martedì 27 settembre 2011

Dal sito amico: Eleousa.net

Albania - Commissione mista anglicano-ortodossa

Durazzo, 23 settembre 2011 – Si è svolta dal 16 al 23 settembre 2011 a Durazzo, presso il monastero di San Biagio una riunione della Commissione mista per il dialogo teologico tra anglicani e ortodossi. Da parte della Chiesa ortodossa russa ha partecipato alla riunione il primo vice presidente del Comitato per l'Educazione, vice-rettore del Corso di post-laurea “Santi Cirillo e Metodio”, archimandrita Kirill (Govorun). Durante l’incontro si è discusso principalmente su argomenti di reciproco interesse teologico.
L’archimandrita Kirill ha parlato su "Ermeneutica teologica" Fondamenti della dottrina della Chiesa ortodossa russa sulla dignità umana, libertà e diritti umani".
Le presentazioni, inoltre, hanno riguardato i seguenti argomenti: "I sacrifici come espressione del rapporto tra Dio e l'uomo", "La persona umana: la vittima, e la comunità di soccorso", "Diritti umani e teologia cristiana", "Panoramica della comprensione anglicana di immagine e somiglianza di Dio nell’umanità", "Responsabilità umane per la creazione."
Inoltre, nel corso della riunione sono state scelte le domande che dovrebbero essere incluse nel documento congiunto di dialogo. È stato deciso innanzitutto di trattare il fondamento teologico nello studio dell'uomo. Nella seconda parte del documento devono essere affrontati problemi pratici di antropologia, tra cui l'ecologia, la bioetica, le questioni delle relazioni sessuali e l'ordinazione delle donne.
È stato definito il gruppo nella preparazione del documento, che comprende anche l'archimandrita Kirill (Govorun). Per il momento è stato deciso che il gruppo si riunirà ad Istanbul il 12-14 giugno 2012 al fine di preparare una bozza preliminare del documento. La bozza sarà poi presentata alla commissione plenaria, prevista per settembre 2012 in Galles.
Oltre a partecipare alle riunioni, i membri del comitato hanno avuto l'opportunità di conoscere gli aspetti liturgici e sociali della vita della Chiesa ortodossa albanese, hanno visitato la cattedrale in costruzione a Tirana, enti di beneficenza e comunità religiose.
I partecipanti alla riunione ha incontrato anche Sua Beatitudine l'Arcivescovo di Tirana e di tutta l'Albania Anastasios.

(Fonte: Decr Servizio Comunicazione; www.mospat.ru)

Dal sito: sifeumcalabria.it

Perchè venerare le icone? PDF Stampa E-mail
                                          
Se non lui, chi altro?

 

È proprio il caso di dire, all’indomani dell’uscita, in tutte le librerie nazionali e in versione e-book, del testo “Perché venerare le Icone?” di Passarelli Gaetano. Studioso castrovillarese di nascita, ma oramai cittadino della capitale ove è stato docente di Storia e civiltà bizantina presso le Università di Chieti e Roma Tre, di Spiritualità Orientale e di Liturgia bizantina presso l’Istituto superiore di Studi Medioevali e Francescani della Pontificia università Antonianum, e del Pontificio Istituto Orientale.
Sì perché solo dalla sua rinomata e vasta esperienza sul mondo bizantino, poteva generarsi un saggio in cui la necessità di far conoscere il gran patrimonio della cultura bizantina ad una fetta ben più ampia della solita, ristretta cerchia di studiosi e ricercatori del settore; diviene quasi un’attenta premura affinché tutti possano avvicinarsi e cogliere gli aspetti più salienti del ruolo che l’immagine sacra ha avuto e ha ancora per l’intera cristianità. La convivenza sorprendente della spiritualità e della cultura bizantina a fianco della tradizione latina, ne riafferma la complementarietà e ne stimola l’approfondimento e la ricerca, evidenziando lo splendore ammaliante della religione cristiana, dei suoi tesori d’arte e delle sue variegate tradizioni popolari. Scopo del saggio, è portare alla luce una materia poco conosciuta, il motivo della venerazione delle icone appunto, anche per chi abitualmente le “vede”, stimolandone l’approfondimento sia sotto il profilo religioso e liturgico- cultuale, sia sotto l’aspetto culturale, artistico e filosofico. Ancora oggi per molti, l’icona appare come immagine stereotipata, dall’intrinseco significato e dallo stile non umano, frutto di un simbolismo e di tradizioni teologiche che coinvolgono l’aspetto pittorico, il materiale usato, la disposizione e il luogo entro il quale l’opera si colloca.
Il saggio in questione evita una lettura formale ed estrinseca, ma si mostra necessariamente contenutistico, in cui questioni collaterali quali: il culto da rendere alla Croce, le motivazioni del diverso modo di fare il segno della Croce, la rappresentazione della Trinità, l’origine della benedizione delle immagini, per concludere con il concetto di montagna come immagine, simbolo e percorso ascetico; ne fanno anche un manuale di teologia.
Le icone contemporanee, obbedendo a regole e modelli iconografici estranei all’arte religiosa occidentale, attestano anche, come le comunità di rito bizantino lungo i secoli, hanno trovato una perfetta pace con la Chiesa madre orientale ed altrettanta sintonia con la Chiesa latina d’Occidente. E se fino ad un secolo fa non si conosceva quasi nulla dell’arte bizantina, oggi gli studi si sono moltiplicati, accrescendo dati e scoperte nuove nel campo delle conoscenze, a sostegno del fatto che l’iconografia levantina tradizionale è l’indiscussa testimone della Chiesa indivisa. La sua storia comprende più di un millennio e le forme e i motivi dell’antica arte cristiana nel Mediterraneo sono alla base di tutta l’arte europea, e, influenzano il mondo occidentale nei secoli medievali fino oltre il Duecento.
Lo scopo del saggio: “Perché venerare le icone?”, è di fornire nella lunga genesi dell’iconografia cristiana, il panorama storico di tale arte, da quando in seno alla Chiesa si fa più precisa la coscienza della natura umano-divina di Cristo ed i Padri conciliari definiscono con chiarezza che le immagini di Cristo, la Sua Vita, la Madre di Dio e i Santi, avrebbero potuto essere d’aiuto al consolidamento della fede. Per poi giungere sino allo scoppio della controversia iconoclasta(726), suscitata dall’imperatore e sostenuta da un certo numero di teologi, che prorompe in maniera mai prima avvenuta nel mondo cristiano, con lotte sanguinose, fino all’843, quando è ristabilita la venerazione delle icone, grazie anche ai ferventi sostenitori del culto iconico quali Niceforo e Giovanni Damasceno.
Il libro dovuto ad uno dei maggiori specialisti, è certamente l’unico breve e migliore manuale su tutta la materia, include scoperte e attuali conclusioni, fornisce una continuità narrativa evitando la forma del manuale pedissequo. Al termine del testo le aggiornate bibliografie rendono facili eventuali approfondimenti; così come il solito criterio di consultazioni e rinvii a più testi si semplifica anzi per alcuni aspetti si tronca di netto, quando i brani originari estratti dalle fonti sono ivi riportati. Una nuova forma di saggio destinata al lettore più sprovveduto ma, dati i riferimenti alle scoperte e alle idee più recenti, si conferma che esso serva anche all’uso dello studioso più specializzato.

Carmelina Guida
Nota sull’autore
Gaetano Passarelli è direttore responsabile della rivista “Studi sull’Oriente Cristiano” e Consultore storico presso la Congregazione per le Cause dei Santi.
Esperto di iconografia bizantina. Conta numerose pubblicazioni scientifiche sull’ iconografia, la liturgia e la storia bizantina, tradotte in diverse lingue. Per la Jaka Book dirige la collana “Donne d’Oriente e d’Occidente” è anche autore di biografie, romanzi e opere teatrali.
Dettagli del libro:
Titolo: Perchè venerare le Icone?
Autore: Gaetano Passarelli
Editore: libreriauniversitaria.it
Collana: Biblioteca contemporanea
Data di pubblicazione: 2011
Prezzo: € 11.00

lunedì 26 settembre 2011

Dal sito: natidallospirito

Il buon Samaritano immagine di Cristo (Lc 10,30-37; commento di Sant’Ambrogio)


