Intervista di Tudor Petcu
all’igumeno Ambrogio sulla crisi ucraina
Ho spesso sentito dire che il
Patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli rappresentano due mondi
divergenti dell’Ortodossia e per questo vorrei domandarle se è così e
come dovremmo percepire le relazioni storiche tra di loro.
Ci sono diversi studi sulle tendenze
divergenti dei due patriarcati, che ne analizzano piuttosto le alleanze
(allineamenti a programmi statali), le relazioni ecumeniche e/o le
tendenze politiche (conservatrici o riformiste), e mentre tutte queste
linee di analisi possono portare a risultati interessanti, credo che
all’inizio sia opportuno considerare i loro dati storici e sociologici
di base. Da una parte ci troviamo di fronte alla più grande Chiesa
locale del mondo, che sta riprendendosi lentamente dopo avere subito
persecuzioni che forse non hanno uguali nella storia cristiana (neppure
in quelle dei primi secoli), e che ha senza dubbio una certa potenza, ma
che è paga di quello che ha; dall’altra parte troviamo il resto ridotto
al lumicino della Chiesa di un impero ormai estinto da quasi mezzo
millennio, che ancora cerca disperatamente di mantenerne le prerogative,
facendo leva sui sensi di appartenenza all’antico impero per quelli che
vi si identificano (i greci, ancorché critici delle politiche del
Patriarcato ecumenico, non avranno mai la forza di opporvisi
radicalmente, e questo al Fanar lo sanno benissimo). Mosca, invece, non
solo non mostra molta sudditanza verso l’antico impero, ma ha pure la
sfacciataggine di identificarsi in un nuovo impero (la Terza
Roma), che benché maltrattato e indebolito, ha lasciato dei resti ancora
piuttosto potenti. Al cuore della crisi ucraina contemporanea non ci
sono perciò aspetti divergenti dei due patriarcati (entrambi sono
abbastanza cosmopoliti da convivere con aspetti divergenti al loro
stesso interno), ma piuttosto quale delle due Chiese vuole avere ed
esercitare una supremazia (e quindi, il problema teologico dell’esercizio di un primato all’interno della Chiesa ortodossa).
Cosa rappresenta la Chiesa
ucraina nel mondo delle Chiese ortodosse e perché è così importante la
sua appartenenza al Patriarcato di Mosca?
Mi permetta di evitare tutta la retorica
della “città madre della civiltà ortodossa russa” e di sorvolare appena
sullo stesso concetto sovranazionale di Rus’ (il nome ufficiale Русская
Православная Церковь o “Chiesa ortodossa russa” significa letteralmente
“Chiesa ortodossa della Rus’ ”, e non “Chiesa ortodossa della Russia”).
Vorrei invece usare come metafora una barzelletta che la dice lunga sui
legami tra i due popoli:
Un ucraino supplica Dio:
- Signore, perché hai dato tutto a
quei maledetti russi, e a noi niente? Hanno petrolio e gas, una storia
eroica, e poeti di fama mondiale, scrittori, compositori, scienziati...
- Dio: Ho dato tutte queste cose anche a voi...
- Ucraino: E dove, quando?
- Dio: Quando eravate russi...
