sabato 31 marzo 2012

Dal sito: http://vaticaninsider.lastampa.it


Kosovo, nuove violenze contro i cristiani

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KOSOVO. Serbi in preghiera
KOSOVO. Serbi in preghiera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I recenti episodi di intolleranza etnica contro la minoranza serba contribuiscono a peggiorare il clima di un paese sempre più “isola islamica” nel cuore dell’Europa

raffaele guerra roma
 
Il Kosovo ritorna al centro dell’attenzione negli ambienti ecclesiastici ortodossi. Oltre a nuovi eventi di intolleranza etnica contro la minoranza serba, a sollevare l’attenzione sono i recenti interventi del patriarca russo Kirill e dell’archimandrita Tikhon (Shevkunov), abate del monastero moscovita di Sretensky Stavropegic.
Dopo la pulizia etnica operata dalla Serbia di Milošević contro gli albanesi musulmani del Kosovo (undicimila vittime e ottocentomila sfollati, oltre a cinquemila vittime serbe e centododici moschee distrutte) è rimasta nella regione una minoranza serba ortodossa (5,3% contro il 92% degli albanesi), arroccata e, di fatto, ghettizzata soprattutto nella parte settentrionale della regione. Le violenze ai danni dei serbi ortodossi sono in crescita e non stupisce che alcuni di loro parlino espressamente di genocidio culturale: ad oggi le chiese distrutte o gravemente danneggiate durante gli attacchi albanesi sono circa centoquindici, e una ventina i cimiteri pesantemente profanati. Tra i luoghi di culto rasi al suolo ve ne sono alcuni risalenti al XII-XIV secolo. Intanto, proprio lo scorso 9 marzo, l’Unione Europea si è pronunciata in merito alla necessità di proteggere il patrimonio culturale costituito dai monasteri serbi in Kosovo, inseriti nella lista dei cinque più importanti luoghi sacri del mediterraneo insieme a Gerusalemme, il Vaticano, La Mecca e il monte Athos. In questo modo, ha spiegato il presidente dell’UE Barroso, sarà necessario adottare un documento internazionale che sancisca il  particolare livello di protezione dei siti ortodossi in Kosovo.
 Ad oggi, la Repubblica del Kosovo si autoproclama multietnica, ma la realtà dei fatti è ben diversa: la regione appare, infatti, sempre più come un’isola islamica nel cuore dell’Europa e vi si dirigono le mire di numerosi stati arabi. L’Arabia Saudita, ad esempio, vi ha infatti istituito il Comitato Saudita per il Kosovo, oltre al centro linguistico arabo al-Haramain. Il Bahrein, invece, vi ha fondato la società El-Asla, oltre a numerosi centri per la “gioventù islamica” e istituti di istruzione incentrati sul Corano; lo stesso ha fatto il Sudan con l’Associazione Mondiale della Gioventù Islamica; senza contare le cinquanta moschee finanziate dagli Emirati Arabi Uniti. Non è di aiuto al processo di riappacificazione quanto riportato dal New York Times all’inizio del mese di gennaio: una commissione d’inchiesta con sede a Parigi ha terminato dopo due anni un rapporto destinato al Consiglio Europeo secondo cui il presidente kosovaro Hashim Thaçi è stato a capo del gruppo terroristico di Drenica, specializzato nel traffico di eroina e di organi estratti dai prigionieri serbi giustiziati durante il conflitto del 1999.
A riprova di quanto la situazione kosovara sia niente affatto pacifica, sono intervenute le recenti tensioni. Lo scorso 3 marzo, la chiesa ottocentesca di San Giorgio nel villaggio di Stanišor ha subito un ennesimo furto nelle casse parrocchiali; i malfattori hanno danneggiato un’icona nell’atto di distruggere il vetro di protezione e hanno spezzato una delle croci conservate nella chiesa. La profanazione e il furto a Stanišor hanno seguito di poco le violente proteste degli albanesi musulmani contro l’arrivo, il 6 gennaio scorso, del presidente serbo Boris Tadic allo storico monastero di Decani per le celebrazioni del Natale; tanto che è stato dispiegato intorno al luogo un numero imponente di poliziotti. Del resto, negli ultimi tempi sembra profilarsi la possibilità che le tre regioni a maggioranza serba nel nord del Kosovo si ricongiungano politicamente alla Serbia, dato l’estremo disordine istituzionale in cui versano. È proprio contro la secessione che l’Unione Europea ha anche voluto pronunciarsi proclamando l’importanza culturale e la necessaria difesa dei luoghi di culto ortodossi nella regione, dicendosi interessata a “preservare l’identità serba nel Kosovo”. L’UE, infatti, è fra i pochi stati che riconoscono la sovranità nazionale della regione e, insieme a Gran Bretagna e Stati Uniti, ha sostenuto la nascita dello stato kosovaro appoggiando e difendendo la componente albanese perseguitata da Milošević.
 Dobbiamo però rilevare un probabile indice di malumore nei confronti della stessa Serbia da parte delle minoranza ortodosse presenti in Kosovo, a causa di quello che molti kosovari serbi ritengono un atteggiamento troppo morbido da parte di Belgrado, che, per non sollevare polemiche internazionali, non sostiene la causa della secessione serba. Nello scorso novembre, infatti, ventunomila serbi kosovari si sono rivolti alla Duma affinché sia loro riconosciuta la cittadinanza russa. È qui che entrano in campo le recenti dichiarazioni delle autorità ecclesiastiche di Mosca. Lo scorso 29 gennaio, infatti, un quotidiano serbo ha pubblicato una lunga intervista al patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kirill. “I serbi che vivono in Kosovo e Metochia”, ha dichiarato Kirill, “sono divenuti ostaggi di un enorme gioco politico”. “La Federazione Russa”, ha aggiunto il patriarca, “ha dato un sostegno considerevole ai serbi del Kosovo: proprio per la decisione delle autorità russe, attraverso l’UNESCO sono stati destinati fondi per il recupero dei luoghi di culto”. Kirill ha anche parlato del ruolo della Santa Sede: “Il papa di Roma Benedetto XVI, come è risaputo, ha preso una giusta posizione in merito. Il Vaticano non ha ancora deciso di riconoscere il Kosovo come uno stato indipendente. Il papa ha sempre sostenuto la necessità di difendere i diritti della minoranza serba”.

