nando Elmo

da Nando Elmo (Note) Martedì 25 giugno 2013 alle ore 23.30

Ora le mie amiche di Acquaformosa, che si ostinano a scrivere arberisht in maniera inadeguata su FB, non hanno più scusanti.
Da qualche giorno è uscito in Albania, ma verrà distribuito anche in Italia, si spera, per volontà dei cosiddetti  difensori delle nostre tradizioni, questo manuale lessicografico, questo vocabolario della parlata di Acquaformosa, del nostro compaesano Giosafatte Capparelli, Malcori, (detto, affettuosamente, Tucci).
Questo strumento potrebbe dare ai volenterosi – ma sono più numerose le volenterose – che vogliano esprimersi correttamente nella lingua degli avi, un valido aiuto.
Capisco: la lingua materna è più consona ai sentimenti, dalle affettuosità alle recriminazioni, alle volgarità (sono esse più corpose, più sanguigne, dette alla paesana). Ma allora perché non scriverla correttamente?
 Vedo spesso su FB frasi che vorrebbero essere arberische e tali non sono perché scritte adattando la grafia italiana a fonemi, che nella nostra lingua nazionale non esistono : “Thë, dhë, hjë, që ecc.. nessuno sa pronunciarle in italiano, come scrivereste la famosa “Qiqir” con cui i civitioti smascherano i latini durante la Vallja?
Basti, a questo proposito, considerare che l’alfabeto italiano ha solo ventuno segni (anche se la pronuncia ne prevedrebbe una manciata in più, ma tant’è) mentre l’alfabeto arberisco ne ha trentasei, uno per ogni fonema (approssimativamente, ahimè, anche in questa sovrabbondanza – sentite parlare uno sqipetaro del nord e poi ditemi).  
Per capirci: l’alfabeto arberisco fa differenza tra la esse sorda (di “sono”) e la esse sonora (di “chiesa”), tra la zeta sorda ( di “pazzo”) e la zeta sonora (di “zebra”) per cui se volessimo scrivere l’italiano come lo pronunciamo, facendoci aiutare dall’alfabeto albanese più ricco del nostro, dovremmo scrivere  “xio”,  “kieza”, “xebra”, “paco”, per zio, chiesa, zebra, pazzo. Ma l’italiano non si cura di queste varianti.
Questo è dovuto, in ogni caso, al fatto che c’è differenza tra la lingua parlata, pronunciata, e la lingua scritta.
La lingua scritta, proprio perché scritta, tende a sclerotizzarsi, mentre la parlata evolve – si pensi al francese “roi”: si scrive “roi”, appunto, (come scrivono e pronunciano ancora oggi gli occitani) e si pronuncia “ruà”. In piemontese, che è simile all’occitano, di dice “effroi” ciò che in francese si dice “effruà”. Si pensi poi  all’inglese che ha modi diversi per pronunciare la stessa vocale, in contesti diversi, e così via.
L’alfabeto albanese che usiamo noi scrittori arbëreshë ha il vantaggio di essere recente: è stato stabilito appena il secolo scorso. È stato pensato in modo che  ogni grafema (il segno alfabetico scritto) corrispondesse a un fonema (un suono) della lingua shqipetara.
Noi arbëreshë, oggi, ce lo troviamo bell’e pronto, per il novanta per cento, adatto  alle nostre esigenze; per tanto chi lo conosce lo usa con piacere perché funziona e non crea imbarazzanti problemi: per esempio, voi di FB, come scrivereste, con l’alfabeto italiano, “gozhdë” (chiodo)?
E  tuttavia quello che utilizziamo è un modello astratto come tutti gli strumenti che devono tenere conto della generalità.  È chiaro che in questo modello astratto non possano trovarsi le peculiarità locali: per esempio, non c’è un grafema (il segno scritto) che risponda al fonema (il suono pronunciato) della doppia “elle” così come viene pronunciata a Piana degli Albanesi o a san Nicola dell’Alto o a Carfizi - una “g” dura, molto palatalizzata che non trova corrispondenza in italiano: come fanno quelli di Carfizi su FB?
La  grammatica generale (ortografia, ortoepia, morfologia) non tiene conto delle particolarità locali.
Così ordinerà di scrivere: “jam e bënj” e non “jam e bonj” come diceva don Fatuccio, e dicono alcuni giovani acquaformositani.
Don Fatuccio provocò, mentre confondeva la sua parlata con la parlata “generale di Acquaformosa, non pochi guai come informatore del tedesco Rohr – poi puntualmente corretti dalla linguista acquaformositana Filomena Raimondo in un suo lavoro.