«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37 Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10:30-37)
Infatti, Gerico è simbolo di questo mondo, e Adamo, cacciato via dal paradiso, cioè dalla celeste Gerusalemme, discese in quella città per il passo falso della sua prevaricazione: il che vuol dire che trasmigrò dalla vita agli inferi; ma non un cambiamento di posto, bensì di condotta fu per lui causa dell’esilio in cui venne a trovarsi la sua natura.
Difatti, enormemente cambiato da quell’Adamo che godeva di una felicità senz’ombra di alterazione, quando si fu sviato dietro i peccati del secolo, incappò nei ladroni: e non vi sarebbe incappato, se, smarrita la via del comandamento celeste, non fosse diventato loro schiavo. Chi sono siffatti ladroni, se non gli angeli della notte e delle tenebre, che talvolta si mascherano da angeli di luce, ma non possono durarla? Costoro prima ci tolgono le vesti, che abbiamo ricevuto, della grazia spirituale e quindi si mettono a ferirci; effettivamente, se conservassimo incontaminate le vesti che abbiamo indossato, non potremmo sentire i colpi dei ladroni.
Bada, dunque, a non farti trovar prima nudo, come Adamo si fece prima trovare nudo, sprovvisto della difesa del comandamento celeste e spogliato della veste della fede, e così ricevette il colpo mortale, nel quale sarebbe perito tutto il genere umano, se quel Samaritano [che significa "custode"], venendogli incontro, non gli avesse curato le ferite dolorose.
Sant’Ambrogio
Esposizione del Vangelo secondo Luca 7,73

Dal sito cattolico: Zenit.org

Benedetto XVI auspica un Concilio pan-ortodosso
Nell'incontro con i rappresentanti delle Chiese ortodosse e ortodosse orientali
ROMA, sabato, 24 settembre 2011 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha auspicato questo sabato che dal rinsaldamento dell’unione tra le Chiese ortodosse possa originare un Concilio pan-ortodosso. Il Papa lo ha detto nell'incontro con i rappresentanti delle Chiese ortodosse ed ortodosse orientali presenti in Germania che ha avuto luogo nella Hörsaal del Seminario arcivescovile di Friburgo.
All'incontro hanno preso parte 12 Vescovi e altri responsabili della Conferenza episcopale ortodossa in Germania - nata nel febbraio del 2010 riunisce tutti e 17 i vescovi ortodossi con riconoscimento canonico che presiedono una diocesi in Germania o che sono a capo di una Comunità in Germania – così come i responsabili delle Chiese vetero-orientali.
La maggior parte degli ortodossi residenti in Germania appartengono ad una delle Chiese dell’ortodossia bizantina. Il patriarcato ecumenico, la Chiesa russa, serba, rumena e bulgara hanno a loro volta fondato delle proprie diocesi in Germania. Le altre comunità ortodosse sono assegnate alle diocesi della loro chiesa per l’Europa con sedi vescovili fuori della Germania.
Nel suo discorso il Papa ha riconosciuto che “fra le Chiese e le comunità cristiane, l’Ortodossia, teologicamente, è la più vicina a noi; cattolici ed ortodossi hanno entrambi la medesima struttura della Chiesa delle origini. Così possiamo sperare che non sia troppo lontano il giorno in cui potremo di nuovo celebrare insieme l’Eucaristia”.
Il Pontefice ha quindi ricordato che il milione e seicentomila cristiani ortodossi ed ortodossi orientali, che vivono in Germania sono ormai “diventati parte costitutiva della società, contribuendo a rendere più vivo il patrimonio delle culture cristiane e della fede cristiana in Europa”.
Successivamente, si è detto felice “dell’intensificazione della collaborazione pan ortodossa, che negli ultimi anni ha fatto progressi essenziali” ed ha notato come “la fondazione delle Conferenze Episcopali Ortodosse là dove le Chiese ortodosse sono in diaspora, è espressione delle salde relazioni all’interno dell’ortodossia”.
“Sono contento che lo scorso anno anche in Germania si sia fatto tale passo”, ha sottolineato ed ha espresso l'auspicio che “le esperienze che si vivono in queste Conferenze Episcopali rafforzino l’unione tra le Chiese ortodosse e facciano progredire gli sforzi per un concilio pan-ortodosso”.
“Rimane altrettanto importante la continuazione del lavoro per chiarire le differenze teologiche, perché il loro superamento è indispensabile per il ristabilimento della piena unità, che auspichiamo e per la quale preghiamo – ha tuttavia evidenziato –. È soprattutto sulla questione del primato che dobbiamo continuare gli sforzi nel confronto per la sua giusta comprensione”.
Le parole del Papa sono state poi un incoraggiamento a “una testimonianza pacifica per la comprensione e per la comunione tra i popoli” unita all'annuncio del “miracolo dell’incarnazione di Dio” di fronte alle tendenze che puntano a “'liberare" la vita pubblica da Dio”.
Di qui anche l'appello del Papa a un impegno comune “per la protezione della vita umana dal suo concepimento fino alla sua morte naturale” contro “ogni intervento manipolatore e selettivo nei confronti della vita umana”e per la difesa della “integrità” e della “singolarità del matrimonio tra un uomo e una donna da ogni interpretazione sbagliata”.
“Qui – ha concluso – l’impegno comune dei cristiani, tra cui tanti fedeli ortodossi ed ortodossi orientali, dà un contributo prezioso per l’edificazione di una società che può avere un futuro, nella quale si porta il dovuto rispetto alla persona umana”.

sabato 24 settembre 2011

Dal sito della Chiesa Ortodossa Russa

Il metropolita Hilarion celebra alla rappresentanza della Chiesa Ortodossa Cinese

Il 21 settembre 2011, festa della Nativitа della Beata Vergine Maria, il metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne della Chiesa Russa, ha celebrato la Divina Liturgia nella chiesa di San Nicola a Golutvino, sede della  rappresentanza della Chiesa Ortodossa Cinese presso il Patriarcato di Mosca. L’altare maggiore di questa chiesa и consacrato  in onore della Nativitа della Vergine.
Col metropolita hanno concelebrato: l’arciprete Nikolaj Kretchetov, decano della circoscrizione ecclesiastica del quartiere Zamoskvoreche di Mosca, il parroco arciprete Igor Zuev, il sacerdote Dimitrij Ageev, assistente del metropolita, il protodiacono Aleksej Trunin, lo hierodiacono Ioann (Kopejkin) e i chierici della parrocchia.
Alla funzione erano presenti i fedeli e benefattori della parrocchia. Diverse preghiere sono state fatte in lingua cinese. Alla liturgia ha fatto seguito una processione attorno alla chiesa.
Poi l’arciprete Igor Zuev ha rivolto al metropolita Hilarion e agli altri ospiti un discorso di benvenuto a nome del clero e fedeli della parrocchia.  Egli ha osservato che negli ultimi anni ci sono stati progressi sostanziali nella normalizzazione della situazione della Chiesa ortodossa autonoma cinese.
“Noi, in quanto collaboratori della rappresentanza della Chiesa cinese, abbiamo ancora molto da fare, e spesso sentiamo amaramente la nostra debolezza. Sappiamo perт che la forza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza, perciт chiediamo al Signore la sua Grazia onnipotente, chiediamo ogni grazia alla Signora del Cielo e vorremmo chiedere anche a Lei la sua benedizione paterna per le nostre opere”- ha detto, tra l’altro, padre Igor.
In occasione della festa della chiesa, il parroco ha fatto dono al metropolita di un bastone pastorale.
Il metropolita Hilarion ha rivolto a tutti i presenti il proprio sermone sulla Nativitа della Vergine, prima festa che apre l’anno liturgico ortodosso.
********
La Missione ecclesiastica Russa in Cina, fondata dal Santo Sinodo, ha iniziato la propria esistenza nel  1713. L’inizio del XX secolo и stato caratterizzato da una significativa espansione della missione, in primo luogo grazie all’impegno del Capo della XVIII Missione, il Vescovo Innokentij (Figurovskij) di Perejaslavl’ (piщ tardi metropolita di Pechino). Sorsero parrocchie, comunitа e rappresentanze della Chiesa Russa a Harbin, Dal’nij, in Manciuria lungo la linea ferroviaria orientale cinese, e anche le chiese cinesi di San Pietroburgo e, infine, di Mosca.
Nelle sedute del 6 marzo e del 1 aprile 1908 il Sacro Sinodo decise di costituire a Mosca la rappresentanza della Missione ecclesiastica russa in Cina e di porla sotto l’autoritа del metropolita di Mosca. La rappresentanza fu costruita nell’estate del 1913.
Nella primavera del 1922 la chiesa fu chiusa dalle autoritа bolsceviche e da allora non fu mai piщ officiata. All’inizio del 1923 gli edifici della rappresentanza furono dati in uso come magazzino della proprietа ecclesiastica confiscata. Nel 1978 l’edificio fu in gran parte abbattuto.
Il 27 dicembre 2007, il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa, in occasione del  50 ° anniversario della formazione della Chiesa Ortodossa Autonoma cinese, ha stabilito di intensificare
gli sforzi intrapresi dal Dipartimento per le Relazioni Ecclesiastiche Esterne nel dialogo con la Cina per la normalizzazione della situazione della Chiesa Ortodossa Autonoma cinese, e ha ritenuto opportuno aprire a Mosca una rappresentanza di questa Chiesa.
Il 7 febbraio 2011, il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill ha costituito la Rappresentanza a Mosca  della Chiesa Ortodossa Autonoma cinese sulla base della chiesa di San Nicola di Golutvino; rettore и stato nominato l’arciprete Igor Zuev.

