O Santa Fede, dei nostri amati Padri, che ci hanno
traghettato sulle coste del " Mare Nostro " (Deti Jonë), quando
ritornerai ad essere la protagonista della Vita Spirituale di coloro che si
definiscono ancora ARBËRESHË ? Quando
dobbiamo ancora aspettare perché lo spirito religioso dell’oriente cristiano
torni ad essere predicato, pregato, annunciato e proclamato nelle nostre
contrade, nei nostri paesi, nelle nostre Chiese? I nostri Avi non aspettano
altro, da secoli memorabili: far risplendere nei nostri animi, nei nostri cuori la
Santa Fede Ortodossa !!!!
(Padre Giovanni Capparelli)
ARBERIA: LA REALTA’ DEL NOSTRO TEMPO
I vostri makkioti
“Non troverai mai la verità se non sei disposto
ad accettare anche ciò che non ti aspetti”
Gent.ma Redazione di Makij,
Vi
confessiamo da subito che eravamo molto indecisi nello scrivere questa
lettera. Primo, perché non vi è scritto niente
di “sensazionale”, né trattasi di chissà quale “scoperta” o “novità
di vita”. Poi perché non volevamo (forse) “urtare e infastidire” i
gentili lettori col sentirsi “richiamati” forse dalle solite menate, del “già sentito” e dèjà vu vari. Ma poi, per amore della verità o se
volete della realtà, abbiamo lo stesso deciso di scriverla nel rispetto del salmo che recita: la nostra storia “sta sempre davanti a noi”,
anche
quando come gli struzzi, non vogliamo vederla o la rimuoviamo. E
allora, sforziamoci di ripeterla questa verità (cui si cerca di
sfuggire),
all’insegna dell’utile repetita iuvant, nella speranza che - come scriveva Giordano Bruno - lectio repetita placebit.
Iniziamo dalle “onorevoli” istituzioni politiche
dei nostri (o loro?) paesi. E’ da molto tempo ormai che hanno
abbandonato i propri cittadini, salvo ricordarsi (di noi) quando gli
serviamo o quando ci serviamo (di loro): la chiamiamo “democrazia”.
Loro (specchio di noi stessi) ci salutano “popolarmente” con quel
sorriso da stampa elettorale, come dire: “non preoccupatevi adesso ci siamo noi”. Ci
accarezzano
massonicamente, dandoci le pacche sulle spalle: “non aver paura non
ti mancherà la nostra protezione”. Si presentano con quell’aria
populistica e finta-dimessa usando parole accomodanti per sentirsi dire da noi: “è proprio uno di noi”. (Si) “spendono” molto per “la custodia, la
valorizzazione e il ripristino dell’identità arbëreshë”: Vedi i vari festival canori della serie “canta che ti passa”. (Si)
sponsorizzano con le
“commoventi” e colorate vallje per tenersi in “movimento e non farci
sentir depressi”. Organizzano sagre a sfondo cul-inario/cul-turale per
non pensarci poi tanto: “Mangiate e bevete, domani è un
altro giorno e si vedrà”. Si “interessano” così tanto di noi al
punto da impegnarci a diventare “uno di loro”. Ma in tutto questo
“casino” l’Arberia
dov’è?
Le istituzioni e
associazioni civili impegnate a promuovere, a far conoscere
l’Arberia (dove e quando ci sono) sporadicamente si fanno presenti e si
fanno sentire, soprattutto in occasione di qualche
nuova legge appena promulgata per accompagnare dolcemente
l’eutanasia della “minorata” etnia arbëreshë. In queste occasioni li
vedi tutti “in berlina” intorno a qualche tavola rotonda a parlare,
parlare, parlare…, a scrivere, scrivere, scrivere… e tutti (solo)
allora si riscoprono arbëreshë per la serie “felici e contenti”.
I protagonisti di queste istituzioni per “l’Unione e la
rinascita dell’Arberia” - quando con aria professorale, altezzosità e
quando con vanitosa umiltà - sono sempre lì, pronti a dar voce alla
cultura e alle gloriose tradizioni dei nostri avi. Amano
pavoneggiarsi (dall’alto) dei loro pulpiti, facendo sfoggio dei loro
titoli universitari e accademici, ma (quasi) mai si degnano di
“scendere” in basso, in mezzo a noi, a toccare con mano la
nostra realtà. (Sarà che puzziamo?)
