venerdì 24 aprile 2015

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La teologia della libertà. Il cristianesimo e il potere temporale dall’editto di Milano ai giorni nostri

Lectio Magistralis del metropolita Hilarion di Volokolamsk, Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, in occasione dell’apertura dell’anno accademico presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale 17 ottobre 2014.

Eminenza Reverendissima Gran Cancelliere,
Eccellenze, chiarissimi professori, docenti e discenti di codesta Pontificia Facoltà Teologica,
è per me un grande onore tenere questa lezione all’inizio del vostro anno accademico. Prima di tutto vorrei augurare a tutti voi successo nel nuovo anno accademico, come pure augurare pace e prosperità al popolo italiano.
Nel mio intervento vorrei riferirmi ad eventi del lontano passato, ma anche ad avvenimenti del tutto recenti. Il discorso tratterà dell’epoca dell’editto di Milano e di fatti che ricordano quest’epoca, ma che avvengono nel nostro tempo, sotto i nostri occhi.
Lo scorso anno, è stato solennemente celebrato in tutto il mondo cristiano il millesettecentesimo anniversario della promulgazione dell’editto firmato a Milano nel 313 dagli imperatori della parte occidentale e orientale dell’impero romano, Costantino e Licinio. L’editto di Milano è, in sostanza, il primo documento statale ufficiale dell’impero romano grazie a cui la «Chiesa cattolica» riceve non soltanto il diritto di esistere, ma anche il riconoscimento da parte dello Stato e della società. Se fino ad allora i cristiani erano perseguitati e sterminati, se essi potevano esistere soltanto nelle catacombe e nella più profonda clandestinità, grazie all’editto di Milano per la prima volta i cristiani, al pari dei pagani, ricevettero il diritto di professare e predicare apertamente la propria fede, di costruire chiese, di aprire scuole e monasteri. Una grande conquista dell’epoca costantiniana fu il riconoscimento della Chiesa in qualità di partecipante a pieno titolo ai processi sociali, riconoscimento che le consentì non soltanto di organizzare liberamente la propria vita interna, ma anche di esercitare un’influenza sostanziale sulla vita dello Stato e della società.
Molti cristiani di quel tempo ricordavano ancora come i persecutori avessero estromesso la Chiesa dallo spazio sociale, l’avessero relegata ad un ghetto. Molti erano confessori della fede e i loro destini erano stati rovinati dalla violenza e dalle angherie subite. Gli appelli degli apologeti del II-III secolo agli uomini di Stato dell’impero romano, eloquenti, ma al tempo stesso colmi di dolore, restavano, per molti cristiani dell’inizio del IV secolo, la verità della loro vita personale.
Ci accostiamo alla percezione del mondo dei cristiani dell’epoca delle persecuzioni leggendo, ad esempio, l’Apologia di Tertulliano. Egli esclama: «Noi esistiamo da ieri e abbiamo riempito tutti i vostri luoghi: città, isole, fortezze, municipi, assemblee, gli stessi eserciti, tribunali, decurie, il palazzo, il senato e il foro. Vi abbiamo lasciato soltanto i vostri templi. Di quale guerra aperta saremmo capaci, a quale guerra saremmo pronti, anche se abbiamo meno forze, noi – che tanto volentieri acconsentiamo che ci uccidano –, se non ci fosse imposto dalla nostra dottrina di essere uccisi piuttosto che di uccidere gli altri? Potremmo batterci contro di voi anche senza armi, e senza rivolta, andandocene, scontenti di voi. Poiché se noi, raccogliendo tale enorme numero di persone, ce ne andassimo da voi, ritirandoci in qualche remoto angolo della terra, allora, naturalmente, la perdita di così tanti cittadini, chiunque essi siano, non soltanto costituirebbe una vergogna per il vostro dominio, ma sarebbe anche una punizione»[1].
Ai cristiani dell’epoca delle persecuzioni occorreva dimostrare alle autorità dell’impero la propria lealtà e la propria idoneità alla partecipazione a pieno titolo alla vita della società civile. Ma le autorità restavano sorde a queste dimostrazioni. E improvvisamente, quella stessa generazione di cristiani perseguitati e angariati diviene testimone del riconoscimento della Chiesa come parte integrante della società. In più, nel giro di alcuni anni dopo la pubblicazione dell’editto di Milano, il cristianesimo si sarebbe trasformato in una forza spirituale che in molte cose avrebbe determinato il corso della storia successiva dell’impero e di tutto il mondo.
Secondo gli esiti degli accordi di Milano, gli imperatori Costantino e Licinio affermano qualcosa di completamente nuovo, inaudito per i loro contemporanei. Essi dichiarano pubblicamente: «Dunque, lasciandoci guidare da sana e retta riflessione, proclamiamo la nostra seguente decisione: a nessuno è negato di scegliere liberamente e di conservare la fede cristiana e a ciascuno è data la libertà di convertirsi alla fede che, secondo lui, gli è congeniale, affinché la Divinità ci elargisca in tutte le occasioni il pronto aiuto e ogni bene… D’ora innanzi chiunque scelga liberamente e semplicemente la fede cristiana, può conservarla senza ostacolo di alcun genere… Ai cristiani è data una libertà assoluta… anche agli altri è data la libertà di professare la propria fede come desiderino, il che anche corrisponde al nostro tempo di pace: possa ciascuno liberamente, secondo il proprio desiderio, scegliere la propria fede»[2].