La cosa tragica è che ogni separazione
forzata dell’Ucraina dal resto della Rus’ (anche quando tenta di
appropriarsi dei nomi dei santi Vladimir e Olga, del loro sigillo del
tridente e di un’inesistente storia di Ortodossia autocefala) la priva
della quasi totalità della sua identità, riducendola a una landa di
frontiera (“U-kraina”: “Sul confine”) con poche tradizioni popolari e
ancor meno particolarità ecclesiali. Il vuoto va riempito letteralmente
con qualsiasi influenza esterna: polacca, lituana, svedese,
austro-ungarica, nazista, inglese, americana... il passo è breve per
giungere a deliri di controsenso, come accusare i russi di “influenza
mongola” e poi presentare come ragione principale contro il passaggio
della Crimea alla Russia... i diritti dei tatari di Crimea! La “lingua
ucraina” di oggi (che già non è più la “lingua ucraina” promossa in
funzione antirussa da austro-ungarici e tedeschi agli inizi del XX
secolo) è un’incredibile guazzabuglio di prestiti dal polacco, dal
tedesco, e se necessario perfino dall’inglese (!), assolutamente
incomprensibile al di fuori di una piccola regione, e che se adottata in
alternativa al russo, invece di dare all’Ucraina un’identità forte, la
marginalizzerà come una nazione sempre più irrilevante. Naturalmente,
anche in campo religioso, un’Ortodossia ucraina autocefala finirà per
dipendere da contesti presi a prestito da altri ambienti religiosi. E
mentre una nuova lingua, anche marginale e incomprensibile, può essere
adottata da chiunque la voglia adottare (al solo prezzo di emarginarsi e
di non farsi capire), una nuova religione che si nutre di elementi
estranei finirà prima o poi per assumerne anche elementi dogmatici, e
non sarà più espressione della stessa fede ortodossa.
Come spiega l’atteggiamento del Patriarcato di Costantinopoli che ha riconosciuto l’autocefalia della Chiesa Ucraina?
Mi considero capace di una certa ampiezza
di vedute, ma neanche io riesco a trovare un modo di riconciliare con
la logica e con il buon senso l’attuale corso del Patriarcato di
Costantinopoli, con i suoi strani comportamenti di incoerenza (“diamo
l’autocefalia agli ucraini – che non la vogliono – perché ci torna
comodo, anche se così danneggiamo i nostri fratelli russi” e “non diamo
l’autocefalia ai macedoni – che la vogliono – perché non ci torna
comodo, e per non danneggiare i nostri fratelli serbi”) e i suoi ancor
più strani comportamenti di coerenza (“sì all’autocefalia dell’Ucraina,
perché gli autocefalisti ci portano soldi”, e “no all’autocefalia
dell’America, perché i greco-americani ci portano soldi”). Tutto molto
comprensibile dal punto di vista dei giochi umani di potere (o di mera
sopravvivenza), ma allo stesso modo tutto molto (se mi si concede un
neologismo) “pateticumenico”.
Si può parlare di un nuovo scisma
nel mondo ortodosso date le divergenze tra il Patriarcato di
Costantinopoli e quello di Mosca riguardo la situazione della Chiesa
Ucraina?
Più che un nuovo scisma, se mi è permesso
un gioco di parole sul titolo del romanzo di Gabriel García Márquez,
definirei le vicende di questi giorni “Cronaca di uno scisma
annunciato”.
Cerco di spiegarmi con un poco di
divagazioni personali. La mia tonsura al monachesimo e la mia
ordinazione al diaconato hanno avuto luogo nel febbraio del 1996, pochi
giorni dopo che il Patriarcato di Mosca, in seguito a una crisi
ecclesiale in Estonia, aveva annunciato una rottura con il Patriarcato
di Costantinopoli che era esattamente la fotocopia (in scala più
piccola) di quella che vediamo oggi. Le dramatis personae sono
cambiate (solo il patriarca Bartolomeo è rimasto lo stesso), ma lo
schema è un parallelo pressoché perfetto: un governo di una repubblica
ex-sovietica desideroso di nascondere i propri insuccessi sotto la
foglia di fico della russofobia, una Chiesa locale dipendente da Mosca,
ma perfettamente integrata nella nazione (tanto da avere a capo un
cittadino “etnico” locale), un gruppetto di rabbiosi immigrati che
vivevano da decenni in Occidente crogiolandosi nelle memorie dei “bei
tempi passati” del nazismo, e un patriarcato di Costantinopoli pronto a
infilare il piede in ogni spiraglio di porta lasciato aperto, per amore o
per forza, da Mosca. La situazione di scisma dell’Estonia perdurò per
pochi mesi, e si concluse con un improbabile quanto anti-ortodosso
“condominio di proprietà” (impossibile trovare un’altra soluzione,
quando da una parte c’erano quasi tutte le proprietà delle chiese e
dall’altra quasi tutti i fedeli), dove Costantinopoli fu tanto
rispettosa della vantata “indipendenza estone” da mandare come proprio
plenipotenziario nel paese un greco di Francia nato nello Zaire, con
l’unica dote di… sapere il russo!