E non dirà, la grammatica generale,  di scrivere: “jam e bunj” come dicono e scrivono a Piana degli Albanesi – è chiaro che in una commedia di Zef Skiro di Maxho che ricalca la parlata locale troverete scritto legittimamente: “jam e bunj”.
È evidente che una grammatica non può inseguire la lectio localis o particularis. Ma è chiaro, anche, che le grammatiche, che vogliano essere prescrittive, verranno sempre scavalcate dall’uso.  È  che appena scritti grammatiche e vocabolari, come le leggi, son già vecchi, ma tant’è …
Così a suo tempo ci sembrò uno sproposito quando un professore universitario scrisse che l’Albanese è facile perché si scrive così come si pronuncia e viceversa. A tutte le lingue capita questo; basta sapere che fonema corrisponde al grafema, e viceversa, e tout va. Se so che “oi” in francese si pronuncia “uà” che problema c’è? Non c’è corrispondenza naturale tra fonema e grafema - si tratta solo di una convezione tra gli utenti di quel sistema linguistico.
 E tuttavia abbiamo altre volte rilevato che spesso i giovani italiani, forse per modifiche naturali della glottide tendono a dire “ballo” al posto di “bello”, allargando spropositatamente la “e”.
 Ora nessuno si sogna di scrivere “ballo” perché così pronuncia “bello”. La lingua scritta non va appresso alla lingua parlata.
Come dicevo più su, ciò che in francese si dice “ruà” si scrive “roi” perché una volta nella lingua d’Oc tra “o” e “i” c’era iato; poi con l’uso, soprattutto parigino, si è cominciato a pronunciare il  dittongo “uà” e ciò che si continuava a scrivere “oi” si è pronunciato “ruà”.
Lo scritto, proprio perché è scritto (scripta manent) è più lento nel registrare l’evoluzione fonetica.
Così nessuno vieta che si continui, per omaggio alla tradizione, nella grammatica prescrittiva dei professori, a scrivere “ësht” e a pronunziare, come fanno molti ad Acquaformosa, “osht”; o scrivere “ësht” e pronunziare “isht” come a Piana degli Albanesi. Così nessuno vieterà agli acquaformositani e ai lungresi di pronunciare “pir” ciò che per carità linguistica scriveranno “për”.
A Lungro c’è la tendenza a trasformare in alcuni contesti “sh” in “ç”: “do të viç” invece di “do të vish” – oppure “ çë do të diç?” (che vuoi sapere?) invece di “çë do të dish?”. Queste varianti accelerano il loro passo quando si ha a che fare con un sistema di scrittura non garantito da una norma – buona tuttavia per  i bacchettoni d’ogni genere, dai maestri elementari alle università – che ignorano, o tendono ad ignorare che è l’uso che fa la lingua, la quale come fenomeno storico e non metafisico, non sta mai ferma.
E tuttavia siccome dobbiamo parlare, comunicare con i più è bene che sappiamo qual è l’uso “diffuso e generale” di una parola: se i più dicono e scrivono “ësht” è bene con questo uso “allargato,medio e perlopiù”, fare i conti.
Il nostro professore se fosse stato più avvertito in linguistica generale, e avesse avuto il senso storico, non avrebbe potuto affermare che l’albanese si scrive così come si pronuncia o viceversa, perché già oggi dopo i settant’anni della mia vita posso assicurare che scrivo in una maniera ciò che sento pronunciare in un’ altra.
Non che io creda nell’ordine, sono un anarchico, ma questo “Doracak”, questo Manuale di Giosafatte Capparelli (chiamiamolo “Malcori”, per distinguerlo dall’altro omonimo), viene a porre “ordine” nelle varianti personali (legittime) e ci restituisce quella lingua che “mediamente e perlopiù” si parlava ad Acquaformosa. Quando? Cinquanta, settant’anni fa quando la televisione non ci aveva omologati, trasformandoci in analfabeti in italiano: nella propria lingua nessuno è analfabeta, recita un adagio di linguistica generale. Oggi, morta la lingua materna, mi sa che siamo analfabeti in tutt’e due le lingue tra le quali la storia ci ha buttati.
E tuttavia io quell’ arbëresh oggi parlo, con Lillinin e Llupietrit, che ha qualche anno più di me, e con Gesualdin e qualche altro superstite di quei tempi, come mia cugina Teresa.