È importante notare che questo documento concedeva la libertà al cristianesimo non a discapito di altre religioni dell’impero romano; i seguaci dei diversi culti pagani mantenevano come in precedenza i propri diritti e la propria libertà. Tuttavia nell’editto di Milano, in sostanza, si riconosceva il fatto che la Chiesa non fosse una qualche setta marginale, disgregatrice dei tradizionali fondamenti sociali. Al contrario, gli autori del documento erano convinti che i cristiani fossero capaci di dirigere la benevolenza di Dio verso tutto il popolo. Il beneficio e l’utilità dei cristiani per la società: ecco su che cosa si fondava il nuovo editto, esprimendo la speranza che la «Divinità» elargisse alle autorità e al popolo dell’impero «il pronto aiuto e ogni bene in tutte le occasioni». Queste righe non soltanto equiparavano le libertà e i diritti dei cristiani a quelli dei pagani, ma aprivano davanti a essi la possibilità di imporsi all’attenzione come una forza nuova, capace di influire positivamente sulla società, colmare di senso divino la sua esistenza.
Grazie all’editto di Milano i cristiani si trovarono dinanzi alla necessità di pensare non soltanto alla propria salvezza e al bene della propria piccola comunità. La nuova posizione nella società li costrinse a riflettere sulla qualità di questa società, sul proprio ruolo in essa, il ruolo di cittadini attivi, uomini che pregano per la patria, persone di buona volontà.
Nelle nuove condizioni i cristiani – vescovi, teologi, monaci e la moltitudine dei laici – non si smarrirono. Nell’impero cominciò una fioritura impetuosa della cultura e del pensiero cristiani, sorse la storiosofia cristiana, si plasmò un nuovo rapporto della Chiesa verso il mondo circostante. L’epoca a cui pose inizio la pubblicazione dell’editto entrò nella storia come il secolo d’oro del cristianesimo, mentre per l’impero quest’epoca divenne un tempo di cambiamento dei paradigmi ideali. La teologia della Chiesa si pose alla base di una nuova comprensione della responsabilità personale, sociale e statale, influì sul rinnovamento di tutte le istituzioni della società, diede un nuovo fondamento valoriale ai rapporti familiari, all’atteggiamento verso la donna, comportò la progressiva eliminazione nell’impero dell’istituto della schiavitù. Il nuovo impero unì in sé la cultura romana dei rapporti giuridici, l’arte greca del fine pensiero e la devozione di Gerusalemme. E il cristianesimo divenne in esso la nuova religione, il fondamento di una nuova concezione del mondo, capace di unire tutta la molteplicità di razze e popoli dell’impero. La Chiesa sfruttò appieno l’occasione storica che aveva ricevuto.
Il documento di Milano ricevette giustamente dalla scienza [storica] il nome di «editto di tolleranza». Il tal senso l’editto di Milano è supportato dallo stesso spirito del decreto che lo aveva preceduto, quello dell’imperatore Galerio del 311. Il decreto precedente permetteva il servizio liturgico cristiano, «se esso non turba[va] l’ordine sociale», ma alla condizione che i cristiani pregassero per l’imperatore e lo Stato romano, promettendo a quest’ultimo «l’aiuto supplementare» del loro Dio, il Quale, si intende, doveva proteggere Roma assieme alle altre divinità tradizionali[3].
E cionondimeno, proprio a partire dall’editto di Milano, sia per la Chiesa sia per lo Stato romano, si aprì una nuova epoca, che alla fine condusse alla pubblicazione, nel 380, del decreto dell’imperatore Teodosio I, che proclamò il cristianesimo religione di Stato e di fatto pose fuori legge la tradizionale religione pagana.
Dunque, è naturale supporre che l’editto di Galerio, l’editto di Milano, e dopo di essi il decreto di Teodosio I, segnino la progressiva apertura della logica politica dello Stato romano. In relazione a ciò, è ragionevole chiedersi: era pronta la Chiesa stessa all’effettivo ingresso nella struttura dello Stato romano, non solamente sostituendo le istituzioni pagane preesistenti, ma pure creandone di sostanzialmente nuove? A questa domanda, basandoci sulle fonti scritte attendibili dell’epoca, non troviamo una risposta univoca. Attorno a Costantino si formò quasi subito una cerchia di vescovi di corte, in cui entrarono Eusebio di Cesarea ed Eusebio di Nicomedia che battezzò l’imperatore in punto di morte. Il primo di essi è perfino ritenuto da alcuni storici della Chiesa responsabile «dell’adozione da parte dei cristiani del pensiero politico ellenistico»[4].
Tuttavia è poco probabile che tale approccio potesse ritenersi usuale per la Chiesa di quel tempo. I cristiani, sebbene pregassero «per le autorità e l’esercito» dell’impero romano, si sentivano tuttavia cittadini della Patria del Cielo, ricordando il precetto dell’apostolo Paolo: «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura » (Eb 13,14). Per di più, nel corso di due secoli essi erano vissuti in uno Stato che li aveva perseguitati, in cui la loro fede era una religio illicita – «religione non autorizzata». Una delle accuse che continuamente risuonavano nei confronti dei cristiani era il rimprovero di apoliticità e di inutilità sociale. Ciò corrisponde in parte alla realtà. «Niente ci è tanto estraneo quanto gli affari pubblici»[5], – scriveva Tertulliano. Origene affermava che in qualunque città i cristiani vivessero, essi avevano «un altro regime di sudditanza»[6]. Come nota l’arciprete Georgij Florovskij, «in questo senso i cristiani si trovavano “fuori della società”, erano esuli e reietti volontari, persone fuori dell’ordine sociale di questo mondo»[7].