I negoziati sulla crisi estone lasciarono
capire in termini non equivoci che, se si fosse ripetuto un caso simile
(e tra le righe si leggeva dappertutto “UCRAINA”), i risultati
sarebbero stati simili, e anche più duri. Pertanto, chi oggi si
sconvolge o si dispera dimostra solo di non conoscere la storia (neppure
quella recente) della Chiesa ortodossa.
Per continuare con i ricordi personali,
poco dopo la crisi estone, incontrai a Bologna il compianto
archimandrita Marco (Davitti), che mi disse senza mezzi termini, com’era
abituato a fare: “Ricorda che il prossimo scisma sarà tra
Costantinopoli e Mosca... e quel giorno, io voglio essere con Mosca”. La
cosa interessante è che quando me lo diceva era un prete della ROCOR
(che ancora non era rientrata in comunione con Mosca), e la sua
ordinazione al sacerdozio aveva avuto luogo proprio sotto... gli ucraini
di Costantinopoli! Ho considerato fin da allora questi commenti come le
valutazioni di una persona MOLTO informata sui fatti, e... i fatti gli
hanno dato ragione.
Come dovrebbero procedere le
Chiese ortodosse autocefale per custodire l’unità di cui l’Ortodossia
avrebbe bisogno in questo contesto di rottura tra i due Patriarcati di
cui stiamo parlando?
Le pretese primaziali del Trono Ecumenico
in un senso che potrebbe essere definito “papismo ortodosso” sono ben
chiare, e il loro sviluppo prevedibile. La reazione delle altre Chiese
ortodosse potrebbe essere semplice come quella di una colomba, o astuta
come quella di un serpente. La pazienza dimostrata finora di fronte a
tutte le mosse arroganti è certamente segno di un’attitudine del primo
tipo, anche quando questa pazienza ha fatto sopportare innumerevoli
sofferenze interne. L’attitudine del secondo tipo potrebbe essere quella
di lasciar procedere il Patriarcato Ecumenico sempre di più sulla
strada delle sue pretese, e contenerne i danni fino al momento in cui il
primo trono si “auto-liquiderà” (per usare la recente espressione del
metropolita Ilarion di Volokolamsk) come istituzione di garanzia del
mondo ortodosso, e tutte le Chiese autocefale non si fideranno più di
tale trono, più di quanto si fidino di quello della Prima Roma. La
situazione attuale sembra già piuttosto vicina a un simile sviluppo.
Per illustrare la situazione in parole
più chiare, ecco quel che il mio amico Andrei Raevsky, in arte “Saker”
(un analista geopolitico di prim’ordine), scrive analizzando gli
sviluppi della crisi ucraina di questi giorni:
“a un livello più cinico, vorrei far
notare che il Patriarca di Costantinopoli ha aperto un vero vaso di
Pandora che ora ogni movimento separatista in un paese ortodosso sarà in
grado di usare per chiedere la propria “autocefalia”, che minaccerà
l’unità della maggior parte delle Chiese ortodosse. Se tutto ciò che
serve per diventare “autocefali” è innescare una sorta di insurrezione
nazionalista, allora immaginate quante “Chiese” richiederanno la stessa
autocefalia degli ucro-nazisti di oggi! Il fatto che l’etno-filetismo
sia un’eresia condannata chiaramente non fermerà nessuno di loro. Dopo
tutto, se è abbastanza buono per il Patriarca “Ecumenico”, è sicuramente
abbastanza buono per tutti i nazionalisti pseudo-ortodossi!”
Fonte: Saker blog italiano
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