Il Manuale di Capparelli ha poi un pregio, quello di fornire finalmente una testimonianza filologica importante, l’apparentamento dell’arbëresh col calabrese e siccome i fenomeni storici non sono mai fuori di un contesto, questa ricerca filologica mette nella sua storicità il fenomeno della cultura arberisca.
Certo sarebbe stato opportuno fare una ricerca anche sulla parentela col greco – mi pare, dalle poche notizie che ho, che neanche Rupprecht Rohr lo faccia in maniera adeguata.
Sarebbe stato un dovuto omaggio alle nostre radici greche.
È assodato che le nostre comunità vengano dalla Grecia ortodossa. Solo una storia “tradìta” può farci venire dall’Albania veneto-cattolica.
Una storia “tradìta”, certo.
 Ma quella “tràdita” che ci fa piangere la Morea (oj e bukura Morè) e ci fa ancora oggi pregare in greco, la dice lunga sulle nostre origini greche e ortodosse.
Spero che un qualche giovane studioso voglia impegnarsi in un simile lavoro.
So che a Maqi un tale tentativo di storia “vera” è stato condotto da Josif Kosentino, ma non so come sia finita.
Tuttavia mi piace mettere qui di seguito una manciata di termini che derivano dal greco per stimolare in qualche giovane una curiosità filologica:
-          Diovas – diavas- leggo,  greco Diabasis, (da diabaino), nella pronuncia moderna: Diavasis (da Diaveno) = un trapassare, uno scorrere, una scorsa - in italiano diciamo “dare una scorsa a un libro”)
-          Hjiromer – lardo- greco Choirou merís grec. clas., mod. chiru meris – pezzo di maiale.
-          Halkomë – contenitore di rame - greco Chalkós = Rame, bronzo.
-          Kakavë – Recipiente per la lavorazione del latte – Greco omerico = Kakabe, mod. kakave.
-          Qyenj – mettere incinta, nella accezione volgare di “fottere”: ec u qyej “vai a farti fottere” – greco Kyo = sono pregnante, incinta, concepisco. Nella liturgia spesso troviamo l’espressione “theon logon kyisasa” -  “tu che sei rimasta incinta del verbo divino”.
-          Helq – tiro, isso – greco Helko – tirare – in greco moderno l’Helkester è l’ascensore.
-          Hjiropane – asciugamano, straccio – greco Cheiropane, mod. Chiropani, panno (pani) per le mani (chir, os).
-          Zienj- bollire- greco Zeo, bollire, da cui en/zima (che bolle dentro)
-          Hjetë – treccia – greco clas Chaite, mod. Hjeti = capigliatura, criniera.  
-          Pallac  - fango – greco Plasso = inzaccherare
-          Qanj  (klanj) – piangere – greco clas. Klaio,  mod. kleo)
-          Ter – asciugo -  greco cl. Xero.
-          Kalidhe – capanna - greco Kalidion, kalià- ados, ma anche in greco bizantino: kaliva - era famoso l’eremita kausokaliva - che bruciava (kauso) la sua capanna (kaliva) ogni volta che veniva scoperta la sua ubicazione.
Sono le prime parole che mi vengono in mente, mi fermo qui. Né sarebbe il caso di andare oltre per il carattere del presente scritto.
Tuttavia non posso non ricordare che la Calabria fu Magna Grecia prima e Impero Bizantino poi. E  che il greco era ancora la lingua  di S. Nilo e S. Bartolomeo rossanesi dell’anno mille.
E dunque le tracce del greco sono evidenti nel dialetto calabrese  soprattutto quando si tratta di parole che riguardano la pastorizia e il lavoro dei campi (ma si pensi ancora a ’ndrangheta, a ‘nduja).
Ma non è compito mio entrare in questi discorsi che richiedono altra competenza.
Torno al manuale di Giosafatte Capparelli per chiedere che gli sia data l’attenzione che merita e che coloro che s’interessano di tradizioni, di costume, di Vallje, di carnevali vari, di canti tradizionali e che versano lacrimucce sul passato glorioso, quand’eravamo risorgimentali, massoni, garibaldini e trullalà ecc… e che sono solleticati dalla voglia di scrivere arbërisht, ancorché su Face Book, vogliano comprarlo per documentarsi sulla ortografia e sulla ortoepia della nostra lingua, la quale è ancora – mi pare – nei volenterosi, come in Giosafatte Capparelli, miracolosamente  intatta.
Inviterei anche Giosafatte a scrivere una grammatica, per conservare (scripta manent) quel passato senza il  quale, come dice la retorica dei pigramente seduti sulla conservazione di non so che, non c’è futuro.
Mi pare di dover ancora aggiungere a onore di Giosafatte che egli non è un professore, non un docente, non un cattedratico. E tuttavia si è messo in un lavoro che quei professori, quei cattedratici non si sono mai sognati di fare (chissà che cosa insegnano, e su che cosa fanno le loro ricerche). E tuttavia Egli ha svolto il suo lavoro da competente. A maggior ragione merita attenzione: chi ha lavorato, con tanto amore, e solo per amore, aspetta premio.