Inoltre, tra l’impero e la Chiesa esisteva un antagonismo di genere particolare, che non si può considerare un semplice conflitto dovuto al mancato riconoscimento reciproco. «Infatti la Chiesa cristiana è più di una “chiesa” soltanto…. I cristiani sono anche un popolo, “un popolo particolare”: il Popolo di Dio, tertium genus (una terza comunità), né elleni, né giudei. La Chiesa non era soltanto una “riunione di persone” o un’associazione volontaria, che si occupava di sole faccende religiose. Essa si proclamava e realmente era una società particolare indipendente, uno Stato separato. Nello stesso tempo, anche l’impero romano si proclamava e realmente era qualcosa di più grande che semplicemente uno Stato»[8]. Il regime sociale romano pretendeva la piena sottomissione dei propri cittadini in tutte le dimensioni della loro vita, attribuendosi un’origine divina. Ciò si esprimeva nella maniera più chiara nel culto del «genio dell’imperatore», di un particolare genere di divinità, che accompagnava cesare. Il rifiuto di venerare questa divinità era punito con la pena di morte come delitto contro lo Stato, poiché la religione pagana romana era una parte inalienabile dell’assetto politico.
Ed ecco che questo impero, antagonista e avversario del giovane cristianesimo, gli tende la mano, garantendogli la libertà di culto, i diritti di proprietà, la difesa e protezione della sua legge. E molto rapidamente la Chiesa si integrò nella vita dell’impero, prese su di sé la cura delle vedove, degli orfani, delle ragazze, dei mutilati e degli infermi, cominciò cioè a partecipare a quegli affari pubblici che sembravano a Tertulliano tanto estranei ad essa per natura. Il clero ricevette il diritto, riconosciuto dallo Stato, di intercedere presso di esso a difesa di quanti fossero condannati ingiustamente. Iniziò l’influenza della Chiesa sulla legislazione, che si espresse nella sua conseguente, anche se parziale, umanizzazione. Indubbio è l’influsso della fede cristiana sul cambiamento di atteggiamento della società verso l’istituto della famiglia e del matrimonio, sulla graduale socializzazione della politica statale, che divenne più attenta alle necessità del popolo.
L’epoca costantiniana, seguita alla pubblicazione dell’editto di Milano, non soltanto inaugurò una nuova pagina nella vita dell’impero romano: essa predeterminò il paradigma dello sviluppo delle relazioni tra Stato e Chiesa nei paesi che sorsero più tardi sulle sue spoglie, o sotto la sua influenza culturale. Malgrado l’opinione comunemente diffusa, il cristianesimo non divenne semplicemente il sostituto del paganesimo ormai deteriorato nell’impero romano; esso entrò nella sua vita e nella sua struttura come un principio sostanzialmente nuovo. Esso non si sottopose al diktat del potere laico, influenzò il potere stesso, talvolta scontrandosi con esso in conflitti di forza impari.
In altre parole, la Chiesa, entrando a far parte della struttura del potere statale, non si fuse con esso. Al contrario, la Chiesa, conservando l’indipendenza, come prima, come nell’epoca pre-costantiniana, concependo se stessa come Città di Dio, secondo l’espressione di sant’Agostino, cominciò, passo dopo passo, a esercitare un influsso benefico sullo Stato, nello spirito del Vangelo di Cristo. E sebbene questa influenza positiva non sia stata subito recepita, nel corso dei secoli crebbe costantemente.
Il significato storico dell’editto di Milano risiede nel fatto che esso costituì un punto di svolta nella storia dell’impero romano. Così, secondo le parole di padre Ioann Meyendorf, «sorse una nuova società, che aveva adottato il cristianesimo come propria norma religiosa (e pertanto anche morale, culturale e politica»[9]. Questa società sarebbe durata in Europa sino all’inizio dell’epoca moderna, quando in molti paesi si decise di separare la Chiesa dallo Stato.
Da questi avvenimenti lontani 1700 anni, vorrei adesso rivolgermi a fatti del passato recente e raccontarvi di come il giubileo dell’editto di Milano abbia inciso sulla Chiesa ortodossa russa che io rappresento e che lo scorso anno ha festeggiato un altro evento significativo, i 1025 anni del Battesimo della Rus’. La coincidenza delle due ricorrenze mi ha fatto riflettere sul cammino storico della Chiesa, meditare sull’evento antico che diede inizio a una nuova civiltà cristiana, e nello stesso tempo valutare anche la nostra storia recente.
Ciò che abbiamo vissuto nell’ultimo quarto di secolo, e che continuiamo a vivere oggi, può essere chiamato con sicurezza «secondo battesimo della Rus’». Infatti, com’è noto, la Rus’ fu battezzata nel 988 dal santo principe Vladimir nelle acque del Dnepr. Da quel momento iniziò il cammino salvifico della fede cristiana (nella sua variante bizantina e ortodossa) nelle città e nei villaggi della Santa Rus’. La Santa Rus’ è quello spazio storico che unisce le attuali Russia, Ucraina e Bielorussia. I tre popoli slavi, oggi divisi da confini statali, un tempo costituivano un unico popolo, e possiedono una storia comune, che è durata per oltre mille anni. La Santa Rus’ esiste ancora oggi nella forma di quello spazio spirituale unito dalla Chiesa ortodossa russa, che comprende in sé sia l’Ucraina, sia la Russia, sia la Bielorussia, sia un’intera serie di altri paesi.