venerdì 30 marzo 2012

CHIESA CRISTIANA ORTODOSSA

PATRIARCATO  DI  MOSCA
PARROCCHIA
SAN GIOVANNI DI KRONSTADT

Palazzo Gallo

CASTROVILLARI  (cs)
01.04.2012
DOMENICA V DI QUARESIMA
SantaMaria Egiziaca
Tono (Glas) I°
DIVINA LITURGIA
ORE 10.00

giovedì 29 marzo 2012

Dal sito amico: Eleousa.net

Serbia - In memoria delle vittime della Nato

Belgrado, 24 marzo 2012 - Nel 13° anniversario dell'operazione della NATO denominata "Angelo Misericordioso" con la quale è stata bombardata la Repubblica federale di Jugoslavia, sono stati tenuti in Serbia servizi funebri per le numerose vittime di questa tragedia.
Con la benedizione di Sua Santità il Patriarca serbo Ireneo, l'arcivescovo Atanasio Hvostansky ha oficiato nella chiesa di San Marco a Belgrado un servizio funebre per le persone rimaste vittime nei 78 giorni di raid aerei dell'Alleanza Atlantica. L'arcivescovo è stato raggiunto dall'abate della chiesa ortodossa russa a Belgrado, arciprete Vitaly Tarasov e dal clero della capitale serba.
Al servizio hanno partecipato il primo ministro della Repubblica di Serbia M. Cvetkovic, il consigliere del Presidente della Serbia M. Djordjevic, l'ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Federazione Russa nella Repubblica di Serbia, AV Konuzin, nonché il vice presidente dell'Assemblea di Belgrado Z. Alimpich.
Durante il bombardamento della Jugoslavia da parte delle forze NATO nel 1999 sono stati uccisi più di duemila civili. Sono state distrutte 18.000 case e 365 siti di valore culturale e storico.

(Fonte: Decr servizio comunicazione; www.mospat.ru)

Prane jush me embelsira kreshmore pubblicata da Qendra Studentore

Bukë me rrush të thatë

  ½ kg miell
50 gr maja
¾ filxhan çaji me sheqer
1 lugë kafeje me kripë
1 filxhan çaji rrush të thatë të zinj
1 lugë kafeje kanelle
½ filxhan çafi ujë i vakët

Treteni majanë në ½ filxhan me ujë të vakët dhe shtoni kripë. Shtoni miell në tas dhe bëni një përzierje. Hidhni sheqer, kanelle, vaj rrush të thatë, majanë e tretur në ujë. Ngjisheni mirë duke formuar një masë brumi si brumi i bukës. Nëse është e nevojshme shtoni më shumë ujë. Ndajeni brumin në copa të vogla ose hidheni atë në tava të vogla buke. Lëreni 2 ose 3 orë deri sa të ngrihet brumi dyfishin e masës dhe pastaj piqeni në furrë për 30 minuta.

 Kek me arra

 1 filxhan çaji vaj vegjetal
1 filxhan çaji sheqer
1 ½ filxhan çaji me bajame të prera
½  filxhan çaji me rush të thatë
2 filxhan ujë
½  filxhan konjak
1 lugë kafeje kanelle
4 filxhan miell
1 lugë gjelle me lëkurë lemoni të grirë
3 lugë kafeje miell
1 lugë kafeje sodë buke

Rrihni vajin dhe sheqerin deri sa të përzjehen dhe pastaj shtoni ujë, sodën që më parë është tretur në konjak, lëkurën e limonit, rrushin e thatë dhe arrat. Përzjeni miellin, erëzat dhe baking pudër dhe tretini mirë me lëngjet. Hidheni në një tavë të lyer më parë me lyrë dhe me miell. Piqeni në temperaturë 150 grade  për 1 orë. Kur të ftohet, hidhini përsipër sheqer pluhur dhe kanellë ose mund ta lyeni me krem çokollate.


Biskota me portokall

 1 ½ filxhan vaj
1 filxhan sheqer
1 ½  filxhan lëng portokalli të përzierë me lëng lemoni
3 lugë kafeje sodë buke  
6 lugë gjelle konjak
lëkurë portokalli të grirë
1 ½ kg miell
fara susami

Rrihni sheqerin dhe vajin. Shtoni lëngun e limonit dhe të portokallit, konjak dhe lëkurën e portokallit. Gradualisht trazojini në miell me sodë dhe baking pudër. Ngjishini për të bërë një brumë të fortë. Këputni copa të vogla dhe formoni role të holla. Bëni rrathë, dhe hidhni fara susami përsipër. Piqini në temparaturë 175 grade Celcius  për 30-40 minuta. Mos i piqni shumë, ngjyra duhet të jetë kafe e çelur.

mercoledì 28 marzo 2012

Tipico della V domenica di Quaresima "Santa Maria Egiziaca" a cura dell'Igumeno Padre Andrea



19 marzo
  /  
1 aprile 2012
DOMENICA
VECCHIO CALENDARIO /  NUOVO CALENDARIO




Domenica 5° del Grande Digiuno.  Tono 1°.  Della ven. Maria Egiziaca (festa mobile alla 5° Domenica del Grande Digiuno).  Dei martt. Crisante e Daria (283) e con loro martt. Claudio il tribuno, Ilaria sua moglie, Giasone e Mauro, loro figli, Diodoro presbitero e Mariano diacono.    Della giusta Sofia, principessa di Sluzk (1613).  Di san Giovanni, conf. (1932);  della ven. mart. Matrona (1938).  Del ven. Innocenzo Komel’skij, Vologodskij (1521).  Della mart. Pancaria (c. 302).  Dei venn. Bassa (c. 1473) e Simeone (canonizzazione 2003) del Monastero delle Grotte di Pskov.  Dell’icona della Madre di Dio, chiamata “Compunzione”, di Smolensk (1103).