Riflessione domenicale a cura di p. Seraphim


Серафим Валеряни Ропа
 
Domenica 25 settembre – XV dopo Pentecoste
I di Luca – tono VI

Nel nome del Padre e del Figlio e del Santo Spirito. Amìn.
“Splenda la luce nelle tenebre” e la luce rifulse in principio all’inizio della creazione e diede vita all’universo intero, fu la prima creazione che avvenne quella lontana “Domenica”. Se come dice la Bibbia il sabato il Signore Dio si riposò dalle “fatiche” della creazione e aveva fatto tutto in 7 giorni (riposandosi appunto il 7°) aveva iniziato la creazione la “Domenica”. La Domenica viene così ad assumere per noi cristiani un ruolo doppio quello di inizio della prima creazione e quello di inizio della nuova creazione in Cristo Gesù il quale risorto dai morti non muore più poiché la morte non ha più potere su di lui.
Ora come all’inizio dell’antica creazione tutto era informe e le tenebre regnavano così all’inizio della nuova creazione tutto era informe e tenebroso nel cuore dell’uomo ma la Luce vera che è Gesù Cristo il Figlio Unigenito del Padre fatto uomo ci ha illuminati. Sì siamo uomini peccatori come san Pietro ma nel battesimo innestati in Cristo diventiamo nuove creature illuminabili e illuminate. Molti credono che per essere accetti a Dio bisogna essere senza peccato, aspettare di essere perfetti, è vero invece il contrario dobbiamo scendere dalla barca delle nostre occupazioni quotidiane, inginocchiarci e dire al Signore: “sono un peccatore, abbi pietà di me”. La vita cristiana non è frutto di una rigida legge morale che ci imponiamo ma è apertura all’azione di Cristo, all’azione della nuova creazione. Spesso il diavolo ci tenta dicendoci che siamo tenebra, che il nostro cuore è pieno di tenebre e che per noi la salvezza è impossibile, rispondiamogli: “Esiste il mondo frutto della prima creazione? Sì esso esiste frutto dell’amore di Dio, della sua Provvidenza che lo mantiene, ogni cosa ed essere vivente loda Iddio ognuno secondo il proprio stato ed è immagine finita della Sua Gloria Infinita! Orbene come esiste la prima creazione che porta frutti nel mondo materiale ancora di più esiste la nuova creazione che porta frutti di vita eterna, la luce di Cristo è in me e per quanto sia fitta la tenebra come la Luce Divina infranse le tenebre del caos primordiale così essa vincerà la tenebre del mio cuore e mi illuminerà, così che possa a tornare ad essere cioè che era in principio nel progetto di Dio parte e comunione con Lui, la Luce Infinita che non conosce tramonto.”
Ricordo a chi segue il calendario giuliano che martedì 27 p.v. sarà la festa dell’esaltazione della preziosa Croce vivificante, giorno di digiuno.
Buona Domenica a tutti.

p. Seraphim

venerdì 23 settembre 2011

Ricevo dal carissimo amico Prof. Francesco Marchianò di Spezzano Albanese questo articolo scritto da Raffaele Fera......e lo giro a tutti voi (Leggetelo con attenzione e sappiate che se Roma impera nei nostri paesi e perchè molte volte il popolo non ha potuto difendersi abbastanza)


IL 1668 SEGNA LA FINE DEL RITO 
GRECO ORTODOSSO A SPEZZANO
Cronaca di un (NEFASTO...n.d.r.) evento conclusosi 334 anni fa.
SPEZZANO ALBANESE – Il 26 gennaio, le comunità arbëreshe di rito greco ortodosso hanno commemorato i defunti. E’ una liturgia purtroppo completamente estranea a Spezzano Albanese che ha dovuto dire addio alla religione dei padri il 4 marzo del 1668.
La dolorosa storia inizia nel XVII secolo, quando il livello culturale e quindi teologico dei preti di rito greco a Spezzano Albanese, come in tutte le altre comunità arbëresh, era ormai bassissimo. Dopo un tirocinio simile ad un garzone di bottega, gli aspiranti sacerdoti si recavano a Roma per l’ordinazione sacerdotale che veniva concessa più per compassione che per merito di dottrina. Per contro i sacerdoti di rito latino presenti nei due comuni limitrofi di Terranova e San Lorenzo, forti di una cultura figlia del concilio di Trento, esercitavano una forte attrattiva nei giovani aspiranti al sacerdozio. Il paese si scinde fra progressisti che aspirano al rito latino e tradizionalisti che vogliono conservare la religione dei padri. Il lavorio sotterraneo dei primi è favorito anche dalle manovre dell’Arcivescovo di Rossano Francesco Carlo Spinola oltre che dall’Arcivescovo Antonio Spinelli, parente del Feudatario Principe Vincenzo Spinelli di Cariati, che, subentrato nel 1619 quale nuovo padrone del feudo di Terranova da Sibari, alla casa principesca dei Sanseverino, non vedeva di buon occhio il prete ortodosso del tempo Don Nicola Basta, uomo di elevata posizione sociale, sacerdote pio e zelante e non incline al servilismo di prammatica verso il feudatario di turno.
Dopo che la Sacra Congregazione Generale di Propaganda Fide ebbe rigettata la richiesta di 40 spezzanesi, quantunque supportati dalle autorità comunali, che chiedevano il passaggio dell’intero paese al rito latino, il principe Spinelli andò su tutte le furie, meditando l’occasione della vendetta contro Don Nicola Basta.
Fu così che, una sera del 1663, rapito da due guardiani del principe e costretto a rinunziare all’arcipretura, fu rinchiuso nelle carceri del castello di Rossano. Le autorità comunali, in testa il sindaco Angelo Cuccio, su richiesta di 70 cittadini che lamentavano la mancanza di un sacerdote, nell’aprile del 1664, sollecitano nuovamente la Sacra Congregazione al cambio del rito. La petizione venne trasmessa al Sant’Uffizio che prese tempo in attesa delle informazioni chieste sul caso al nuovo Arcivescovo Francesco Carlo Spinola, nominato alla morte di Giacomo Carafa, amico e protettore dell’arciprete Basta. Nel frattempo anche la popolazione che voleva mantenere il rito greco rivolse una petizione proponendo, probabilmente dietro suggerimento dello stesso Basta che dal carcere aveva scritto una lettera in tal senso alla Sacra Congregazione, lo sdoppiamento della parrocchia nei due riti, per riappacificare gli animi.
Intanto, l’arciprete Basta, veniva scarcerato, ma restava un estraneo nella sua chiesa dove era stato sostituito dal Don Antonio Capparelli. Questa situazione si protrasse per più di due anni durante i quali la Santa Sede continuava a tacere visto che l’arcivescovo Spinola, non sapendo uscire dall’empasse e non volendo scontentare il principe, non inviava le informazioni richieste. Questo silenzio della Santa Sede, veniva interpretato dal principe Spinelli come una grave menomazione al suo prestigio feudale, e per questo macchinava il modo di uscirne vincitore. Fu così che nella primavera del 1664, due suoi inviati, descritti come i bravi di Don Rodrigo, ebbero il compito di “convincere” Don Nicola Basta a rinunciare volontariamente all’arcipretura. La risposta fu negativa ed il principe maturò l’idea di ucciderlo. Fortunatamente preavvisato di questi propositi, l’arciprete, nell’agosto del 1664, si rifugiò nella vicina San Lorenzo, sottoposta alla giurisdizione di un altro feudatario, Don Paolo Mendoza, Marchese della Valle Siciliana. Visse così due anni, ma la sera del 4 agosto del 1666, gli stessi due sbirri di due anni prima, lo acciuffarono ai confini e legatolo come un malfattore lo trasportarono nelle segrete del castello di Terranova da Sibari. Qui, dopo 27 penosi giorni, il 31 di agosto, rese l’anima al Creatore.
Immediatamente il 5 settembre le autorità, riconvocata la popolazione e ottenutone parere favorevole, inviano un corriere speciale a Roma con la terza richiesta di cambiamento del rito. Nel frattempo, il 24 settembre, l’Arcivescovo Spinola, con più che sospetto tempismo, spedisce la relazione di due anni prima, imputando il ritardo all’impossibilità di ben operare causa la presenza ostile del Basta. Vi include anche una copia della richiesta già inviata dalle autorità comunali tramite corriere, per far credere di essere all’oscuro di tutto.
Ma il Sant’Uffizio che il 1° ottobre 1664, ricevuta la lettera di Don Nicola dal carcere, era venuto a conoscenza delle macchinazioni del principe, non presta fede alla parola dell’arcivescovo e con lettera del 3 marzo 1667 gli ordina di recarsi a Spezzano per interrogare personalmente la popolazione e assicurarsi sulla sua unanime volontà di passare al rito latino.
La dettagliata risposta dell’Arcivescovo non lascia dubbi. Tutti gli spezzanesi (mille abitanti), - ma nei documenti sono elencati poco più di un centinaio di cognomi - vogliono passare al rito latino. Questo a causa della scarsa preparazione culturale dei preti greci e della pratica ormai comune di confessarsi con sacerdoti latini.
Questa volta la Sacra Congregazione di Propaganda Fide dette credito alla relazione dell’arcivescovo Spinola e il nuovo Papa Clemente IX, il 3 agosto 1667, 45 giorni dopo la sua elezione, firmò l’”exequatur”. La motivazione di una così sollecita firma da parte del Pontefice - come sostiene lo storico   G. A. Nociti - è probabilmente da ricercare nelle eresie di Lutero, Calvino e Giansenio che agitavano il mondo cattolico. Il germe delle eresie e degli scismi, persino nel rito greco, che prevede il matrimonio dei sacerdoti (all’epoca tutti felicemente sposati e con numerosa prole), era un pericolo da non sottovalutare.
Il nuovo arciprete latino fu Don Vincenzo Mangiacavallo, scelto l’11 novembre 1667. Era il più interessato alla nomina vista l’attività propagandistica svolta in favore del nuovo rito. E il 4 marzo 1668, dall’altare della chiesa matrice di San Pietro e Paolo, celebrò malinconicamente la prima messa latina inaugurando a Spezzano il nuovo rito, chiudendo così una vicenda durata oltre un cinquantennio.
Un’occasione per ritornare all’antico rito si ripresentò agli spezzanesi nel 1919, quando la Santa Sede, ritenendo strategica la posizione topografica di Spezzano, a cui fanno da corona la gran parte delle comunità arbëresh del cosentino, la propose come sede della istituenda eparchia greca. Ma lo scarso gradimento delle autorità religiose della diocesi, fece propendere la scelta in favore della vicina comunità di Lungro.
Raffaele Fera.

