SULL’ENCICLICA " LUMEN FIDEI"
a cura di Nando Elmo
L’ho scaricata da Internet, www.vatican.va , appena pubblicata.
Avevo
letto le altre, di Ratzinger, senza coglierne alcun beneficio, né
intellettuale, né spirituale (anzi se c’è qualcosa che fa male allo
spirito – al mio s’intende, sono proprio queste encicliche - per dire,
da Fides et ratio a venir giù).
Mi interessava questa scritta a quattro mani: chissà che il gesuita non vi abbia apportato qualche novità.
La curiosità è stata grande, ma altrettanto grande la pena, la disillusione.
È
stata faticosa la lettura, non perché il testo presenti difficoltà.
L’ho presa e lasciata e ripresa, più per un dovere intellettuale che per
un “piacere”.
Immaginavo che fosse colpa del supporto. Non riesco a concentrarmi sui testi che leggo sul computer.
Tra
l’altro per concentrarmi ho bisogno di essere sdraiato, e col computer
ciò non è possibile.”Sul tuo divano, che se ti manca perdi il tuo
fondamento – tu che cammini sulle acque”, recrimina sarcastica mia
moglie.
Allora ho stampato il testo.
Ma il nuovo supporto cartaceo non mi ha facilitato la lettura.
Di
nuovo, prendo e lascio, come mi capita con tutto ciò che è privo di
pensiero, del “pensiero pensante” come direbbe Heidegger - nessuno
sforzo per andare oltre ciò che pare evidente.
Siamo alle solite: i due papi ripetono luoghi del “pensiero raziocinante” cattolico.
“Maledizione,
lo so, l’ho già sentito, di’ qualcosa di nuovo, possibile che lo
Spirito non ispiri più?” mi dicevo durante la lettura.
Luoghi
ormai comuni, edificanti, ma di una edificazione ormai datata, per me,
dai tempi di papa Pacelli, dai tempi del catechismo di Pio X, dai tempi
delle suorine dell’Azione Cattolica, della D.C., del “Noi vogliam Dio”
suonata dalle bande musicali nelle feste patronali, di una Calabria
post pacelliana tutta “Dio Patria e Famiglia”, entità evocate dal
dominio cattofascita, prima, e dal dominio piccolo borghese ciellino,
poi. Che inducono solo alla pigrizia spirituale.
Come
ogni volta che mi trovo davanti a luoghi comuni, soprattutto se
trincerati da una “tradizione” – perfino da “buone letture” con il
corredo di scoppiettanti fuochi d’artificio che subito si spengono
lasciando il buio, come le frasi ottimistiche, dei paradisi pubblicitari
dei cioccolatini - mi bastano due righe per capire dove l’autore voglia
parare – soprattutto a far il pelo al lettore, accontentandolo nella
sua ignavia e nel suo divertissement.
E monta la noia, monta la ripulsa.
Ma
si presenta il complesso di colpa usato dai politici per sparare contro
chi gli vuol impedire di dire idiozie: lascia parlare, non interrompere
sempre, io non ti ho interrotto.
E dunque il lascia e prendi, di una lettura faticosissima – per lasciar, urbanamente, parlare.
E
già il fatto che si citi, in questa enciclica, Agostino ad ogni piè
sospinto, mi fa venire una orticaria intellettuale per il pensare
cattolico, che nel pensiero greco “nella fame di verità” ha trovato “un
partner idoneo” (Lumen fidei) – frase fatta, già del razionalista prof.
Wojtyla – dovrebbe essere proibita per legge la ripetizione di frasi
altrui - anche per me s'intende, che però mi adergo contro, ma sì
diciamolo, la mala fede altrui - e poi non sono un professore di scienze
teologiche e sono uno scrivano diversamente abile, non uno scrittore -
non ho frequentato nessuna scuola Holden.
Costoro,
mi dicevo, nonostante il pensiero moderno, che di quel razionalismo ha
denunciato la crisi, continuano ad essere ellenofroni – secondo
l’epiteto, che così li bollava, di San Gregorio Palamas, che aveva
capito che cosa si celava dietro i giochetti scolastici della tomistica.
Eh
già, ellenofroni. Che non han colto ancora quella frattura che il
battesimo di Platone e di Aristotele, da parte di Agostino e Tommaso, ha
posto tra la fede dei santi e quella dei philosophi cathedrarii,
non ultimo l’”eretico” Mancuso – che è veramente solo un professore
degno di comparsate in TV e solo un autore di bestseller, le sue parole
non profumano di santità, ma solo di una pervicace falsa coscienza, che
nasconde la sua volontà di scientismo e di razionalismo a buon mercato,
che è sempre e comunque volontà di potenza (è un siciliano), volontà di
assicurare i tremebondi, che han voglia di miracoli: il pubblico
televisivo, in veste di madame borghesi, applaude, mentre Paolo avverte
che “Dio ha reso folle la scienza di questo mondo” (ho Theos emoranen tin sophian tou cosmou toutou).