Combiniamo i testi della risurrezione, tono 1°, dell’Octoeco con quelli del Triodio.
Nota. Lufficiatura dei martt. Crisante e Daria è trasferita alla grande compieta di martedì sera (vedi 15 marzo).  
           
Alle ore: 
il tropario della risurrezione, tono 1° (Ant II p 229);
“Gloria” – il tropario del Triodio (della ven. Maria Egiziaca), tono 8° (Ant II p 859).
I condaci:  Ora terza -  della risurrezione, tono 1° (Ant II p 234)
Ora sesta – del Triodio (della ven. Maria Egiziaca), tono 3° (Ant II p 863). 

Alla Liturgia  - di san Basilio Magno
Alla proscomidia si preparano due Agnelli – per mercoledì e per venerdì.

i macarismi del tono - 8.
           
All’ingresso:  “risorto dai morti…”.

            Dopo l’ingresso:  tropari e condaci:
           
In un tempio della Madre di Dio  (diamo i testi per la Natività della Madre di Dio) –

tropario della risurrezione, tono 1° (Ant II p 229)
tropario del tempio, tono 4° (Ant I p 580)
tropario del Triodio (della ven. Maria Egiziaca), tono 8° (Ant II p 859)
condacio della risurrezione, tono 1° (Ant. II p 234),
“Gloria” – condacio del Triodio (della ven. Maria Egiziaca),, tono 3° (Ant II p 863)
“E ora” – condacio del tempio, tono 4° (Ant I p 586). 

In un tempio del Signore – tropario della risurrezione, tropario del Triodio (della ven. Maria Egiziaca).  “Gloria” – condacio del Triodio (della ven. Maria Egiziaca),”E ora” – condacio della risurrezione.

Nel tempio di un santo – tropario della risurrezione, tropario del tempio, tropario del Triodio (della ven. Maria Egiziaca);  condacio della risurrezione, condacio del tempio.  “Gloria” – condacio del Triodio (della ven. Maria Egiziaca),”E ora” – “Protezione intrepida dei cristiani…” .

Prochimeno – della risurrezione del tono della serie (con il versetto),
e della ven. Maria Egiziaca, tono 4°.


Prochimeno, tono 1° [salmo 32]:  La tua misericordia, Signore, sia su di noi, poiché in te abbiamo sperato. 
Versetto:  Esultate, giusti, nel Signore, ai retti si addice la lode. 
Altro prochimeno [della venerabile], tono 4°: Dio è mirabile nei suoi santi, il Dio d’Israele.

Apostolo e Vangelo della 5° Domenica della Quaresima e della venerabile:

Apostolo:  Ebr. § 321 dalla metà = 9:11-14 + Gal § 208 = 3:23-4:5

Alleluia:  del tono corrente della Domenica (sulla base del tipico generale, si può avere anche un secondo alleluia, del comune delle venerabili donne, tono 1°:  “Con pazienza pazientai…”)

Alleluia, tono 1° [salmo 17]:  Dio che mi da’ il riscatto e mi sottomette le genti. 
Versetto:  Magnificando la salvezza operata dal re e facendo misericordia al suo Cristo Davide e al suo seme nei secoli.  
V/ [salmo 39]: Con pazienza pazientai per il Signore ed egli mi sentì e ascoltò la mia preghiera.2

Vangelo:   Mc § 47 = 10:32-45 + Lc § 33 = 7:36-50.

Invece di “È veramente degno…” – “In te si rallegra…” (vedi Ant II p 367)

Comunione – di domenica.  Lodate il Signore dai cieli, lodatelo negli eccelsi. 
Un altro:  Il giusto avrà una memoria eterna, non temerà l’ascolto del male.  Alleluia x3.

Nota. “Al refettorio, poi, ci disponiamo come le Domeniche precedenti” (Tipico, cap. 49, “La 5° Domenica dei santi digiuni”).
Note:
2 Сf.: V. Rozanov,  Il Tipico liturgico della Chiesa Ortodossa, p. 474.