martedì 13 settembre 2011

Dal sito: http://www.repubblica.it/

CORTE PENALE DELL'AJA

Vittime preti pedofili denunciano il Papa
"E' colpevole di crimini contro l'umanità"

Clamorosa iniziativa dell'associazione Snap. "Benedetto XVI ha diretta e superiore responsabilità per gli stupri e le altre violenze sessuali commesse nel mondo"

BRUXELLES - Un gruppo di associazioni delle vittime dei preti pedofili, la Snap (Survivors network of those abused by priests) e il Centro per i diritti costituzionali (Center for Costitutional Right) ha depositato oggi presso la Corte penale internazionale dell'Aja un ricorso in cui accusa il Papa e tre alti esponenti del Vaticano - il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, il suo predecessore, il cardinale Angelo Sodano, e il prefetto della Congregazione della dottrina della fede, cardinale William Levada - di crimini contro l'umanità per la copertura dei reati commessi da prelati contro i minori. Sul suo sito l'associazione spiega di aver deciso questo "storico passo" per proteggere "tutti i bambini innocenti e gli adulti vulnerabili".
Nella denuncia si chiede alla Corte penale internazionale di "incriminare il Papa" per la sua "diretta e superiore responsabilità per i crimini contro l'umanità degli stupri e altre violenze sessuali commesse nel mondo". Nei prossimi giorni i responsabili della Snap lanceranno un tour in Europa per illustrare le loro accuse e sostenere la denuncia al Cpi, che si occupa di crimini di guerra e contro l'umanità.
I legali delle associazioni hanno presentato all'Aja un dossier di 80 pagine ed hanno spiegato che il ricorso alla Corte internazionale si è reso necessario "poiché le azioni legali condotte a livello nazionale non sono state sufficienti a impedire che gli abusi contro i minori continuassero". La
denuncia, a quanto si è appreso, riguarda in particolare cinque casi di abusi sessuali avvenuti in Congo e negli Stati Uniti e commessi da prelati provenienti dal Belgio, dall'India e dagli Usa.

Sarà ora il procuratore generale della Corte, Louis Moreno-Ocampo, a dover decidere se accogliere o meno il ricorso andando incontro al rischio di sollevare un acceso quanto delicato dibattito sul ruolo e le competenze della Cpi. La speranza dei ricorrenti è che la Corte dell'Aja decida quanto meno di aprire un'indagine preliminare per verificare se il caso rientra sotto la sua giurisdizione. La Corte penale internazionale, organismo indipendente dall'Onu, è diventata operativa il primo luglio de 2002 e, in base al trattato costitutivo sottoscritto a Roma, viene chiamata a giudicare i presunti responsabili di crimini contro l'umanità e i genocidi. L'ultima iniziativa partita della Corte è stato il mandato d'arresto emesso nei confronti di Muammar Gheddafi.
Il primo commento all'iniziativa da parte Vaticana è arrivato da Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e prefetto emerito di Propaganda Fide. "Qui c'è, dobbiamo
dirlo molto concretamente, il solito tentativo anti-cattolico che tende in qualche maniera ad offuscare un'immagine che, dal punto di vista umano, è quanto di più prestigioso abbiamo nella nostra società", ha affermato il cardinale.
(13 settembre 2011)

sabato 10 settembre 2011

Riflessione domenicale di Padre Seraphim

Серафим Валеряни Ропа
 
Domenica 11 settembre 2011
XIII dopo Pentecoste

Nel nome del Padre e del Figlio e del Santo Spirito. Amen.
“Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto di mia propria mano!” Una frase che si ritrova ogni tanto nelle lettere di san Paolo, è la frase chi mi ha “salvato”. Quando iniziai a studiare qualcosa di teologia mi consigliarono un libro scritto da un protestante sull’origine del Nuovo Testamento. Ogni pagina di questo libro era per me un’angoscia, non so come riuscii a finirlo ma alla fine il succo del libro era che si poteva dubitare di tutto: che san Paolo avesse scritto almeno una lettera, che san Paolo fosse un credente, perfino si poteva dubitare che san Paolo fosse veramente esistito. Questo dubbio durò finché il mio padre spirituale mi disse: “Ci sono così tante specie di protestanti che non si riesce neanche a contarli, chissà se almeno credono nelle bistecche che mangiano, ma io ne dubito. San Paolo non scriveva le lettere di proprio pugno ma si faceva aiutare così come altri scrittori del Nuovo Testamento, per questo in alcune lettere si trovano stili letterali leggermente diversi ma spesso si trova la dicitura - Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto di mia propria mano! – perché nei saluti finali o in una parte della lettera egli si “firmava” per dare l’autenticazione a quella lettera a chi conosceva la sua scrittura. Non guardare alla Bibbia soltanto, guarda anche alla Tradizione della Chiesa. Quando san Paolo scriveva ai Corinzi, ai Tessalonicesi, ai Filippesi… la Chiesa a Corinto, a Tessalonica, a Filippi già esisteva, è la Tradizione di quelle Chiese che ci ha tramandato le sue lettere come autentiche, è la Chiesa che ha fatto la Scrittura non che prendo la Scrittura e mi faccio la mia chiesa.” Trovai quelle parole illuminanti chiusi definitivamente il libro (e con esso l’ateismo al quale mi aveva condotto) e lo restituii per sempre alla biblioteca dimenticandomi per sempre titolo ed autore. Da allora cerco di leggere libri di teologia scritti da persone più affidabili e non dico cristiane ortodosse ma possibilmente almeno credenti.

Vi ricordo che domani per chi segue il calendario giuliano è la decollazione di san Giovanni il Battista quindi giorno di grande digiuno, e mercoledì 14 (cioè l’1 settembre) sarà il primo giorno dell’anno ecclesiastico. Mentre per chi segue il calendario gregoriano mercoledì 14 sarà l’esaltazione della Santa Croce quindi giorno di grande digiuno.
Buona Domenica a tutti.

p. Seraphim

venerdì 9 settembre 2011

Dal sito della Chiesa Ortodossa d'Albania

Faqja e re në internet e Qendrës Orthodhokse
Diagnostike “Ungjillëzimi”.