Sono così sicuri delle loro cono-scienze, da fare a
meno di sperimentare se sono poi così vere le “storielle romantiche e
favolose” che vanno
raccontando(si) in giro. Hanno forse paura di “s-porcare” il loro
sapere? Allora si sprecano a più non posso, di qua e di là,
con conferenze
“illuminate e altolocate”: amano sentirsi dire “bravi” (anche se
sanno in cuor loro di parlare a loro stessi). E così, anche quando ci
raccontano in realtà si raccontano. Amano fare “vita letteraria” ma mai “letteratura di vita”. Parlano sempre di noi ma mai con noi. Non
abbiamo mai capito (spero ci perdonerete di essere forse dei ritardati - cosa c’entra mai l’anima alata dell’Arberia con tutto questo
gracchiare e ciarlare? A codesti “esperti” dell’Arberia ricordiamo il detto dei professori del deserto: “è meglio una vita senza parole che delle parole
senza vita”.
Le
istituzioni religiose ci sono ma è come se non ci fossero.
La loro esistenza storica è sempre in “via provvisoria”. Mentre i vecchi
quadri dirigenziali delle tre eparchie italo-bizantine
(composti una volta da sacerdoti e vescovi dei paesi arbëreshë) si
sentivano ancora legati e ad-dentro alla tradizione dei papas di un
tempo e alcuni hanno perfino combattuto per recuperare e
tenere in vita quel pò di storia “bizantina-greca” (come
impropriamente la chiamano) rimasta, “il nuovo che avanza”, cioè i
nuovi-giovani sacerdoti arbëreshë + rumeni + ucraini, neanche riconoscono
(ormai) più la tradizione di vita teologica orientale, fatto salvo
il fogliame di cui si rivestono. Dai nuovi seminari sono usciti ben educati,
preparati e istruiti nel raffinato ritualismo orientale.
Basta guardarli alcune volte quando escono per le
strade dei nostri paesi, svolazzando con le loro pulitissime tonache
“alla greca”, tutti profumati (non d’incenso s’intende) e con le barbe
ben raccolte e d’estate abbronzati. Tutti belli,
carini e soprattutto impeccabili! Ma la caratteristica che salta di
più agli occhi è il loro essere terribilmente buonisti: cioè i peggiori
nemici della bontà. Li vedi sempre pronti a benedirti
francescanamente, li senti sempre (così) vicini (fin troppo) quando
non sono (quasi sempre) fuori in tournè per far conoscere agli altri (ai
latini) i “bei e beati” canti della (loro) liturgia
greco-cattolica-orientale. Dedicano molto tempo a curare il look
(esterno) della chiesa. Del resto succede quasi sempre così: quando si è
vuoti dentro si rincorre all’esterno. Che fighi!
Ma, il momento
clou (o clownèsco?) dello spettacolo è quando li vedi in azione, cioè quando
(si) cantano e (si) suonano
messa. Manageriali nei minimi dettagli, prestano una cura estrema
affinchè tutto si compia secondo il rito e i canoni “orientali”
stabiliti dalle varie encicliche papali per questi figli
predi-letti di santa-romana-chiesa. Loro sì, che sanno ascoltare,
capire e andare in-contro al popolo. Animano la tranquilla (?) vita
dei nostri
paesi con sempre più feste popolari (latine). Dicono sempre, “si!”,
alle iniziative della gente: sanno e stanno ben attenti a non inimicarsi
la gente (soprattutto quella che conta) e non turbare
i falsi equilibri dello status quo. Come collaudati politici sanno
distrarre e accalappiarsi il consenso e il plauso popolare. Tutto quello
che il popolino vuole, loro acconsentano. Il tutto
all’insegna dell’”Actor Studios”. Oh, Dio! Come amano il popolo.
In questi “ultimi” arrivati, a dispetto dei vecchi
zoti, è difficile
trovare in loro segni ”d’insofferenza”. Tutti allineati, coperti e in
linea con i nuovi tempi: zeloti e zelanti nel trovarsi sempre
pronti ad annunciare la “buona novella” (del papa-capo). Alcune
volte vengono (sacrosantamente) ripresi dalla gente per la
superficialità dimostrata nell’affrontare le sofferenze dell’animo. Ma,
“benedetto (loro) gregge”! Bisogna comprenderli: “chi glielo fà fare” di “renderTi libero con la
Verità”. Loro fanno parte della “famiglia” e alcuni hanno anche una vera famiglia. Del resto il loro animo è lëtisth e da italiani-praticanti osservano il detto: “Tengo (alla) famiglia”.