martedì 27 marzo 2012

Post pubblicato il 26 Marzo 2012 da KARROS1957 sul blog SPIXANA 1470

La fine del Casale di Palazzo in un saggio

 di Domenico A. Cassiano


Domenico A. Cassiano e la fine del Casale di Palazzo
(di Francesco Marchianò)
Le ricerche storiche sugli insediamenti albanesi nel Meridione d’Italia proseguono grazie alla tenacia di studiosi che, estendendo il loro campo di indagine anche in archivi privati, portano alla luce importanti documenti contenenti notizie inedite che permettono di scrivere ex novo le vicende dei profughi arbëreshë dal XV sec. in poi.
Recenti pubblicazioni, curate da validi e consumati esperti come Petta, Mazziotti, Sarro e Mandalà  – hanno illustrato agli appassionati di storia albanese falsità storiche che per secoli sono passate per verità venendo citate in bibliografie di nuovi testi e tesi di laurea.
Al novero di questi seri studiosi bisogna affiancare, senza ombra di dubbio, un instancabile ed appassionato cultore di storia patria, autore di pregevoli saggi su personaggi e vicende calabresi ed albanesi, il prof. Domenico Antonio Cassiano, già docente di storia negli istituti superiori e legale nei più importanti fori della Calabria.
Una delle sue ultime pubblicazioni (2009) ha riguardato la tragica e breve parabola di un minuscolo insediamento arbëresh nella Sibaritide, il Casale di Palazzo, collocato nel quadro più ampio dell’economia e della politica dell’epoca, XVI sec., offrendoci in vivo affresco di quella che era la vita degli albanesi nel Vicereame di Napoli, in modo specifico di quelli della destra Crati (S. Sofia, S. Demetrio Corone, Macchia Albanese, S. Cosmo Albanese, Vaccarizzo Albanese e S. Giorgio Albanese).
L’Autore, nel corso delle sue ricerche, ha reperito, tra le carte del notaio Persiani un atto che narra la tragedia avvenuta tre anni prima, nel 1547, nei pressi della cittadina citata ad opera dei pirati turchi che infestavano il Mediterraneo e che non disdegnavano di allearsi con la Francia, allora nemica della nascente potenza spagnola in Europa, o venire a compromessi con feudatari per compiere “lavori sporchi” a danno di singoli individui o comunità.
Il Cassiano identifica il casale di Palazzo, citato già in un elenco di tassazioni del 1543, in una zona compresa fra i comuni di Corigliano Calabro e S. Giorgio Albanese, oggi nota come “Serra Palazzo” nelle carte topografiche di quel territorio.
Le capitolazioni redatte, nel settembre 1509, informano che gli arbëreshë di Palazzo, dei quali non si conosce né dove e quando fossero giunti in questa terra, si erano insediati nel feudo ecclesiastico di “S. Maria de Ligno Crucis”, similmente ai loro compatrioti di S. Demetrio, S. Sofia, Acquaformosa, Lungro, etc… accolti in feudi badiali (Cap. I).
Essi erano sottoposti alle leggi feudali dell’epoca, spesso molto dure, abitando in misere abitazioni, erette con mattoni di paglia e fango, coabitando in promiscuità con gli animali domestici o da lavoro.
Né la loro condizione migliorò con il matrimonio di Erina Castriota con Pietro A. Sanseverino, la quale viveva negli agi come tanti nobili o ricchi albanesi, compreso Giovanni Castriota figlio di Skanderbeg, che avevano scelto di vivere a Venezia, Napoli, Milano, Urbino o Venezia.
I papàs, assieme alle mogli e figli, condividevano la miseria con i propri fedeli zappando la terra, dissodando terreni, arginando torrenti, costituendo una vera e propria ricchezza per i feudatari che avevano visto i propri possedimenti spopolati da carestie e terremoti (Cap. II).
I feudi, compresa la plebe che vi lavorava, venivano venduti o permutati e quindi sottoposti a nuove leggi, tassazioni e ricatti che costringevano gli Albanesi a bruciare i “pagliara” o condurre una vita nomade nella piana sibaritica o nella Valle del Crati, pericolose sia per la malaria che per le comitive di banditi che le infestavano.
Ma anche gli Albanesi, costretti dalla circostanze, non disdegnavano di delinquere rappresentando un pericolo per i casali calabresi circostanti tanto che decreti reali e vicereali imponevano ai capi villaggio di cingersi di mura o di costituire vere e proprie milizie di persone oneste per dare la caccia ai “forbanditi”. Nel 1569-’70 la Sibaritide è colpita da una grave carestia che provoca centinaia di morti, tanto che Erina Castriota-Sanseverino ordinò la previdente costituzione di magazzini per l’ammasso di grano e granaglie in previsione di calamità (Cap. III).
Difficili, inoltre, erano i rapporti fra gli Albanesi ed il clero latino che mal vedeva la presenza dei papàs sposati, contadini e che non pagavano tasse né ai feudatari e né alle mense arcivescovili. Il Marafioti ci ha tramandato la descrizione del misero villaggio arbëresh in cui non esistono nobili  e nessuno sa scrivere ad eccezione del caloiero o di cui vuol seguirne le orme.