Nella storia ultramillenaria dello Stato russo i rapporti tra Chiesa e potere temporale si sono sviluppati in maniera diversa. Nel periodo dal 988 all’autocefalia della Chiesa russa nel 1488 lo Stato cooperava alla diffusione della fede ortodossa e non si ingeriva nelle faccende interne della Chiesa. Nel periodo seguente, il cosiddetto periodo moscovita (1448-1589), il potere principesco non di rado rompeva l’equilibrio di rapporti che si era venuto a creare e il principio di non ingerenza reciproca, sostituendo i capi della Chiesa sgraditi con altri più leali.
Nel 1589 il Concilio di Mosca, sotto la presidenza del patriarca di Costantinopoli Geremia II, designò il primo patriarca russo, Iov. Nel primo periodo patriarcale il modello di rapporti tra Chiesa e potere civile fu la riproduzione dei rapporti tra Stato e Chiesa che si erano creati nell’impero bizantino, la cosiddetta sinfonia tra il potere ecclesiastico e quello statale. L’istituzione del patriarcato fu la logica prosecuzione dello sviluppo storico del cristianesimo orientale: i patriarcati ortodossi d’Oriente, che si trovavano sotto il potere dei musulmani, nel XVI secolo cercavano sostegno e difesa presso la Chiesa russa e i sovrani russi. L’elezione del patriarca conferì uno status particolare non soltanto alla Chiesa, ma anche al supremo potere dello Stato, che prese definitivamente coscienza di sé come erede dell’autorità del basileus bizantino.
L’imperatore Pietro il Grande abolì il patriarcato e diede inizio al cosiddetto periodo sinodale della storia della Chiesa ortodossa russa. A partire dall’abolizione del patriarcato e dalla creazione nel 1721 del Santissimo sinodo governante – di fatto un ministero [inserito] nella struttura degli organi di amministrazione statale, con a capo un laico, l’ober-prokuror – iniziò il periodo della secolarizzazione e della sottomissione della Chiesa allo Stato.
Il 1917 fu un anno cruciale, sia per la Chiesa russa, sia anche per tutto l’impero russo, che segnò l’inizio del caos e dell’orrore della guerra civile, una guerra di tutti contro tutti. In Russia si compirono allora pienamente le parole di Cristo: «Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato» (Mt 10, 21-22).
Il Concilio della Chiesa Russa del 1917-1918, svoltosi sullo sfondo del crollo di tutto l’assetto statale e sociale, ristabilì nella Chiesa il patriarcato un tempo soppresso. Il potere sovietico pubblica nel 1918 il «Decreto sulla libertà di coscienza e le associazioni ecclesiastiche e religiose», che afferma il principio della separazione della Chiesa dallo Stato e dalla scuola. Le organizzazioni religiose sono private dello status di personalità giuridica, non hanno il diritto di possedere proprietà, di raccogliere offerte. La prima Costituzione sovietica del 1918 pone il clero e i monaci tra gli elementi non lavoratori, privati dei diritti elettorali. I figli dei preti sono privati del diritto di accesso agli istituti di livello universitario. Il potere, nella persona di Lenin, e in seguito di Stalin che ne prese il posto, dà avvio a repressioni di dimensioni senza precedenti del proprio popolo, di cui furono vittime milioni di persone. La Chiesa è sottoposta a una devastazione quasi totale: vescovi e preti sono fucilati senza processo e senza istruttoria, le chiese sono fatte saltare, le scuole teologiche e i monasteri sono chiusi.
Il decreto «Sulla separazione della chiesa dallo stato e della scuola dalla chiesa» e quello «Sulle associazioni religiose» del 1929 posero la Chiesa ortodossa russa fuori legge. Le persecuzioni contro il clero e i credenti ora si attenuavano, ora divampavano con nuova forza, sia nel periodo prebellico, sia nel periodo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per la quantità dei martiri che soffrirono per la fede la Chiesa russa sorpassò più e più volte la schiera dei martiri cristiani che erano andati incontro alla morte nei primi secoli di persecuzione da parte dell’impero romano pagano.
I processi politici alla fine del XX secolo in Urss condussero al tracollo dello Stato sovietico. Tuttavia, già prima del momento in cui, nel dicembre del 1991, cessò di esistere l’Unione Sovietica, era iniziata la rinascita della vita religiosa in tutto il suo territorio. Ciò accadde, come sembrava, in maniera assolutamente inaspettata, nel 1988. Proprio in quell’anno, nel contesto dei festeggiamenti per il millenario del Battesimo della Rus’, concepiti inizialmente come una celebrazione esclusivamente ecclesiastica, nella coscienza popolare si destò ciò che si usa chiamare memoria genetica, identità nazionale o religiosa. In tutta l’Unione Sovietica migliaia e milioni di persone espressero apertamente la propria posizione, prendendo parte alle solennità, riempiendo le chiese e le piazze durante gli uffici liturgici giubilari. Alle autorità non restava che comprendere e riconoscere che la Chiesa non era un pezzo da museo o una fiera in gabbia, ma la forza spirituale di un popolo formato da milioni di persone, capace di farlo rinascere e rinnovare.