Forse anche Dio ama nascondersi, come la Physis, e intanto dichiara di “rivelarsi a quanti "non" lo cercano - evrethin tis emè mi zitousin” (Isaia 65,1), a quanti, cioè, non impiegano strategie intellettuali (i ricercatori) per catturarlo in qualche concetto (cum/capio, con/prendere, con/afferrare)
– di sicuro non si è rivelato ai filosofi e ai loro procedimenti
logico-razionali – dunque le deduzioni di Agostino e Tommaso sono meri
giochetti e persino blasfemi, se credono che si possa dedurre
l’esistenza di Dio, e tutto quanto gli pertiene, con quattro sillogismi.
D’altra parte con altrettanti sillogismi, perché la fede non sia
credenza (si preoccupa Fides et ratio), non superstizione,
Nietzsche ha dichiarato, una volta per sempre, che Dio, il dio dei
filosofi (e dunque dei teologi, ai quali non par vero di dirsi
competenti in “scienze teologiche”), è morto. D’altra parte il martire
Bonoefer ha dichiarato che “il Dio di cui si parla non è Dio” – ricalcava il kantiano: Kein bewusstes Sein ist das Sein – l’Essere di cui si parla non è l’Essere.
Di che parliamo allora?
Forse Dio - la nostalgia del totalmente altro (Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen),
per così dire, ma che è qui, però nascosto, nel buio periecontologico, o
meontico: va solo “giustamente cantato, glorificato” (ortodoxia), nella disperata richiesta che ci mostri la faccia.
Tutto
il resto è pura chiacchiera edificante, buona per ripararsi dai danni
della vita – che rimane comunque tragica, anche nell’ Eden occidentale,
un “paradiso facile”, come lo definisce un poeta: ma non siamo più
capaci di produrre salmi, né tragedie, anestetizzati dal benessere, del
mondo a disposizione, del "paradiso facile".
È
chiaro che finché il pensiero cattolico rimane prigioniero del pensiero
occidentale, vincono le domande sull’assurdità che gli pongono Eugenio
Scalfari, Pier Giorgio Odifreddi, Paolo Flores d’Arcais, e quanti come
loro sono trincerati nella logica razionale: illuministi tutti e tre.
La chiesa cattolica corriva al mondo, e per non far brutte figure davanti ad esso, ha sempre temuto il credo quia absurdum ed ha innalzato anch’essa un altare alla Dea Ragione – non era il grido degli inquisitori: contradicitur, che apriva la porta dell’inferno dei roghi agli eretici che avevano scoperto l’incompatibilità tra ragione e fede?
La
Chiesa cattolica non si decide ancora a inaugurare un “nuovo pensiero” -
per tanto rimane prigioniera, essa sì, della superstiziosa fede nella
Dea Ragione, che con il principio della ragion suffiente s'impone con la
necessità, col principio di non contraddizione e con le leggi generali.
La
Chiesa Ortodossa, per contro, sa che Dio è solo un’esperienza, non un
pensiero intellettuale, non un concetto, per tanto appare agli occhi del
mondo una chiesa sclerotizzata: non avrebbe essa fatto gli stessi passi
verso la secolarizzazione illuministica fatta dalla Chiesa di Roma,
aperta alle “magnifiche sorti e progressive” della cultura occidentale.
Ma
l’esperienza si vive, non si racconta, non si concettualizza, anche
perché essa sconfina in quell’assurdo, in quelle aporie, in quelle
tautologie, in quelle contraddizioni, di cui la ragione raziocinante non
vuol sapere e di cui non può venire a capo neanche con una dialettica
hegeliana.
Come raccontarla una fede senza
ragione (senza doverla giustificare davanti al consesus philosophorum
cathedrariorum? Vieni e vedi. Non c’è altro - questo insegnano i santi -
non i professori.
Questo insegnano la theia mania
di Francesco d’Assisi, questo le estasi di Caterina e di Teresa
d’Avila, e di Juan de la Cruz, questo i dubbi sulla sua fede
intellettuale di Tersa di Lissieux, questo gli esicasti atonìti ( in
totale abbandono, in Gelassenheit: il Signore è il mio pastore, nulla mi può mancare).
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