Fedeli Ortodossi: state attenti, che nessuno smarrisca la Retta Fede e la Retta Via, fate attenzione ai 'FALSI PROFETI' PORTANO SOLO SCIAGURE PER LA VOSTRA ANIMA. SIATE VIGILI PERCHE' LA VOSTRA FEDE NON SI SMARRISCA NEI MEANDRI DELLE BUGIE CATTOLICHE-ROMANE O PEGGIO ANCORA UNIATE. Siate V I G I L I !!!!

Dal sito:  http://makj.jimdo.com/

MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER UN CRISTIANO ORTODOSSO CHE VIVE IN ITALIA

     

 
Interno di una chiesa ortodossa
Interno di una chiesa ortodossa
  L'Italia è un paese ufficialmente a maggioranza cattolico-romana. La Chiesa di Roma, nel primo millennio dell'era cristiana, fu uno dei Patriarcati ortodossi più prestigiosi e solo dall'XI secolo iniziò a separarsi dalla comunione con la Chiesa ortodossa. Infatti, essa modificò, a tappe successive, la Liturgia, il dogma, la spiritualità e disciplina ecclesiastica. Fino a dieci secoli fa, battezzavano immergendo nella colinvitra, davano la comunione nelle due specie del vino e pane, e non usavano l'ostia, facevano il segno della croce ortodosso, le loro liturgie assomigliavano molto alle nostre, non avevano statue ma affreschi ed icone, la mensa eucaristica stava dietro l'iconostasi ed i loro sacerdoti erano coniugati.

     Come molti di noi possono testimoniare, i cattolici-romani sono ottime persone, gentili ed ospitali; alcuni, nei nostri confronti, mostrano un affetto speciale e non di rado riceviamo inviti a partecipare alle loro messe, con l'assicurazione dataci di assistere ad una funzione religiosa dello stesso valore della Liturgia ortodossa. Questo accade perché essi ignorano gran parte delle nostre regole e sono convinti dell'assenza di differenze sostanziali tra Cattolicesimo ed Ortodossia. Qualche volta ci sentiamo anche in debito verso di loro, perché mettono a disposizione tempo ed aiuti materiali a sostegno degli immigrati.

     Al momento attuale, anche se i rapporti tra le nostre Chiese sono migliorati, i cattolici-romani non sono ancora tornati all'Ortodossia e quindi non esiste comunione sacramentale. Questo significa che quando un ortodosso riceve un sacramento da un prete cattolico, egli viene automaticamente condotto fuori dalla Chiesa ortodossa. Per un ortodosso non c'è pericolo più grave; anche solo accettare l'idea che Cattolicesimo ed Ortodossia, oppure Protestantesimo ed Ortodossia siano la stessa cosa, significa rinnegare la fede ortodossa ed esporsi ad una grave minaccia per l'anima. Per mettersi al riparo da questo rischio, bisogna ricordarsi che:



     Nessun ortodosso può ricevere la comunione nella chiesa cattolica o comunque da sacerdoti cattolici;

     Nessun ortodosso può confessarsi o ricevere una qualsiasi benedizione da un sacerdote cattolico;

     Il matrimonio con un cattolico è consentito come eccezione, deve essere celebrato nella Chiesa ortodossa ed i coniugi devono promettere, per iscritto, di battezzare i figli che nasceranno nella Chiesa ortodossa, educandoli nella sua dottrina;