   
  Tashmë Qendrën Orthodhokse Diagnostike “Ungjillëzimi”, mund ta gjeni edhe në faqen e re zyrtare të internetit www.klinikaorthodhokse.com.
    Këtu mund të gjeni shërbimet që ofrohen në këtë qendër mjekësore, informacion mbi strukturën funksionale, laboratorët, kabinetet, informacion mbi shëndetin, guidën e shërbimeve për pacientët, kontakte dhe vendndodhjen e kësaj klinike.
    Le të shpresojmë që kjo faqe e re interneti të jetë një mundësi më shumë për komunikim të interesuarit dhe pacientët në mënyrë që të merret informacioni i kërkuar si dhe të merren përshtypjet e tyre në lidhje me shërbimet e ofruara.
    Kjo do të shërbejë që njerëzit të kenë mundësi të kontaktojnë me klinikën sa më shpejt për problemet e tyre. Të përditësohen herë pas here me shërbimet e reja apo doktorë të ndryshëm të huaj që vijnë në klinikën tonë.
    Kjo faqe do të shërbejë dhe për mjekët e ndryshëm brenda vendit dhe në rajon për tu njohur më nga afër me klinikën.
Për një shërbim sa më të mirë, ata mund të dërgojnë mendimet e tyre, në mënyrë që kjo faqe të jetë sa më e vlefshme për pacientët.

Dal sito di Padre Massimo

Padre Makar tonsurato Ieromonaco

Padre Bunge Schimonaco


La sera del 21 agosto scorso il nostro vescovo Nestor insieme a padre Makar di Milano e altri confratelli si è spostato al monastero della Santa Croce in Ticino dove abita padre Gabriel Bunge da poco ricevuto all'ortodossia.

Durante la sua visita ha tonsurato ieromonaco padre Nicola Makar imponendogli il nome di Ambrogio.

A sua volta padre Bunge è stato fatto Megaloschima, monaco del grande abito.



A tutti i cari confratelli tanti auguri e pregate per noi!!

giovedì 8 settembre 2011

CHIESA CRISTIANA ORTODOSSA
PATRIARCATO DI MOSCA

PARROCCHIA
SAN GIOVANNI DI KRONSTADT
CASTROVILLARI


Domenica 11 Settembre 2011
Martirio di S. Giovanni Battista


Care Fedeli, Cari Fedeli:
Vi ricordo che Sabato 10 settembre con inizio alle ore 17,30 circa celebrazione del Vespro (Vecernie)
della Festa del martirio del Precursone del Signore Giovanni il Battista;
Domenica con inizio alle ore 10.00 - Divina Liturgia.


mercoledì 7 settembre 2011

Dal sito: AsiaNews

Un “soddisfatto” Bartolomeo I spera nella 

riapertura della scuola di Chalki

Istanbul (AsiaNews) – Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli, ha espresso grande soddisfazione per la decisione del premier Tayep Erdogan di restituire le proprietà sequestrate dopo il 1936 a tutte le minoranze non islamiche. Allo stesso tempo, incontrando il primo ministro turco, egli ha espresso la speranza che vi siano “passi ulteriori”. Erdogan ha risposto “ Questo è solo l’inizio”.
  Il patriarca spera con forza che ritorni alla Chiesa ortodossa la scuola teologica di Chalki e che venga riaperta l’accademia, fatta chiudere dal governo turco nel 1971.
 Quasi ad anticipare la possibilità dell’apertura, Bartolomeo ha già nominato mons. Elpidoforos Lambrinidis, metropolita di Bursa, come priore del monastero di Agia Triada (SS Trinità), e direttore degli studi: la scuola teologica di Chalki appartiene infatti al monastero.
  Dopo tante pressioni della comunità internazionale e soprattutto dell’Unione europea, il governo di Erdogan ha pubblicato un decreto con cui si restituisce alle minoranze greco-ortodosse, armene, ebree e altri gruppi non islamici, migliaia di proprietà che il governo turco aveva loro ingiustamente sottratto o sequestrato, contravvenendo ai loro impegni internazionali.
  La decisione ha sapore storico perché fa cambiare la visione delle minoranze religiose di Ankara, dopo oltre 70 anni.
 Ieri il patriarca ecumenico si è recato alla Madonna di Souda per la festa della Sacra Zona di Nostra Signora. La chiesa dove egli ha celebrato si trova a ridosso dell’antica muraglia bizantina nella città. Nella sua omelia, Bartolomeo I ha per la prima volta commentato la decisione del governo.
  “Oggi è un giorno molto particolare - ha introdotto il patriarca - perché i festeggiamenti avvengono a pochi giorni dall’annuncio della restituzione delle proprietà da parte del governo turco, sottratteci ingiustamente dopo il 1936. É un momento di grande gioia non soltanto per noi cristiani ortodossi, ma per tutte le minoranze che vivono da secoli su queste terre”
  “Meglio tardi che mai” ha esclamato, e ha aggiunto: “Se la Turchia si ritiene uno Stato di diritto, tutto deve realizzarsi nel contesto della giustizia e non dell’illegalità”.
 Alcuni commentatori sottolineano questa frase perché essa inquadra l’iniziativa di Erdogan, non come un atto di favore verso le minoranze non musulmane, ma come un atto di ripristino per un’ingiustizia perpetrata ai loro danni, malgrado gli impegni e gli accordi internazionali assunti dai precedenti governi turchi e mai rispettati.
  Bartolomeo ha infine riferito che nell’esprimere la sua soddisfazione, gioia e ringraziamenti ad Erdogan, ha voluto ricordargli che “tutti sono in attesa di ulteriori passi significativi verso le minoranze non musulmane”. Il premier gli ha risposto: “Questo è solo I’inizio”.
  Intanto il patriarca ecumenico ha nominato proprio ieri il nuovo priore del monastero di Agia Triada (SS Trinità), al quale appartiene la scuola teologica di Chalki. Il nuovo priore è mons. Elpidoforos Lambrinidis, metropolita di Bursa. Egli sarebbe destinato ad assumere la direzione degli studi di Chalki, non appena la scuola verrà riaperta.
  Negli ambienti diplomatici si vocifera che questa nomina fa presagire la probabile ed imminente riapertura della scuola teologica di Chalki, perchè - si dice – “Erdogan vuole chiudere tutte le pendenze con le minoranze non musulmane, retaggio dei governi del vecchio establishment”.
  Le scelte a favore delle minoranze non islamiche mostrano il premier impegnato in una nuova geopolitica mediorientale. Il gesto ulteriore della riapertura di Chalki lo riqualificherebbe ancora di più non solo agli occhi degli occidentali, ma in tutta l’area.

martedì 6 settembre 2011

11 settembre (29 agosto): Martirio del Precursore e cugino di Gesù Giovanni il Battista.

LA DECOLLAZIONE DEL SANTO GLORIOSO PROFETA,
PRECURSORE E BATTISTA GIOVANNI
Commemorazione l'11 settembre  (29 agosto)

La decollazione del Profeta, Precursore del Signore, Giovanni Battista: Gli evangelisti Matteo (14,1-12) e Marco (6,14-29) ci hanno lasciato i racconti del martirio di Giovanni Battista avvenuto nell’anno 32 dopo la nascita di Cristo.
Dopo il Battesimo del Signore, san Giovanni Battista fu rinchiuso in prigione da Erode Antipa, il tetrarca (sovrano di un quarto della Terra Santa) e governatore della Galilea. (Dopo la morte del re Erode il Grande, i Romani divisero il territorio della Palestina in quattro parti, e misero un governatore a capo di ogni parte. Erode Antipa ricevette la Galilea dall’imperatore Augusto).
Il profeta di Dio Giovanni aveva apertamente denunciato Erode per aver lasciato la moglie legittima, la figlia del re arabo Areta, e poi aver cominciato a convivere con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo (Luca 3,19-20). Il giorno del suo compleanno, Erode fece un banchetto per i dignitari, gli anziani e un migliaio di capi del popolo. Salomè, figlia di Erodiade, danzò innanzi agli ospiti ed Erode ne fu incantato. In segno di gratitudine verso la ragazza, giurò di darle tutto quello che avrebbe chiesto, finanche la metà del suo regno.
La vile ragazza su consiglio della sua malvagia madre Erodiade chiese che su un piatto le fosse data la testa di Giovanni il Battista. Erode si inquietò, perché temeva l’ira di Dio per l’omicidio di un profeta, che prima aveva ascoltato. Ebbe anche paura del popolo, che amava il santo Precursore. Ma a causa degli ospiti e del suo giuramento sconsiderato, diede ordine di tagliare la testa di san Giovanni e di darla a Salomè.
Secondo la tradizione, anche dopo la morte la bocca del predicatore del pentimento ancora una volta si aprì e gridò: “Erode, non ti è lecito avere la moglie di tuo fratello Filippo”. Salomè prese il piatto con la testa di san Giovanni e lo diede a sua madre. Erodiade in preda alla frenesia oltraggiò ripetutamente la testa del santo facendola poi gettare in un luogo immondo. Ma la pia Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, seppellì la testa di Giovanni Battista in un vaso di terra sul Monte degli Ulivi, dove Erode aveva un appezzamento di terreno. (Il ritrovamento del Capo Venerabile viene celebrato il 24 febbraio). Il corpo santo di Giovanni Battista quella notte fu preso dai suoi discepoli e sepolto a Sebastia, là dove l’atto malvagio era stato compiuto.
Dopo l’omicidio di san Giovanni Battista, Erode continuò a governare per un certo tempo. Durante il processo che precedette la morte del Salvatore, Ponzio Pilato, governatore della Giudea, gli inviò Gesù Cristo per farlo giudicare, ma Erode dopo averlo beffeggiato glielo rimandò (Luca 23, 7-12).
Il giudizio di Dio giunse su Erode, Erodiade e Salomè già durante la loro vita terrena. Salomè in un inverno, attraversando il fiume Sikoris, cadde attraverso il ghiaccio, che aveva ceduto in modo tale che il suo corpo era in acqua, ma la sua testa era intrappolata al di sopra del ghiaccio. E avvenne che come un tempo ella danzava con i piedi sulla terra, ora invece si agitava disperatamente nell’acqua gelata. Così rimase intrappolata fino al momento in cui il ghiaccio affilato le tagliò il collo.
Il suo cadavere non venne trovato, ma la testa venne portata ad Erode ed Erodiade, allo stesso modo in cui un giorno lei aveva portato la testa di san Giovanni Battista. Il re arabo Areta, per vendicare l’affronto mostrato a sua figlia, mosse guerra contro Erode. Erode sconfitto subì l’ira dell’imperatore romano Caio Caligola (37-41) e fu esiliato con Erodiade prima in Gallia, e poi in Spagna.
La Decollazione di San Giovanni Battista, è un giorno di festa stabilito dalla Chiesa, in cui si osserva un digiuno stretto a motivo del dolore dei cristiani per la morte violenta del santo. In alcuni paesi ortodossi i devoti in questo giorno non mangiano da un piatto piano o usano un coltello o mangiano cibo di forma rotonda.
Oggi la Chiesa fa memoria dei soldati ortodossi uccisi sul campo di battaglia, come stabilito nel 1769 al tempo della guerra della Russia contro i turchi e i polacchi.
 