Il Cassiano a tal proposito sottolinea con fermezza: “I principi ed i signori albanesi, emigrati in Europa ed in Italia, non andarono a popolare i casali, ma trovarono conveniente sistemazione nelle città, servendo nella burocrazia e nell’esercito, inserendosi tra i gruppi dirigenti della Penisola ed assimilandosi ad essi, abbracciando la religione cattolica e differenziandosi dal popolo minuto, mandato a servire i signori feudali italiani nei villaggi semivuoti, che possono essere considerati alla stregua di veri e propri ghetti che, forse proprio a causa di tale oggettiva situazione, si vennero a trovare nella necessità di aggrapparsi alla tradizione, strenuamente difendendola, contestando ogni tentativo di annichilimento dei modi resi possibili dalle circostanze”.
Le zone di provenienza dei profughi albanesi fa ritenere, senza alcun dubbio, che la loro fede era legata alla Chiesa d’Oriente e che erano sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo ortodosso di Ocrida. Inizialmente, secondo i dettami del Concilio di Firenze (1439) essi erano visti come cristiani ma le cose mutarono radicalmente con il Concilio di Trento che cominciò a considerali eretici, soprattutto sulla base di relazioni che i vescovi delle diocesi meridionali inviavano alla Santa Sede circa le consuetudini del clero e dei fedeli arbëreshë.
Inizialmente i papi vietarono severamente ai vescovi ordinanti di Ocrida di visitare i paesi albanesi, pena il carcere, poi Clemente VIII impose la creazione di un vescovo ordinante greco ma dipendente da Roma confermando la superiorità e l’unità del cattolicesimo.
Nei paesi arbëreshë, i papàs alfabetizzavano in lingua greca ed istruivano alle pratiche religiose i clerici che, al pari del sacerdote erano considerate persone di rilievo nel casale ed erano esentati dalle tasse, beneficio che veniva esteso agli eredi anche dopo la loro morte.
I vescovi latini di ritorno dalle visitationes effettuate nei casali albanesi stendevano relazioni negative sul comportamento del clero greco e dei fedeli, soprattutto in quel che concernevano la Quaresima, la Pasqua ed altre osservanze stridenti con la pratica religiosa latina.
Spesso i vescovi latini, in combutta con il feudatario e le autorità dei casali, imponevano con la violenza il rito latino come accade in alcune comunità ed in modo cruento a Spezzano Albanese, il cui parroco don Nicola Basta morì in carcere pur di non abiurare la fede ortodossa (1666) (cap. IV).
Crisi demografica, calamità naturali e banditismo avevano sconvolto la Calabria del sec. XV devastandone l’economia la quale, però, riprese vigore con la venuta degli Albanesi che trovarono inizialmente dimora in grotte naturali o costruendo dimore provvisorie (pagliai e tuguri) spostandosi nei dintorni della piana di Sibari in cerca di lavori stagionali e luoghi migliori dove costruire, come faranno in avvenire, case “de calce et de arena”.
Per sopravvivere gli Albanesi non esitarono a dare la caccia ai numerosi briganti, spesso anche albanesi, ottenendo dalle autorità ricompense e lodi. La loro povertà era così estrema che il potere reale impose agli esattori di non riscuotere troppe tasse oppure a provvedere alla loro rateizzazione!
La situazione di miseria spingeva molti Arbëreshë a delinquere non solo ai danni delle popolazioni calabresi ma anche di quelle albanesi tanto che le cronache dell’epoca riportano omicidi avvenuti nei piccoli casali.
Questo contesto ci presenta una popolazione che per vivere si dà alla macchia, al latrocinio, a bruciare le proprie miserabili dimore pur di non pagare le tasse oppure a sottostare alle dure condizioni di corvées imposte dai feudatari, quindi si trattava di gente povera e non di “nobili signori”,  di miseri contadini venuti in ancor più misere zone del Meridione a piccole ondate migratorie e non guidati da condottieri che una falsa tradizione ha tramandato fino a qualche decennio fa!
Il Cassiano sostiene che tra la fine del XVI sec. e la metà di quello successivo cominciarono a delinearsi le prime abitazioni, con pochi vani soprastanti, con le strade e stradine e con immancabile orto dove coltivare il gelso e le piante necessarie per la piccola e fragile economia domestica.
Nel frattempo si intensificavano le relazioni commerciali con i paesi vicini, i matrimoni, i contratti di lavoro con i feudatari laici ed ecclesiastici e piccoli proprietari terrieri con benefici per i bracciali che non di rado si arricchivano dando origine alla “borghesia rurale” dei paesi arbëreshë.
L’Autore, citando il catasto onciario del Decennio francese, descrive la piramide sociale, consolidatasi già nel Cinquecento, ponendo alla base i brazzali,  poi i custodi di animali ed i foresi, coloni, massari ed artigiani divisi in varie categorie, poi più su i civili (benestanti), professionisti, ecclesiastici e qualche “nobile”.
Da ciò si deduce che i casali arbëreshë dipendevano da un sistema agro-pastorale in cui i contadini coltivavano gelseti, oliveti e vigna, grano e colture promiscue mentre gli allevatori ovini, bovini e suini, mentre scarsi erano le botteghe artigiane ed il commercio (Cap. V).