Da allora, su tutto lo spazio dell’ex Unione Sovietica, iniziò una rinascita della Chiesa di dimensioni senza precedenti. All’inizio degli anni Novanta la quantità di coloro che desideravano ricevere il battesimo era tale che un comune prete di una comune parrocchia cittadina o rurale poteva arrivare a battezzare in un solo giorno alcune centinaia di persone. Ovunque si cominciò a ricostruire e ad aprire chiese. Nel corso degli ultimi ventisei anni nella Chiesa russa sono state risollevate dalle rovine o costruite ex novo oltre 26.000 chiese: ciò significa che abbiamo aperto e continuiamo ad aprire mille chiese l’anno o tre chiese al giorno. Sono stati aperti oltre ottocento monasteri, che si sono riempiti di giovani monaci e monache. Nelle grandi città sono comparsi gli istituti di istruzione teologica, superiori o medi; facoltà teologiche hanno cominciato a essere aperte nelle università laiche. La Chiesa si è riappropriata di quei settori di attività che all’epoca delle persecuzioni erano di fatto proibite: attività editoriale, sociale, caritativa.
E tutto ciò è avvenuto in quella stessa epoca che in Occidente molti chiamano post-cristiana. Mi è capitato più di una volta di sentir parlare i miei colleghi occidentali della decadenza della fede cristiana, della diminuzione del numero dei credenti, del calo delle vocazioni sacerdotali e monastiche, della chiusura di chiese e monasteri. Per convincersi che non viviamo affatto in un’epoca post-cristiana, è sufficiente visitare uno dei paesi ortodossi dove continua questa rinascita di largo respiro della vita religiosa, ad esempio Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia, Romania, Moldavia. Andate e guardate come il popolo credente vive in questi paesi, visitate le chiese e i monasteri ortodossi, e vedrete l’ardente devozione della gente, la fede forte e salda che nessuna persecuzione ha spezzato.
A mio vedere, la nostra epoca, epoca di rinascita della Chiesa, possiede in sé qualcosa di profondamente simile all’epoca che seguì la promulgazione dell’editto di Milano. Da legame tra i due tempi funge il concetto di libertà. Il principio della libertà di coscienza, proclamato nell’editto di Milano, divenne la base del nuovo rapporto del potere verso i sudditi. L’editto di Milano ha anticipato di sedici secoli ciò che è divenuto pienamente possibile soltanto nel Novecento, dopo secoli di guerre e discriminazione. In un’intera serie di documenti internazionali, posti alla base del diritto mondiale contemporaneo (come, ad esempio, la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», la «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali») la libertà di professare la propria fede e di vivere conformemente a essa – l’idea basilare dell’editto – è postulata come una delle libertà principali della persona umana.
Qualcosa di simile a ciò che avvenne nell’impero romano nel 313 si compì ventisei anni fa sull’estensione di quella che era allora l’Unione Sovietica. Fummo testimoni del fatto che nel nostro paese la Chiesa, dopo molte prove e vittime, improvvisamente uscì dal ghetto, si alzò in piedi e iniziò il proprio cammino vittorioso nelle città e nei villaggi. Una parte significativa della società ritrovò la propria identità cristiana.
Ma tutto iniziò dal fatto che, alla metà degli anni Ottanta, al centro del dibattito pubblico in Urss si levò in maniera acuta la questione della libertà di coscienza. In tale dibattito la Chiesa aveva giocato un ruolo attivo. Di nuovo, come sedici secoli fa, con il fatto stesso della propria esistenza, nonostante la realtà circostante, la Chiesa mise a nudo la crisi della libertà e, insieme a ciò, mise a nudo la fragilità interiore dell’ordine di cose precedente. In un sistema di valori che si stava sfaldando non si trovava più una giuntura politica, né economica, né di senso, capace di unire il popolo.
Alcuni eventi della storia della Chiesa non possono essere spiegati altrimenti che come miracolo di Dio. Tale miracolo fu l’epoca che seguì all’editto di Milano del 313. Un miracolo non minore avvenne nel nostro paese alla fine degli anni Ottanta. Potevano persone che soltanto pochi anni prima per la loro fede rischiavano il benessere, e in alcuni casi anche la vita, interpretare la libertà che inaspettatamente gli pioveva addosso in maniera diversa che come un miracolo e un dono di Dio? Potevano aspettarsi che l’ideologia irreligiosa sarebbe crollata e che al suo posto sarebbe venuta un’altra concezione del mondo, in cui la Buona novella della Chiesa sarebbe stata nuovamente considerata come uno dei fondamenti della società e il pegno del suo successo nel futuro? Gli innumerevoli fedeli, che si erano riuniti nelle solennità del luglio 1988 avrebbero potuto ripetere le parole un tempo pronunciate da Eusebio di Cesarea in occasione delle generali solennità ecclesiastiche che celebravano la nuova epoca: «È scomparsa ogni paura in cui ci tenevano i nostri oppressori. Adesso sono sorti giorni lieti e solenni di feste affollate: tutto si è riempito di luce»[10].
In entrambi i casi proprio il dono della libertà religiosa anticipò quello delle altre libertà civili, stimate ai giorni nostri come una delle principali conquiste della società democratica. E ciò non è casuale, perché il concetto di libertà riceve un contenuto particolare proprio nel sistema di valori cristiano. Noi, cristiani, siamo convinti che il dono della vita sia un dono di Dio e che la stessa vita umana non sia sottomessa a niente, fuorché al Creatore del genere umano. Questa convinzione rende i cristiani liberi dal peso di qualunque forza politica e di qualunque ideologia. Essa li rende capaci di essere martiri e confessori della fede quando la Chiesa è perseguitata; testimoni della verità e annunciatori del Regno di Dio quando la Chiesa è riconosciuta. A nessun’altra religione o ideologia è proprio tale trepidante atteggiamento verso la libertà. Al grande filosofo russo Nikolaj Berdjaev appartengono queste parole: «La libertà, prima di tutto la libertà: ecco l’anima della filosofia cristiana ed ecco che cosa non è dato a nessun’altra filosofia astratta e razionalistica»[11].