Tradotto per © Tradizione Cristiana da E. M. agosto 2011

lunedì 5 settembre 2011

Dal sito: tradizione.oodegr.com

“Ecco un santo che cammina sulla terra!”
 “Solo tu, Signore, sai di che cosa abbiamo bisogno”
(preghiera del Patriarca di Serbia, sig. Pavle)
  
Sua Santità l’Arivescovo di Peć,
Metropolita di Belgrado e Karlovci,
Patriarca di Serbia Pavle
11.9.1914 – 15.11.2009
 
Da un ragazzo debole, per il quale accendevano la candela credendo che fosse morto e che nel corso di religione prendeva 2, è diventato uno tra i più grandi uomini spirituali del suo tempo.
Dopo 22 ore di viaggio sull’aereo tornando dall’Australia si reca direttamente alla veglia presso la Chiesa della metropoli di Belgrado, dopo si impegna a ricucire per due ore la sua tonaca strapazzata per partire alle 6 di mattina, dopo la celebrazione della divina Liturgia, per Mosca, dove il Patriarca russo Alessio II gli chiederà, se nel frattempo, è riuscito a visitare la Nuova Zelanda.
 
Trovandosi in America, nella missione per il ritorno e la riunificazione con la Chiesa madre di Serbia delle eparchie serbe separate della Chiesa Ortodossa Serba in America, l’estate del 1992, prima della partenza da Los Angeles per Chicago, sua Santità, ossia, il Patriarca dei Serbi Pavle sollevò la tonaca, ed entrò nelle acque del Pacifico. Rimase in questa posizione per un po’ guardando la profondità e l’altezza dell’orizzonte, evidentemente stava pregando; si chinò e dal fondo dell’acqua prese due pietre bianche, le baciò e le mise in tasca. Poi tracciò il segno della croce sul suo corpo e si diresse alla vettura che lo aspettava a poca distanza. Uno degli agenti dell’FBI che lo vigilavano, si avvicinò, si inginocchiò e baciò la mano del Patriarca Serbo esclamando: “Ecco, un santo che cammina sulla terra!”.
Le stesse parole si sarebbero potute sentire a quel tempo in Serbia dalle persone che seguivano le sue celebrazioni, ma anche da coloro che lo incontravano per le strade di Belgrado, mentre si recava con il suo “bastoncino” nei mercati o in una sinassi o a qualche altro lavoro.
 