Il quadro economico ci presenta un popolo povero, giunto nel Meridione senza guide, senza punti di riferimento, un popolo sbandato mentre il principe Giovanni Castriota godeva degli agi della corte napoletana. L’Autore smitizza alcuni topoi che descrivevano gli Arbëreshë come eroi, come nobili fuggiti dall’Albania in quanto di condizione abbiente che permetteva loro di pagare il naviglio che li trasbordava in Italia assieme alla servitù. Falsi risultano la presenza di Demetrio Reres, già contestato dallo Zangari (1940), falso risulta il “Manoscritto di Agostino Tocci”, falsa risulta la tradizione dei “nobili coronei”!
Su questo argomento l’Autore si sofferma ampiamente e con dovizia di particolari, come già fatto nei precedenti capitoli, sostenendo che “… lo studio delle fonti dimostra che le poche migliaia di abitanti della città di Corone non erano albanesi, essendo la popolazione costituita da greci e da un rilevante numero di discendenti italiani, detti gasmuli, una specie di meticci orientali”.
Gli Albanesi vivevano nelle campagne attorno alla città e che erano stati accolti dalla Serenissima alla fine del XIII sec. con lo scopo di ripopolare i territori di Nauplia e dell’Eubea. Essi, però, erano malvisti dalla popolazione veneta poiché dediti all’abigeato, alla rapina e facili alla rissa essendo di indole turbolenta. In seguito Venezia inquadrò molti albanesi, abili cavalieri, nelle milizie stradiote utilizzandoli nelle varie guerre contro i Turchi ed in Italia.
Citando varie fonti coeve, il Cassiano sostiene che la città non venne affatto liberata da Carlo V ma consegnata ai Turchi in base a precedenti accordi o per un ammutinamento della guarnigione spagnola.
Sul numero di questi profughi esistono fonti storiche discordanti (1500 o 5000) che presentano una popolazione composta da greci ortodossi, latini e albanesi dei villaggi ribellatisi ai Turchi in fuga da loro possibili e crudeli rappresaglie.
Alcuni profughi coronei furono inviati in Lucania dall’ammiraglio Andrea Doria un cui parente aveva ereditato da lui il feudo di Melfi, quindi essi furono inviati in territori dove potevano essere ben accolti con le dovute credenziali.
L’Autore sostiene che la distribuzione dei profughi avvenne con criteri discriminatori in base all’appartenenza sociale: i ricchi nei grandi centri e la massa dei poveri nei vecchi e miseri casali del Meridione a coltivare le terre dei feudatari!
Carlo V non a tutti i Coronei concesse l’esenzione fiscale, consistente in una somma variabile tra i 10 e i 70 ducati e né esistono documenti che attribuiscono ad essi qualsiasi titolo nobiliare.
Solo nel XVIII sec. alcune famiglie arbëreshe, raggiunta una buona posizione socio-economica, aggiunsero al proprio cognome “de’ Coronei” per “appagare la propria vanità e di avere un pennacchio per avere più autorità nelle comunità contadine di residenza”.
Secondo il Mandalà il mito della nobiltà coronea venne creato a Mezzojuso, colonia albanese della Sicilia, e poi propagato da Pompilio Rodotà nella sua monumentale opera sul rito greco.
Il Cassiano, inoltre fornisce al lettore, un nutrito elenco di coronei sussidiati, dal 1578 al 1593, abitanti per la maggior parte a Napoli, Palermo e Barletta. In seguito il loro numero divenne esiguo, per decesso o trasferimento, fino ad estinguersi del tutto (Cap. VI).
Infine l’Autore, dopo tali premesse storiche, economiche e religiose, affronta il triste argomento della scomparsa del casale di Palazzo sottolineando che l’episodio avvenne la domenica mattina del 23 febbraio 1547, quando tre imbarcazioni gettarono le ancore alla fonda di Corigliano.
Riportando in corsivo la narrazione contenuto in un atto del citato notaio Persiani di Corigliano (1550), si evince che la popolazione di casale, in mancanza di una chiesa, era riunita in un pianoro per seguire la messa quando venne circondata dai Turchi, trasbordata nelle navi e forse venduta come schiava nei vari mercati d’Oriente.
I pochi abitanti rientrati trovarono il casale disabitato, con i pagliai bruciati, le poche case abbattute mentre intatti erano i terreni coltivati a grano ed altro.
Il Cassiano, tenendo conto del giorno di domenica, parla di un vero e proprio ipotizzando che “L’incursione fu organizzata preventivamente con il sicuro concorso di persone del posto, che mal sopportavano i forestieri, che vivevano tranquillamente, dediti al lavoro nei campi loro assegnati, oppure interessati al rientro economico della vendita del prodotto del saccheggio e degli stessi albanesi, certamente venduti come schiavi”.
Inoltre egli prosegue affermando che probabilmente informatori dei ceti più bassi della popolazione coriglianese, avendo in odio il Barone locale, e simpatizzando per l’Islam avessero fornito ai Turchi ogni appoggio.
Lo Zangari, che aveva reperito e pubblicato le tassazioni del 1543, ci ha tramandato i cognomi di questi sfortunati arbëreshë: Bardo, Baffi, Brunetto, Comestabulo, Lopez, Pageres, Pisani, Scura e Zingaro.
I sopravvissuti alla razzia si sono poi sparsi nei vari paesi albanesi circostanti facendo perdere così ogni traccia di se portandosi sempre nel cuore la tragedia che aveva colpito il piccolo casale di Palazzo (Cap. VII).
Scheda del libro:
Domenico Antonio Cassiano, Il paese scomparso – Greco-albanesi in Val di Crati (sec. XV-XVIII). Ideologia e miti, Editrice Libreria “Aurora”, Corigliano Scalo (Cs), gennaio 2009.
 