La libertà cristiana non ci separa dalle nostre famiglie, dai legami sociali, dalla nostra patria. Al contrario, nella stessa concezione cristiana della libertà, nel riconoscimento del legame assoluto e vivificante dell’uomo con Dio è depositato un potenziale etico di enorme forza. Essendo creature del buon Dio, figli e figlie del Creatore, siamo chiamati a coltivare il giardino che ci è stato dato in possesso, avvicinando così il Regno di Dio al genere umano. Proprio questo potenziale etico, radicato dentro la libera personalità umana, vide nel cristianesimo l’imperatore Costantino, dopo aver consentito a questa potente carica positiva e creativa di liberarsi e influenzare tutta la società.
Questo stesso potenziale della libertà cristiana si liberò nel nostro popolo dopo decenni di oppressione ideologica. Sono convinto che se il nostro popolo ha superato la colossale catastrofe sociale ed economica degli anni Novanta e ha trovato in sé le forze per rialzarsi, ciò è avvenuto proprio perché in esso scorre ancora il sangue cristiano e nella profondità della nostra coscienza nazionale il concetto di libertà cristiana non è ancora cancellato.
Negli ultimi tempi possiamo osservare sempre più spesso come nei paesi dell’Occidente si proclami un’altra libertà: dai princìpi morali, dai valori comuni a tutta l’umanità, dalla responsabilità per le proprie azioni. Vediamo quanto questa libertà sia distruttiva e aggressiva. Al posto del rispetto verso i sentimenti degli altri essa predica un permissivismo che ignora le convinzioni e i valori della maggioranza. Invece di un’autentica affermazione della libertà, essa afferma il principio, lontano dagli elementari orientamenti etici, dello sfrenato soddisfacimento delle passioni e dei vizi umani.
L’atteggiamento aggressivo di tale libertà falsamente intesa la rende affine al totalitarismo dell’epoca delle persecuzioni e all’irreligiosità del Novecento. La «libertà totalitaria», basata sulle passioni umane, ci riporta ai tempi dei pagani, anche se in una forma più maliziosa e raffinata. Sotto i nostri occhi si dispiegano di nuovo immagini a noi conosciute per gli eventi dei decenni irreligiosi del nostro paese. L’ateismo militante, non di rado nelle forme più mostruose e grottesche, ha di nuovo alzato la testa e ha osato imporsi all’attenzione negli spazi europei. Il relativismo etico e il permissivismo si elevano a principio fondamentale dell’esistenza. E vediamo già come girino per Londra autobus con le scritte «Dio non c’è, goditi la vita» oppure «Sei gay, vanne fiero». Sentiamo come a Parigi si disperda con manganelli e gas lacrimogeni una manifestazione di sostenitori dei valori della famiglia tradizionale, contrari all’adozione di bambini da parte di coppie dello stesso sesso. Diventiamo testimoni di come sull’ambone della chiesa principale di Mosca si compiano sacrilegi che suscitano l’approvazione di una parte della società, e come poi un’azione analoga sia messa in scena a Notre-Dame di Parigi.
La secolarizzazione sotto apparenza di democratizzazione in realtà ha liberato nel sovra-Stato europeo, che rappresenta l’erede culturale dell’impero romano, un’energia colossale di sottomissione al potere. Questa energia ribollente aspira oggi a rompere definitivamente con il cristianesimo che ha trattenuto i suoi impulsi totalitari nel corso di diciassette secoli. Di conseguenza essa cerca istintivamente di istituire una dittatura assoluta che richiederà l’instaurazione di un controllo completo su ogni membro della società. Non stiamo forse andando verso questo acconsentendo, «ai fini della sicurezza», all’introduzione obbligatoria dei passaporti elettronici, della dattiloscopia generalizzata e all’installazione di fotocamere in qualunque luogo? Infatti tutto ciò può essere facilmente utilizzato per altri scopi, che pure possono essere giustificati col «rafforzamento delle misure di sicurezza».
Ciò che accade oggi in Occidente è una graduale ricostituzione della Pax Romana, di un dominio globale e internazionale. Se però, in determinati periodi, il potere romano aveva un atteggiamento indifferente nei confronti dell’amoralità, oggi invece si cerca di elevarla a norma. Alcuni presentano lo Stato democratico moderno addirittura nel ruolo di garante dello status legale dell’amoralità, poiché esso difende i cittadini dagli attentati del «bigottismo religioso». Il ruolo della religione, proprio come nella Roma dei cesari, è visto esclusivamente sotto una luce utilitaristica: essa deve essere servitrice dello Stato, senza aspirare alla verità, «un fatto privato di ciascuno». Cionondimeno, da essa si esige sempre il riconoscimento incondizionato dello Stato e l’obbedienza alle leggi, ivi comprese quelle che minano le sue basi.
Tuttavia, il cristianesimo per la sua stessa sostanza non può esimersi dall’aspirazione alla verità: tale è la sua natura escatologica, «in cerca della Città futura». Al moderno Stato secolare il Regno di Dio predicato dalla Chiesa infonde paura; al regno dell’uomo, che non tollera concorrenti, sembra una minaccia. Così come ai tempi pre-costantiniani, il cristianesimo resta l’unica forza al mondo che non possa essere inghiottita dal meccanismo gigantesco del nuovo Stato dispotico[12]. Non a caso, perciò, nelle profezie dell’Apocalisse sono utilizzate le immagini dell’impero totalitario, che lotta contro i santi, adoperando a tal fine tutta la propria forza colossale e i mezzi di controllo.