 
Gojko Stojčević* ha attraversato una lunga e difficile strada, divenuto poi monaco e in seguito vescovo Pavle, fino a quando sarebbe stato chiamato, ancora vivo sulla terra, “santo”.
Nacque il giorno della festa della Decapitazione di San Giovanni il Precursore, l’11 settembre (vecchio calendario) del 1914 nel villaggio Kućanci di Slavonia (oggi questa regione appartiene alla Croazia, i Serbi furono cacciati da lì nel 1995, durante la recente guerra), dove i suoi genitori emigrarono dal sud della Serbia. In tenera età rimase orfano, cosa che rese la sua vita ancora più difficile.
“Molto presto rimasi senza genitori”, dice, “mio padre lavorava in America, lì si ammalò di tubercolosi e tornò a casa, solo per morire. Mia madre fece le seconde nozze dopo un anno, mentre mio fratello e io siamo rimasti con mia nonna e mia zia. Anche mia madre dopo un po’ morì. Perciò il concetto di madre per me è legato alla zia. Sentivo il suo amore infinito, lei sostituì mia madre, a tal punto che ora che ci penso quando morirò, incontrerò prima di tutto mia zia e poi gli altri”.
Da bambino era, come racconta lui stesso, molto debole, al punto che un giorno gli accesero la candela credendo che fosse morto! La zia si rese conto che Gojko non era adatto per i lavori di campagna e si decise a mandarlo dallo zio, per studiare.
Più tardi racconterà lui stesso riguardo a quell’epoca: “Nella periferia della città di Tuzla siamo riusciti a sopravvivere grazie ad una mucca, che eravamo costretti, quasi a costo della scuola e dello studio, a portare al pascolo. Lo zio era severo ma giusto. Ha educato tutti i suoi figli, compreso me. Ci siamo tutti laureati all’Università, mentre alcuni hanno ottenuto anche il dottorato”.
“Prima di iniziare la scuola superiore, mi mandarono nel monastero di Orahovica, perché mi preparassi lì per un po’ di tempo… rimasi lì per un mese, ma non riuscivo a comprendere molte cose agli Uffici. Avevo tuttavia una sensazione intima dei secoli passati e degli antenati, che pregavano in questo luogo; per me queste preghiere erano presenti, come anche i loro sospiri e le loro gioie; tutto questo si incise tantissimo nella mia mente, tuttavia non mi immaginavo che poi il mio futuro sarebbe stato legato alla Chiesa”. Non c’era niente nel giovane Gojko che potesse rivelare il suo futuro ecclesiastico, neanche il suo voto alla lezione di religione! Pur crescendo in una famiglia religiosa ed essendo uno studente eccellente, tuttavia in questa materia prendeva 2!
“Il nostro professore era basso di statura, Serbo proveniente dall’Ungheria. Ho avuto una serie di professori per molti anni, ma per me lui è rimasto il migliore educatore ed insegnante. Una materia didattica come la Dogmatica, tutta sotto forma di domande e risposte, era difficile da capire a quell’età. Però lui la insegnava così bene che difficoltà non ne avevamo. Era bravo, ma un uomo molto severo. Quando mi interrogava durante la lezione, non mi ci trovavo più; non potevo dire niente, borbottavo qualcosa qua e là; allora lui rivolgendosi a me diceva: ‘siediti!’. Quando chiedeva qualcosa di difficile io trovavo l’opportunità di migliorare la mia impressione. Di solito diceva: ‘Chiunque sa prenderà 2’. Se sapevo, alzavo la mano e correggevo il mio voto. Più tardi, quando sono cresciuto, sono diventato più indipendente, non avevo più ansia, anche se mi piacevano di più le materie che non richiedevano molta memoria, come la matematica e la fisica. Ha prevalso l’influenza dei miei parenti per l’iscrizione alla Scuola Sacerdotale, sebbene il mio interesse fosse verso la fisica della quale mi sarei occupato più avanti, in particolare nel mio tempo libero.
Il Patriarca terminò la Scuola teologica a Belgrado. La Seconda Guerra Mondiale scoppia mentre si trova al suo paese natio, in Slavonia, da dove, come molti altri serbi, fu costretto a rifugiarsi in Serbia. Si ritrovò di nuovo a Belgrado ma ora come profugo. Per poter guadagnarsi da vivere, fu costretto ad accettare di fare lavori pesanti da operaio.
Egli stesso racconta: “Quando nel 1941 fuggii a Belgrado, lavoravo nelle costruzioni, nelle banchine di carico e scarico dei porti… Fu lì che il mio pollice rimase deformato. Non avevo la forza di sopportare questi lavori. Nella primavera del 1942, il mio compagno di classe Ieromonaco Eliseo (Pojovds) mi condusse al Sacro Monastero della Santissima Trinità a Ovčara. Il monastero era in buone condizioni economiche ed era in grado di mantenere anche me. Mi affidarono dei lavori più leggeri. Dopodiché lavoravo come insegnante e catechista a Banja Koviljača, all’istituto dei bambini profughi dalla Bosnia. Un giorno caldo di agosto nel 1944, noi stessi insegnanti, abbiamo portato i ragazzi al fiume Drina. Gli mostrammo il punto fin dove potevano arrivare nel fiume; ma i bambini sono bambini! Quindi, vedo un bambino allontanarsi e immergersi nelle acque; si dà una spinta dal fondo cercando di emergere, raggiunge la superficie cercando di respirare, ma non riesce ad arrivare alla riva. Pur essendo accaldato e completamente sudato come ero, mi sono buttato verso il bambino e l’ho tirato fuori. Poi l’ho preso, l’ho piegato sulle mie ginocchia e gliele ho “suonate” dicendogli: ‘Figlio mio, ti sei salvato dalla Bosnia, tua madre e tuo padre sono stati assassinati e tu ora vuoi annegare davanti a me. Dove hai la tua mente?’. Subito dopo questo mi ammalai, ho avuto febbre alta. Sono andato a fare i controlli medici dopo i quali mi è stato detto: Tubercolosi!”. Si trattava di questa malattia grave, che a quel tempo non lasciava nessuna speranza di salvezza. I medici dissero a Gojko che gli rimanevano solo tre mesi di vita. I monaci lo portarono nel Sacro Monastero Vujan, ma gli raccomandarono di non entrare nella chiesa durante gli uffici e la divina Liturgia, di non mangiare con la fraternità e di evitare qualunque contatto con gli altri, affinché non contagiasse la malattia. Quando i monaci terminavano gli Uffici, allora lui entrava in chiesa e pregava bagnandosi nelle lacrime.
Al monastero venivano dei soldati di vari eserciti. Controllavano anche la cella di Gojko. Sebbene, ovviamente, fosse esausto e malato, era considerato sospetto da tutti. Quando, però, venivano a sapere che soffriva di tubercolosi, lasciavano la stanza chiudendo velocemente la porta.
Gojko non si perse di morale. Con la preghiera combatté la malattia. E poi, miracolosamente, cominciarono a mostrarsi i segni della guarigione. Questo gli ha dato la possibilità, mentre era solo nella sua cella, di considerare il futuro. In precedenza progettava una vita da prete sposato. Ma ora, dopo la fine della malattia, si rese conto che il suo progetto non poteva più essere realizzato. Osservando da vicino la vita dei monaci voleva anche lui essere tonsurato monaco.
Come segno di gratitudine verso il Sacro Monastero in cui era guarito, il monaco Gojko, già novizio, con un coltello scolpì sul legno la Croce e la crocifissione del Signore. Sul retro della Croce incise le parole (in slavonico): “Per il Monastero Vujan, per la mia guarigione lascio in segno di offerta, il servo di Dio Gojko”. Questa Croce oggi è conservata tra i più comuni cimeli del tesoro del monastero. Dopo gli anni della sua vita trascorsi come novizio presso il Sacro Monastero Vujan fu tonsurato monaco nel Sacro Monastero dell’Annunciazione nel 1948. Gli fu dato il nome di Paolo. Questo nome cercherà in ogni modo di onorare seguendo la via apostolica e le parole di colui dal quale lo ha ricevuto, l’apostolo Paolo.
Dal 1949 fino al 1955, nel tempo della grande lotta del potere comunista contro la Chiesa Ortodossa Serba già profondamente provata, Pavle appartenne alla fraternità del monastero di Rača.
“Nel tempo trascorso a Rača”, noterà più tardi in un suo testo autobiografico, “al Monastero non eravamo separati dal popolo, e così venivamo a sapere ciò che stava accadendo nel mondo e in che tempi vivevamo. Avevamo caricato le nostre preoccupazioni interiori e le nostre ansie sul carro delle nostre attività quotidiane, che non riuscivamo a sbrigare fino alla sera. Fu un tempo in cui prendevamo solo un pezzo di pane mentre per tutto il giorno lavoravamo nei campi, ci prendevamo cura degli animali del monastero e trasportavamo legna dalla foresta. Per un periodo di tempo lavorai al mulino ad acqua del monastero. Di sera dopo il lavoro eravamo impazienti di radunarci, non per riposare ma per pregare. Non vi è maggiore beatitudine che nel momento in cui l’uomo stanco prega in umiltà. Allora l’uomo intero si trasforma sostanzialmente in una condizione di preghiera: per la salvezza del popolo e di noi individui. Avevamo in mente che dobbiamo servire Dio, chiunque stesse governando e questo per noi era il significato più profondo della vita monastica”.
Nel frattempo lo ierodiacono Pavle nell’anno 1950-51 era stato docente presso la Scuola Sacerdotale a Prizren (che gli Albanesi hanno distrutto e bruciato nel marzo del 2004 in Kosovo, sotto gli occhi dei soldati della NATO…). Fu tonsurato ieromonaco nel 1954; nello stesso anno ricevette la nomina di protosincello. Nel 1957 divenne archimandrita. Seguì studi post-laurea presso la Facoltà teologica dell’Università di Atene nel corso degli anni 1955-1957. Successivamente venne eletto al trono episcopale di Raška e Prizren (Kosovo).
In Kosovo e Metohija nel territorio di Raška, su questo trono episcopale servirà per circa 34 anni. A quel tempo quando accadevano vari atti contro la Chiesa, col consenso dello Stato, si impose di resistere contro vari attacchi: con la preghiera pura, attraverso la sua saggia guida e con gli inviti palesi. Metteva al corrente continuamente il Santo Sinodo della Chiesa Serba e lo Stato riguardo agli attacchi, che avevano luogo contro i Serbi e contro la proprietà della Chiesa Serba in Kosovo e Metohija. 
“Ricevevo degli avvisi di stare attento ai miei frequenti rapporti al Sinodo, perché essi arrivavano nelle mani del potere dello Stato, mentre era sempre più chiaro che da qualche parte era stato già deciso che il Kosovo non doveva più essere Serbo”, noterà il Patriarca più tardi.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
I risultati dell’illegale occupazione del Kosovo da parte della NATO: chiese ed icone profanate e distrutte, secoli di memorie cristiane cancellate sotto gli occhi dei soldati europei, mentre sui ruderi delle chiese cristiane sorgono oggi le moschee finanziate dai petroldollari dell’Arabia Saudita.

La chiesa Cattedrale di Prizren dopo essere stata incendiata dai terroristi Albanesi
 
Lui stesso, personalmente, diventava spesso vittima; strada facendo era oggetto di oltraggi, insulti, torture. Sugli autobus era perseguitato violentemente. Ad una fermata dell’autobus a Prizren un Albanese lo schiaffeggiò con rabbia, senza motivo. A causa della brutalità dello schiaffo, il kalimafchion e il vescovo stesso andarono in direzioni opposte! Il vescovo si alzò, raccolse il kalimafchion, lo mise in testa, guardò con pietà l’assalitore e proseguì per la sua strada. Da Prizren fino a Belgrado viaggiò in diverse occasioni su vagoni con i finestrini senza vetri, dove la neve copriva i posti a sedere. Soffrì tutto, senza mormorare, prendendosi cura molto di più della sua provincia e degli altri che di sé stesso. “Questo vescovo e teologo molto colto”, ha osservato il famoso Storico dell’Arte Z. S., “lo vedevamo sull’impalcatura, da dove rischiava di rompersi il collo, a riparare i tetti dei templi o gli alloggi dei monaci, mentre nella sede della sua provincia non c’era il palazzo arcivescovile, ma una cella, senza telefono né segreteria personale, c’era solo la macchina da scrivere in un ufficio dove lui stesso redigeva le relazioni, i rapporti e le lettere, scrivendo sulla carta più economica del mercato! Ovunque c’erano molte risposte pastorali alle domande dei credenti: dalle questioni più semplici e pratiche alle più complesse e spirituali…”. Prestava una cura particolare alla Scuola Sacerdotale di Prizren, dove a volte teneva delle conferenze. Andava spesso lì dagli studenti interessati a chi e in che cosa li avrebbe aiutati. La notte andava a coprire gli studenti mentre dormivano!
Molti furono sorpresi dal fatto che Pavle era stato eletto al trono Patriarcale di Serbia. Fino ad allora non era stato presentato dai media e al pubblico (ma anche tra gli altri vescovi) non era il candidato principale per la sede del primo gerarca. 
Alla sessione del Santo Sinodo della Chiesa Serba per l’elezione del Patriarca (1.12.1990), in conformità con la costituzione della Chiesa di Serbia, gli elettori vescovi dovevano “tracciare” una croce su tre candidati i quali dovevano raccogliere il minimo di 13 voti. Al primo turno furono eletti solo due.
Il terzo, il vescovo Pavle, a causa dei voti insufficienti (11) rimase fuori e solo al 9° turno fu eletto con 20 voti e così entrò nella triade dei candidati.
Seguì la fase finale delle elezioni per voto, vale a dire nel modo Apostolico: l’igumeno del monastero di Tronosa dopo aver pregato prese dal libro dell’Evangelo tre buste sigillate contenenti i nomi dei tre candidati, le mescolò e ne prese una, che consegnò al presidente, l’archierea; egli, davanti alle Porte Regali, mostrò la busta sigillata, la aprì e annunciò: “L’Arcivescovo di Peć, il Metropolita di Belgrado e Karlovci e Patriarca di Serbia è il Vescovo di Prizren e Raška, Pavle!”.
Commentando il fatto, dopo 15 anni dalla sua elezione, il vescovo di Montenegro sig. Amfilohije ha scritto: “L’unico uomo che in realtà non voleva diventare patriarca, era il patriarca Pavle!”.
Dopo la sua elezione il patriarca Pavle rivolgendosi al Santo Sinodo dirà: “Le mie forze sono piccole e voi lo sapete. Io non pongo speranze in esse. Spero nel vostro aiuto e, ripeto, nell’aiuto di Dio, con il quale Egli finora mi ha sostenuto. Che sia per la gloria di Dio e per il bene della sua Chiesa e del nostro popolo provato in questi tempi difficili”.
 