Vi presento l'inaugurazione presso il Comune di Saracena (CS) della Mostra Documentaria, avvenuta ieri, preparata dai dipendenti della Sezione di Archivio di Stato di Castrovillari.
La Mostra allestita nella Sala Consiliare del Comune può essere visitata fino a venerdì pomeriggio con i seguenti orari: la mattina dalla ore 9,30 alle ore 12,30 - il pomeriggio dalle ore 18.00 alle ore 19.00.
Vi aspettiamo!!!!




domenica 25 marzo 2012

Pubblicato il 24 Marzo 2012 da KARROS1957 sul sito: Spixana 1470

Gjitonia: luogo fisico e sociale nella comunità arbëreshe.
(di Francesco Marchianò)

Kush ë pa shpi, ë pa gjitoni” (“Chi è senza casa, non ha vicinato”) recita un breve ma significativo proverbio arbëresh che vuole sottolineare l’importanza di possedere un luogo fisico dove ritrovarsi per svolgere le funzioni quotidiane domestiche (shpia = la casa) e, soprattutto, dove operare le funzioni di scambio sociale (gjitonia=il vicinato).
Attenendomi alla gjitonia come luogo fisico, con riferimento alla comunità di S. Cosmo Albanese-Strighàri, riporto qui di seguito due interessanti osservazioni avanzate molti anni fa (1988) dall’architetto Piera Oranges: «L’elemento minimo del tessuto urbanistico è la “gjitonia”, spazio che viene compreso tra tre o quattro case abitate da famiglie tra le quali si instaurano rapporti e vincoli di grande interesse antropologico[…]». Con questa affermazione la Oranges vuole significare i primordi della gjitonia quando gli albanesi, vivendo in miserrime condizioni economiche, non esitavano ad aiutarsi l’un l’altro.
Ma con l’evoluzione socio-economica dei paesi arbëreshë, fine sec. XVII ed inizi del XVIII, la gjitonìa si trasforma in un nucleo produttivo precapitalistico: « […] Nel momento in cui gli albanesi si organizzarono all’interno del territorio loro assegnato e cominciarono ad usufruire del territorio da loro coltivato, ecco che emergono uomini che sicuramente si sono messi a capo dei vari gruppi di profughi (rappresentati da coloro che provenivano da un rango sociale più elevato).Costoro e per intelligenza e per dominio e per astuzia diventano ben presto i benestanti ed i proprietari di quasi tutte le terre.
Di questo fenomeno l’insediamento di S. Cosmo Albanese è la più chiara dimostrazione; esso è denunciato con estrema chiarezza, a livello urbanistico ed architettonico. Nella seconda fase di sviluppo dell’insediamento, evidenziato dallo studio metodologico sul lungocrinale (attualmente Via A. Gramsci) si determina un tessuto seriale formato da un lato da una serie di palazzotti signorili e dall’altro da edilizia di base con duplice funzione (in particolare serviva da abitazione per coloro che erano al diretto servizio del signorotto, e in parte a deposito e lavorazione dei prodotti della terra).
Urbanisticamente, ecco, che risalta lo stesso fenomeno verificatosi all’interno del primo nucleo: la “gjitonia”, questo spazio compreso tra tre o quatto case ora appartiene ad un solo proprietario.
Quindi una gjitonia caratterizzata non più da motivazioni solidaristiche, ma da interessi economici, sotto il controllo del proprietario.»
Lasciando da parte le fredde considerazioni tecniche accetto la prima definizione e mi piace entrare nel merito della gjitonìa come elemento sociale costitutivo del paese katundi.
Consultando un vocabolario risulta che il lemma gjitonia derivi dalla lingua greca che, come l’albanese, pur essendo indoeuropea non appartiene a nessun ceppo linguistico. Nella lingua greca gjitonìa < ή γειτονία cioè “vicinato” e ό γειτων “il vicino”. Ma il greco non riesce a spiegare questo etimo!
E se noi, invece, facessimo provenire gjitonìa dall’albanese? Se lo facessimo provenire da “gjithë ton” cioè “tutto nostro”? Sarà forse una forzatura ma spiega un concetto fondamentale insito nella gjitonìa che è appunto la comunanza, la condivisione.
Mettendo da parte queste criticabilissime considerazioni linguistiche, la gjitonìa per la mia generazione, che è cresciuta agli inizi del boom economico italiano rimane uno dei momenti formativi dell’esistenza. La generazione vissuta nei paesi arbëreshë tra il 1950 –’70, ha visto gli ultimi bagliori di un mondo agro-pastorale che si avviava ad una lenta ed inesorabile trasformazione economica e sociale.
Vivere nel ricordo significa che non si vive bene nel presente, purtroppo questa falsa modernità spinta all’eccesso sta cancellando le differenze culturali, linguistiche e sociali omologando tutto e tutti cancellando secoli di storia e di civiltà di antiche comunità e di singoli individui.
Ritornando alla gjitonìa essa era il luogo fisico della condivisione, era tenere la porta di casa aperta perché nessuno estraneo vi entrava perché controllato dai vicini, era scambiarsi il lievito naturale per fare il pane, insomma offrirsi piccoli beni senza chiedere nulla in cambio, la gjitonìa era tutto.
I ricordi personali sul mio vicinato sono vari, alcuni ricordano momenti belli ed altri brutti, ma che vedevano sempre la presenza dei vicini. Qui di seguito offro dei flashs.
Momento bello era d’inverno quando si ammazzava il maiale. Più che un’uccisione, purtroppo violenta di un animale domestico, era un rito cui partecipavano i membri della famiglia e le persone più intime del vicinato. Dopo aver inviato un assaggio di pietanza a tutto il vicinato, la sera a casa si faceva una grande tavolata per la gioia di tutti gli invitati che mangiavano le carni del maiale cucinate in vari e gustosi modi.
E quando si avvicinava la festa di S. Giuseppe alla cui vigilia si accendeva il falò, circa un mese prima tutti i bambini, i giovani e donne della gjitonìa si recavano negli uliveti a raccogliere le frasche della potatura per ammassarle nello spiazzo della gjitonìa di appartenenza. Poi durante il falò si andava a vedere qual’era quello più grande (“Simbjet fanoin më i madhë e i bukur e bën te gjitonia e Sqinit!”).
Poi Pasqua con i dolci cotti nel forno del vicinato, la preparazione dell’altare per il Corpus Domini e cercarlo di farlo più bello degli altri. Mi ricordo. Inoltre, che alla vigilia della festa di S. Giovanni mia madre andava a raccogliere nei campi germogli ancora acerbi di cardo che abbrustoliva ed offriva alle ragazze del vicinato. Dalla loro fioritura, dopo questo trattamento, si traeva l’auspicio se quelle giovinette si sposassero o no.
E quando poi chiuse le scuole a frotte ci si costituiva in bande per fare la guerra con i bambini degli altri vicinati o si organizzavano vari giochi negli spiazzi davanti alle case o nella vicina campagna.
A settembre, dopo la raccolta ed immagazzinamento del frumento, le donne si sedevano davanti ad una spianatoia (qastìeri) per pulire il grano dai semi di erbe infestanti e si ingannava il tempo e la noia dell’operazione facendo raccontare alle donne più anziane fatti avvenuti nel passato o favole.
Poi arrivava ottobre, la preparazione ed il lavaggio delle botti preludevano la vendemmia che veniva pure anticipata dall’invio ai vicini di un paniere pieno di uve pregiate e quando il mosto era maturo nelle botti non mancava anche di inviare ai vicini la bottiglia di vino novello.
La gjitonìa era stare di sera davanti alla porta di casa per sfuggire alla calura dell’interno, tanto allora non passavano auto, e parlare di tanti fatti del passato o permettersi qualche pettegolezzo se passava qualcuno/a che aveva commesso qualche atto del tipoo: “Ndrì, e sheh ktë ç’shkoi nani? Dhëndrri e ngapoi me njeter e nani e lëreu!” oppure muovere critiche sull’abbiligamento o sul modo di incedere: ” Ku vate i gjet kta tirqë ki ktu?” o “Kjo ecën sikur ësht’e çanë ve!” .
Altro momento forte erano le nozze di qualche ragazza: tutte le vicine accorrevano ad aiutarla nella vestizione, a distribuire dolci e confetti, ad esporre la coperta più bella del corredo come lo si fa ancora oggi nelle processioni dei santi. E così via tanti e tanti momenti….
Poi non mancavano, purtroppo, anche quelli brutti come, per es., la scomparsa di qualcuno. Già durante l’agonia i vicini si alternavano a vegliare il moribondo ed aiutavano i parenti in alcune incombenze. A decesso avvenuto c’era sempre la donna più esperta del vicinato che aiutava a vestire il defunto, a far rispettare i riti, ad avvisare il sacerdote. La presenza alla veglia funebre era di obbligo e poi, a fine esequie, a turno e per più giorni i vicini preparavano da mangiare alla famiglia colpita dal lutto.
Concludendo la gjitonìa era un piccolo mondo, con aspetti negativi e positivi, era un’atmosfera particolare, irripetibile e magica.
Io penso che la gjitonìa, come entità umana, sia morta o, meglio, l’abbiamo fatta morire andando ad abitare in claustrofobici appartamenti di anonimi palazzoni sbandierati come il raggiungimento di uno status symbol (“Ndrì, ime bilë u martua e vat’e mbet te nj’apartemend! Ma apartamend!”) oppure in enormi ville circondate da recinti per far capire a tutti che non si ha bisogno di nessuno perché stiamo bene (soprattutto economicamente).
Proprio ieri leggevo in un sito internet che si intende tutelare con una legge apposita, come per la lingua, anche la gjitonìa, ed ho amaramente concluso che nessuna legge potrà mai farlo se le viuzze non risuonano più degli schiamazzi di torme di monelli, se i nostri paesi si stanno svuotando dei fermenti vitali che sono i giovani, se le antiche case delle gjitonie sono vuote e cadono ormai a pezzi, se ai legislatori ed amministratori di vario ordine non gliene frega proprio niente di noi!
 