Evidentemente, il più grande merito storico dell’imperatore Costantino risiede nel tentativo cosciente di sintesi di una nuova forma di Stato fondata sulle norme evangeliche. Era poco probabile che questo esperimento potesse concludersi con successo, poiché «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi» (Mc 2,22). Lo statalismo pagano di Roma con l’aspirazione gli era propria all’assoluto controllo non fu eliminato negli Stati cristiani che le succedettero. Eppure i vecchi otri dello Stato romano permisero alla Chiesa di rivelarsi in pienezza nel suo servizio a migliaia di generazioni, di mettere a frutto i suoi doni benefici nella storia, di esercitare un’influenza nella formazione di molte culture e tradizioni. Noi recepiamo l’eredità del cristianesimo prevalentemente alla luce della sua evoluzione storica nel periodo seguito all’editto di Milano. Il «matrimonio» tra la Chiesa e lo Stato, sebbene si dimostrasse non eterno in forza dell’eterogeneità dei «partner», tuttavia, diede alla storia europea tale vettore di sviluppo, il cui rigetto significherebbe la morte della civiltà del nostro continente.
In questo contesto la lezione storica dell’editto di Milano diviene estremamente preziosa. Mostra che un nuovo ciclo di sviluppo della civiltà deve basarsi su una libertà che poggi su solidi fondamenti etici. Proprio da tale libertà devono formarsi anche tutti gli altri tipi di libertà; da essa sorge pure lo Stato estraneo al totalitarismo. In caso contrario, la libertà diventa nuovamente solo un valore dichiarato ufficialmente ma astratto, mentre l’ideologia liberale riduce in schiavitù l’uomo e lo rende come uno zombi, similmente a quanto faceva l’ideologia irreligiosa nel passato recente.
Nel IV secolo la Chiesa, per la prima volta nella sua storia, iniziò a integrarsi nella società civile, i cristiani per la prima volta sentirono la possibilità di mettere in pratica la propria fede e le proprie convinzioni per il bene della propria patria terrena. La forza della teologia cristiana – della teologia della salvezza e della resurrezione, della teologia del Regno di Dio che viene con potenza – doveva rivelarsi nella vita dei molti popoli che abitavano l’ecumene di quei tempi.
Ai giorni nostri la Chiesa e la sua Sacra Tradizione sono diventati una scoperta per il nostro popolo. Un’intera generazione di persone distanti dalla Chiesa ha di nuovo riscoperto la fede. La situazione in cui ci troviamo – situazione di riacquisizione della Tradizione dimenticata, di ritorno della società nella Chiesa, di rinascita della Chiesa – pone davanti a noi un compito: comprendere che cosa sia la Tradizione cristiana con la lettera maiuscola e chi siamo noi in questa Tradizione. Inoltre, la conoscenza della storia della civiltà cristiana ci ha aperti alla comprensione del ruolo della Chiesa in epoche completamente diverse, di prosperità e oppressione, di errori e prove. La Chiesa nell’epoca di Costantino, che compiva soltanto i primi passi come istituzione socialmente riconosciuta, non conosceva tutto ciò.
Oggi possiamo dire che la Chiesa negli ultimi diciassette secoli sia divenuta più matura, più provata. L’esperienza storica della Chiesa non ci consente, dopo avere ricevuto la libertà, di non disporre di essa con intelligenza. Oggi si esige dalla Chiesa una particolare saggezza, perché abbiamo ricevuto una tale occasione storica che non abbiamo diritto di lasciarci sfuggire. Già negli anni Novanta del Novecento in Russia la Chiesa ha iniziato a parlare a voce spiegata di libertà e responsabilità come di due valori assoluti, senza la cui interazione non è possibile costruire una società giusta. Oggi sempre più spesso simili idee risuonano dalle labbra degli uomini di Stato. Oggi, in Russia, ma anche in qualche altro Stato dello spazio post-sovietico, la Chiesa e lo Stato sono capaci di parlare a una sola voce, di esprimere un’unica posizione.
La consonanza tra Chiesa e Stato nella valutazione dei processi sociali non deve essere in nessun modo ritenuta segno di «fusione» tra essi. Il principio di reciproca non ingerenza tra Stato e Chiesa negli affari interni dell’uno e dell’altra deve essere mantenuto e si mantiene. Ma questo principio deve essere bilanciato da un altro principio non meno importante: la collaborazione di Chiesa e Stato in tutti i campi in cui questa collaborazione è possibile e necessaria. Ed essa si dimostra necessaria nei campi più diversi, connessi alla sfera dell’etica pubblica.
Oggi sia lo Stato, sia i rappresentanti delle confessioni religiose, ma anche le persone non appartenenti ad alcuna religione (che inaspettatamente risultano essere in minoranza) possono prendere parte, a tutti gli effetti, alla discussione sui valori che debbono orientare lo sviluppo sociale. Noi dobbiamo creare una società in cui nessuno si senta a disagio, in cui ciascuno possa mettere in pratica la propria libertà. Ma nello stesso tempo occorre che la libertà non si trasformi in permissivismo. Ogni membro della società deve sentire la propria responsabilità non soltanto verso se stesso, ma anche verso la propria patria, verso tutto il mondo circostante.