E poi, cosa mai aspettarsi da chi non vive nella e di
quella “Verità che rende liberi”? Come può chi non è libero dare libertà agli altri? Il “cielo” sotto
cui vivono è quello della “cupola” vaticanista e difficilmente (ma molto difficilmente) “chi ha fatto la scelta di vivere così farà ritorno”
alla
Verità. Ma veramente pensate che questa sia quella (chiamiamola
ancora) chiesa lasciataci dai nostri antichi padri della retta-fede? Quei nostri
padri che për besen e për lirin (la fede e la libertà) che li sosteneva e li nutriva – ricordiamolo sempre - sono stati imprigionati,
torturati e… scomunicati ka lëtisth (dai latini). E da chi? Guarda caso, proprio dai c.d. latini (papisti) di cui le attuali (tre) eparchie
militano e si vantano di militare come “una gemma orientale incastonata nella tiara papale” (come disse
di loro il papa Paolo VI). A ragione il (nostro) poeta Girolamo De Rada (figlio di un sacerdote) nella
sua Autobiologia, scriveva: “la chiesa dei nostri padri si è fatta a noi estranea”.
E del popolo
e/o di quello che è rimasto degli Arbëreshë?
Ridotti allo stremo, si strascinano nella solitudine della loro vita
quotidiana. Come sedotti
e abbandonati si sentono traditi e rassegnati. Paurosi di uscire dal
coro stanno ben attenti a non sbagliare la parte loro assegnata: di
vassalli, coloni e mezzadri del padrone di turno.
Cosa
fare? Pensiamo che il primo e fondamentale passo da fare, prima di tutto sia
quello di riconoscere e prendere veramente e pro-fondamente coscienza che siamo tutti ammalati. E’ questo, crediamo, l’inizio verso la
guarigione. Ma, vogliamo veramente guarire? O, come invece avviene, continuiamo
a far finta che tutto
sommato “va bene”, (anche) quando in realtà i mali presenti in
noi-paesi, ci stanno spopolando e spappolando fino
all’osso? Va a finire che
in futuro (non così lontano) per trovare un arbëreshë bisogna far visita
ai cimiteri e ai musei. Quando decideremo, una
volta per tutte, di non rinchiuderci nel (solo) passato o di
raccontarci le favole senza che ci sia più la “vatra e la ghitonja”,
cioè la comunità?
Può un popolo fare a meno della propria vita storica,
di quello che “in verità” si è? Tremendamente ma meravigliosamente
pochi Arbëreshë e di quello che si è diventati (in massa), lëtisth,
tristemente ma apaticamente in molti? Certo! Si può fare! Ma è come vivere senza.
Di che cosa, della nostra martoriata storia dovremmo
vergognarci? Anzi, come dice s. Paolo: dobbiamo “vantarci del martirio subito e delle stigmate che ci portiamo”. Fino a quando ancora continueremo a s-fuggire dalla realtà, dalle nostre
responsabilità e da noi stessi? E, se mai dovremmo (pur) finire (come nella storia è già successo a
tante altre etnie), per favore! Cerchiamo almeno di dare un minimo
di dignità al nostro finale e non chiudere la tenda della nostra storia
da vigliacchi, paurosi e vili. I nostri padri del resto
non c’è lo perdonerebbero.
E non diamo tanto importanza al numero. Ricordiamo(ci) che “la Verità non é matematica”. Da che mondo e mondo, sono “maledettamente” pochi queiche amano veramente e perfettamente il loro paese, cioè disinteressatamente. Così sono e saranno sempre
pochi quelli che sanno riconoscere la “ricca povertà” riposta nelle nostre misere comunità e si sentiranno “orgogliosi del privilegio che si ha di essere
un popolo disprezzato e confinato” (Che Guevara). I molti invece, amano elaborare il lutto
(infinito), come piangere sul latte versato e versare lacrime di coccodrillo. Scriviamo questo non perché quei pochi debbano sentirsi confortati dal
pensare di essere “esclusivi e/o eletti”, ma con la timida speranza che siano da esempio ai molti e che da pochi diventino sempre più molti.
Vogliamo concludere invitandoVi a prestare attenzione alla vita
storica dei popoli componenti le varie nazioni del mondo. Vi accorgerete che essi sono ricordati e rinomati solo per quei pochi ed è per quei pochi che gli altri possono ben andare orgogliosi.
Vi salutiamo e Vi ringraziamo anticipatamente, ricordando(ci)
che: “Gjaku s’behet uj!” (= il sangue non si fa
acqua).
Makij, 20/06/2012
Costante Francesco
- Marchianò Stanislao
- Michele Avati
P.S.
Un Arbëreshë per definirsi tale, deve possedere almeno due requisiti fondamentali (come risulta dalla sua carta d’identità storica): “Besa e Liria” (cioè
Fede e Libertà). Senza questi “segni” caratteristici, si può pensare, dire e fare di tutto, ma non si è Arbëreshë.
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