martedì 20 marzo 2012

Dal sito della mia carissima Amica Lina: http://balkan-crew.blogspot.it

Chiara e la Bulgaria

martedì 20 marzo 2012


Ciao Lina, l'hai gia fatto un post sulla Bulgaria , che fa parte dei Balcani orientali...
In questi giorni ho 3 balkanici in casa: oltre a mio marito e mio figlio anche un ragazzo di Sofia che frequenta un liceo con il quale il convitto ha organizzatto uno scambio !!
Ci ha portato un CD del coro polifonico LE MYSTERE DES VOIX BULGARES diretto da DORA HRISTYOVA davvero favoloso

A proposito di cori bulgari ho trovato anche ELIO E LE STORIE TESE te lo ricordi IL PIPPERO ?

pare si siano ispirati a una canzona bulgara tradizionale !!

A proposito di cucina ho trovato questa delizia: trovo che sia davvero una ricetta "furba" !!!

Dalla Bulgaria un dessert d'eccezione, che deve il suo successo allo sposalizio perfetto tra noci, cacao e rum

La ‘Garash torta’ è quella che più spesso si può trovare nei ristoranti e nei Cafè bulgari. Al posto dei bar, in Bulgaria ci sono infatti le ‘sladkarnizi’ – ‘dolcerie’, dove oltre al caffè, vengono serviti un grande numero di torte diverse, gelati e cocktail vari.

La ‘Garash’ è la torta per eccellenza. Dopo di lei sono state inventate tante altre, alla frutta, al cioccolato, alle mandorle, al cocco, ecc. Ma rimane uno dei dolci più amati ed è anche quello delle grandi occasioni. Non tutti i Cafè offrono una versione degna della sua fama. Ecco perché è meglio imparare a preparala a casa, dove di solito si fa in occasione dei compleanni, più spesso quelli invernali perché è molto calorica e un piccolo pezzo basta per saziarsi.


Ingredienti
- 6 uova
- 1 bustina di polvere vanigliata
- 250 gr di burro
- una tazza di zucchero a velo
- una tazza di zucchero normale
- 3 cucchiai di cacao
- un po’ di rum
- 1 cucchiaio di farina
- 2 tazze di noci tritate

Preparazione:
Si mettono insieme sei tuorli d’uovo, la polvere vanigliata, il burro, una tazza di zucchero a velo, il cacao e il rum. Il tutto va miscelato con il mixer, fino a diventare una crema. Del composto 2/3 si mettono da parte.

Al restante 1/3 si aggiunge un cucchiaio di farina, gli albumi delle 6 uova precedentemente sbattuti a neve, una tazza di zucchero , due tazze di noci tritate. Il tutto si mischia bene prima di essere infornato. Va cotto in una teglia rotonda inburrata a 180 gradi per circa 10 minuti, finché non diventa rosato.

Dopo che la torta si è raffreddata bene, si copre con i restanti 2/3 della crema messa da parte all’inizio e si mette in frigo. Dopo qualche ora può essere abbellita con pistacchi o noci tritati.