 
Il giorno dopo l’insediamento nella cattedrale annunciò il programma breviloquente: “Salito al trono di san Saba come 44° Patriarca della Serbia non ho proprio nessun programma per l’opera patriarcale. Il mio programma è l’Evangelo di Cristo, questa Buona Notizia riguardo Dio che è con noi e del Suo Regno che è in noi – finché lo accettiamo con fede e amore”.
Assunse le funzioni patriarcali in uno dei più difficili periodi della storia serba: nel tempo delle guerre, delle pressioni e dei ricatti dei potenti del mondo, delle turbolenze interne e della povertà, nel tempo della contestazione del sacro.
 
 
Si opponeva al male da dovunque esso arrivasse invitando i suoi compatrioti ma anche gli stranieri a rinsavire. Affermava che: “Sotto il sole vi è abbondanza di spazio per tutti” e che “Tutti gli uomini hanno bisogno ugualmente della pace come noi, anche i nostri nemici”. Spesso riferiva dei passi da una poesia popolare serba, dove si dice: “È meglio perdere la nostra testa, che perdere la nostra anima”. Con queste parole insegnava che “abbiamo l’obbligo di comportarci da umani, anche nella situazione più difficile e non vi è alcun interesse nazionale né personale che potrebbe essere una scusa per non comportarci da umani”.
Queste parole costantemente ripetute, “dobbiamo essere umani” hanno riempito le orecchie anche dei bambini piccoli che in modo amorevole lo chiamavano “Pavle-Pavle-essere-umani”. Tutti hanno sentito queste parole, ma molti non hanno voluto obbedire. Tra questi c’erano anche quelli che nella sua patria (l’odierna Croazia), durante la guerra del ‘90, demolirono una chiesa ortodossa solo perché in essa era stato battezzato il Patriarca dei Serbi! Questo è accaduto sebbene non si combattesse nel raggio di 40 km dalla chiesa.
 
 
Il Patriarca Pavle è stato instancabile nello svolgimento dei suoi doveri pastorali. Così nell’autunno passato, nei suoi 91 anni, decise di visitare l’Australia, tra l’altro, per benedire un’estensione di 87 ettari di terreno, acquistato dalla Chiesa Serba, per costruirvi il collegio “San Saba”, dove insieme ai ragazzini Serbi potranno frequentare i corsi anche Russi, Greci, ecc.
Alcuni vescovi cercarono di impedirglielo, dicendo che la durata del viaggio andava al di là della sua resistenza. Il Patriarca li contraddiceva: “Per me non è difficile, ma come ce la faranno loro (la sinodia, la scorta)?”.
Andò in Australia e cercò di riempire le due settimane del suo soggiorno di opere missionarie. Quando tornò a Belgrado si recò direttamente alla veglia, anche se aveva viaggiato con l’aereo per 22 ore; la mattina se ne partì subito per Mosca.
Il Patriarca di Russia Alessio II sapendo tutto questo, gli chiese scherzosamente: “Santità, ha fatto un lunghissimo viaggio, ad è arrivato fino a qui, ha per caso visitato anche la Nuova Zelanda, visto che abbiamo un popolo ortodosso anche lì?...”.
“Santità, questa volta non l’ho fatto ma naturalmente lo farò nei prossimi 90 anni!”. 
Il Patriarca Pavle, nonostante i suoi numerosi obblighi, trascorse una vita fondamentalmente monastica. Ogni mattina celebrava e si comunicava nella cappella del Patriarcato e ogni notte era presente alla cattedrale per l’ufficio del vespro.
Non partiva per nessun motivo prima di celebrare la divina Liturgia.
Nel corso del cammino della sua vita, cominciando dal luogo della sua nascita e dai posti dove è stato istruito fino alle località dove svolgeva il suo dovere, divenne il simbolo unificante della Chiesa Serba. Inoltre, nella vita e nel suo ruolo nel mondo ortodosso, è stato anche uno dei simboli dell’unità dell’Ecumene Ortodosso.
Accadde una volta che, durante gli anni delle recenti guerre, vide dal suo appartamento nei pressi del palazzo patriarcale un gruppo di profughi sulla strada bagnarsi sotto la pioggia; scese e aprì la grande porta del Patriarcato, di legno di quercia, e li invitò ad entrare, perché si mettessero al riparo dalla pioggia. Quando i suoi collaboratori gli fecero notare che avrebbe potuto esserci la possibilità che entrasse anche qualcuno con intenzioni non buone (infatti, si viveva in tempi di guerra), rispose loro: “Come potrei dormire lì al caldo mentre questi ragazzi si bagnano qui fuori!”.
Anche le seguenti shockanti parole sono proprio sue: “Se avessi la forza per raggiungerli, il Dio risorto è testimone, mi sarei messo di fronte alle chiese, agli ospedali e di fronte ai posti di lusso per i ricevimenti e le sfilate di moda e avrei chiesto personalmente l’elemosina per i nostri fratelli e i nostri figli che si trovano nella prova. Ognuno di noi dovrebbe attivamente far vergognare tutte queste ostentate avidità, che esistono in molti luoghi pubblici e non dobbiamo semplicemente scandalizzarci e disperarci perché la spudoratezza ha prevalso intorno a noi”.
 
 
Il Patriarca si prendeva da solo cura di sé stesso per tutte le sue esigenze: preparava da mangiare da solo, visto che il suo cibo era quasi sempre di digiuno, in tutto l’anno – di solito mangiava verdure lessate, l’olio d’oliva lo aggiungeva soltanto nelle feste, mangiava raramente un po’ di pesce e mai la carne. La sua bevanda preferita era il succo di pomodoro mentre il suo cibo di prima scelta erano le ortiche. Quando non digiuna gli piacevano i latticini. Cuciva lui stesso i suoi indumenti, li riparava e li lavava. Ugualmente riparava e manteneva anche le sue scarpe.
Oltre a questo badava a ciò che succedeva intorno a lui. Nel Patriarcato controllava e si prendeva cura che tutto funzionasse nel miglior modo possibile. Quando terminava l’orario di lavoro e tutti se ne erano andati, il Patriarca andava a spegnere le luci dimenticate accese dai lavoratori.
Spesso riparava lui stesso i guasti idraulici, le finestre, le serrature…
Si prendeva cura dovunque ci fosse bisogno, delle cose terrene, mentre sottolineava che la nostra vera patria è quella “in alto” e per questo rammentava che dovremmo stare attenti: “Quando un giorno ci presenteremo di fronte ai nostri antenati, auguriamoci che non proveremo vergogna per loro, e che neanche loro proveranno vergogna per noi”.
Si dice che l’FBI abbia raramente sbagliato: È stato veramente un santo che ha camminato sulla terra!

Poco prima di morire ci ha consegnato il suo testamento spirituale:
“Dobbiamo pregare per coloro che sono nel bene, ma anche per chi riteniamo in cattiva fede, senza perdere la speranza che ciascuno si converta alla salvezza”


Dalle pubblicazioni sulla rivista “NIN” di G. G., di A. Di. ecc.; traduzione dal serbo: M. B.
Bibliografia, ORTHODOXOS TYPOS.
Traduzione a cura di © Tradizione Cristiana