     Quando un ortodosso si ammala deve ricevere l'olio santo solo da sacerdoti ortodossi;

     Quando muore un ortodosso, il funerale deve essere ufficiato da un prete ortodosso, possibilmente in una chiesa ortodossa;

     Le case in cui abitiamo non possono essere benedette da sacerdoti cattolici;

     Meglio evitare tutte le funzioni pubbliche dei non ortodossi (messe, rosari, incontri di preghiera di vario genere), tranne non si tratti di matrimoni, funerali e altre ricorrenze di amici o parenti;

     Se i nostri figli frequentano la scuola in Italia, non devono seguire l'insegnamento della religione cattolica;

Non è bene che i nostri figli imparino il catechismo cattolico;

     Non è possibile fare da testimone alle nozze dei cattolici, né da padrino ai loro battesimi, comunioni o cresime, anche se i loro sacerdoti lo consentono.

   Nel caso in cui qualcuno, male informato, ha commesso uno degli sbagli sopra elencati è ancora in tempo per riparare, contattando un sacerdote ortodosso e confessandosi.


 È necessario fare molta attenzione agli uniati o greco-cattolici. Essi sono sacerdoti sotto la giurisdizione del Vaticano e spesso traggono in inganno i fedeli ortodossi perché celebrano una Liturgia simile a quella ortodossa. Molti di loro sono nati nei nostri paesi, parlano la nostra lingua, conoscono le nostre tradizioni e sono disposti a giurare sui Vangeli di essere ortodossi, ma sono preti cattolici "travestiti" da presbiteri ortodossi; potete riconoscerli dall'insegnamento: se li sentite predicare della non esistenza di differenze con la Chiesa cattolica, allora siete in loro presenza ed in questo caso attenetevi a quanto scritto sopra in riferimento ai sacramenti cattolici. Non importa se celebrano come noi, nella nostra lingua e nel nostro rito: perché la Liturgia sia ortodossa il sacerdote celebrante deve appartenere effettivamente alla Chiesa ortodossa, non ad un corpo estraneo che la imita.
   Purtroppo, potreste incontrare qualche sacerdote ortodosso che condivide queste convinzioni o sostiene l'imminenza della riunificazione delle Chiese: queste persone devono essere evitate, perché non solo mettono in pericolo la loro anima, ma possono compromettere anche la vostra.

  Gli incontri organizzati fra cristiani di diversa confessione, con la presenza di membri del clero ortodosso, non deve essere interpretata come "unione tra le Chiese", ma solo in un rapporto di dialogo e studio sul vero insegnamento di Cristo, all'interno del quale si confrontano idee e posizioni. Inoltre, i sacri canoni ortodossi vietano, ai sacerdoti della nostra Chiesa, di parteciparvi indossando i paramenti sacerdotali o anche solo una parte di essi come l'Epitrachilion. Quei chierici che trasgrediscono queste prescrizioni, commettono un peccato assai grave, perché i paramenti liturgici devono essere indossati soltanto per le liturgie ortodosse.

  Cosa fare in Italia per non smarrire la retta via? Cercate la chiesa ortodossa più vicina, non importa se appartiene ad un altro Patriarcato, l'idea secondo cui la Chiesa e la nazionalità devono coincidere è una eresia condannata due secoli fa. Dovunque esista una chiesa ortodossa, siate a casa vostra perché la Chiesa è la vera patria dei cristiani ortodossi.

  Procuratevi il Nuovo Testamento e qualche libro di preghiere della nostra Chiesa (Salterio, Libro delle Ore). Se la chiesa ortodossa più vicina è troppo lontana, cercate di raggiungerla almeno una volta al mese. Le altre domeniche, nella stessa ora in cui si celebra la Divina Liturgia, pregate a casa davanti alle icone leggendo dai libri di preghiera e recitate brani del Nuovo Testamento.

     Tutti conosciamo le difficoltà di vivere in un paese non ortodosso, ma dobbiamo ricordare a noi stessi che tali fatiche assumono un grande valore davanti a Dio; Egli, infatti, ha detto: "Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano. Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci" (Matteo 7, 13-15).

Sabato 22.06.2013 -Parrocchia Ortodossa "San Giovanni di Kronstadt" - Castrovillari (cs) - Celebrazione del Battesimo di Erica Virginia