Oggi non possiamo considerare la società come un meccanismo senz’anima, guidato da norme giuridiche. La società è anche un organismo spirituale, che è guidato da leggi spirituali. Non per nulla parliamo di società etica o senza etica, di società malata e di società sana. Le possibilità dello Stato di influenzare la sfera spirituale della vita umana sono alquanto limitate, mentre la Chiesa ha in questo campo possibilità enormi. Affinché gli interessi della società si realizzino al massimo, è indispensabile che la libertà civile, che può e deve essere garantita dallo Stato, sia connessa alla libertà religiosa. Perché proprio la libertà è l’anello di congiunzione tra le due sfere della vita sociale: quella civile e quella spirituale.
Questo tema è complesso e sfaccettato, provoca dibattiti e necessita di dibattiti. Nel corso di tutta la storia cristiana, fin da quando a Milano fu firmato lo storico editto che concesse la libertà alla Chiesa, la Chiesa si trova in un incessante sviluppo dialettico: essa, da una parte, deve conservare la propria libertà acquistata con il sangue; dall’altra, è chiamata a realizzarla.
Ogni libertà è preziosa, quando è legata alla responsabilità e allo spirito di sacrificio. Possedere la libertà significa per la Chiesa restare «sale della terra», lievito evangelico, forza spirituale e coscienza del popolo. Realizzare la propria libertà significa agire, utilizzare le opportunità che il Signore dà per il servizio e per la predicazione. Il mondo è fatto in modo tale, che la libertà è condizione dell’agire decisivo, ma ponderato. La libertà è il mezzo, la condizione della creatività. Ma la creatività è il coinvolgimento nella vita della società con tutte le sue contraddizioni interne.
A noi è dato vivere in tempi in cui nelle nostre mani, nelle mani dei cristiani si è trovato il prezioso dono della libertà, quello stesso dono che ricevettero i cristiani all’epoca dell’imperatore Costantino in Grande. Questo dono della Divina Provvidenza apre davanti a noi enormi opportunità. Ma il dono della libertà ci carica anche di una responsabilità colossale. La capacità di disporre del dono della libertà esige dalla vecchia generazione degli uomini di Chiesa una particolare saggezza, mentre dai giovani lavoratori del campo di Dio esige un impegno colossale.
Parlando dell’idea della libertà cristiana come di un filo che lega l’epoca di Costantino alla nostra, mi rivolgo con il pensiero all’ascesi degli apostoli e dei martiri, degli apologeti e dei santi padri dal IV secolo e di quello seguente fino ai martiri e ai confessori della fede della Chiesa russa. Dal momento stesso della sua origine, attraverso tutte le generazioni, grazie all’ascesi degli eroi dello spirito, la Chiesa ha custodito la propria libertà come pupilla degli occhi. E checché ne dicano gli studiosi dei rapporti tra Stato e Chiesa a Bisanzio e nella Rus’, la Chiesa nel suo intimo è rimasta libera, fuori dalla dipendenza dalla congiuntura politica esterna. La libertà di confessare Cristo come il Signore e di vivere secondo i Suoi comandamenti resta una costante per la vita della Chiesa e per la vita di ciascun cristiano fin al momento in cui «i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta» (2 Pt 3,10).
Voglio augurare a tutti voi, e nelle vostre persone a tutta la generazione futura di cristiani occidentali, di conservare lo spirito di quella libertà cristiana che stima vanità tutto ciò che non piega la testa dinanzi al Dio vivente e dinanzi al Salvatore del mondo, Gesù Cristo. Conservando questa libertà interiore, non abbiate paura della creatività, non abbiate paura del rischio della creatività. Poiché il Signore ci invita tutti a essere suoi collaboratori in questo mondo, ma la collaborazione non può non essere creativa nel senso più alto di questo termine.
E ancora un augurio che vorrei indirizzare oggi a tutti noi: portando nel mondo la parola di Cristo, non dimentichiamoci che l’esempio della nostra vita personale è sempre stato e sarà la migliore testimonianza. Possa la nostra attività creativa iniziare nelle nostre anime, nelle nostre famiglie, parrocchie e comunità monastiche, nelle scuole ecclesiastiche e nelle università laiche. Allora la forza della nostra testimonianza raggiungerà tutto l’insieme della società e di ogni suo membro. Allora potremo con le nostre vite degnamente vissute rendere grazie a Dio per il prezioso dono della libertà che Lui dona a noi, cristiani, e che nessuno ha il diritto di sottrarci.
[1] Apologeticum 37.
[2] Citato secondo Evsevij Pamfil, Cerkovnaja istorija [Storia ecclesiastica], vol. 10, cap. 5, Moskva 1993, p. 358..
[3] Golz, Hans Martin, Die Konstantinische Wende – Eine Betrachtung zu drei Toleranzedikten, GRIN Verlag, 2009, p. 12.
[4] F. Dvornik, Early Christian and Byzantine Political Philosophy. Origins and background, II, Washington, 1966, p., 616.
[5] Apologeticum 38, 3.
[6] Contr. Cels. VIII, 75.
[7] Georgij Florovskij, arciprete, Dogmat i istorija [Dogma e storia], Moskva 1998, p. 261.
[8] Ibidem.
[9] Ioann Meyendorf, arciprete, Istorija Cerkvi i vostočno-christianskaja mistika [Storia della Chiesa e mistica orientale cristiana], Moskva 2000, p. 19.
[10] Eusebio di Cesarea, Cerkovnaja istorija [Storia ecclesiastica], 10.
[11] Berdjaev, Filosofija svobody [Filosofia della libertà], parte 1.
[12] Georgij Florovskij, arciprete, Dogmat i istorija [Dogma e storia], Moskva 1998, p. 261.

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