BIZANTINI? UN’ INTEMPERANTIA IN ADIECTO di NANDO ELMO
pubblicata da Nando Elmo il giorno Mercoledì 13 febbraio 2013 alle ore 11.06 ·
Mercoledì delle Ceneri 2013
Era
il cruccio di Papas Matrangolo. Per quante estati ne abbiamo discusso?
Soprattutto una volta che gli mostrai gli scritti di Gregorio Palamas
che mi avevano regalato i miei nipoti di Taormina che volevano
sdebitarsi con me e dimostrarmi la loro stima. Ero stato il gran
cerimoniere del loro matrimonio celebrato in rito bizantino, a Taormina,
appunto, dal papas Janni Pecoraro di Piana degli Albanesi, e del
battesimo delle loro figlie celebrato dal compianto papas Vito Stassi
parroco bizantino, lui sì, della Martorana di Palermo.
Mia
nipote, Simona Elmo, ci teneva alle radici, soprattutto da quando le
dimostrammo che anche il futuro marito era di chiare origini arberische
(ecco, ditevi arberischi più che albanesi: per un
doppio omaggio alla Grecia da cui venite (non dall’Albania) e alla Magna
Grecia che vi ha ospitati). Arbëresh anche lui, il marito di mia
nipote: un Coci (ovvero Koçi – il claudicante, un “claudio”) di Catania.
Era
una di quelle estati di impareggiabile caldo secco che ti crogiola e ti
asciuga le ossa. E noi, come dimostra la foto testé pubblicata, seduti
sul pianerottolo antistante il portone della canonica, ci lasciavamo
crogiolare dall’altro “sole che non tramonta” (nonostante la morte di
Dio), di una teologia discussa senza remore.
Di
che discutevamo? Di quella polemica tra Baarlam il Calabro e il Santo
Palamas, dove si mettevano i paletti tra il pensiero occidentale
agostiniano, dunque neoplatonico - e scolastico, dunque tomistico
aristotelico, ambedue ellenofroni, dunque pagani - e il pensiero
orientale dei Padri non ellenofroni, non pagani.
Essendo
io stato, da quando ho aperto il primo libro di filosofia, un
antirazionalista, o, meglio, uno che ha ritenuto la ragione solo uno strumento in mano a quei mortali che sono gli uomini, afflitti d’astenia, dal pungiglione della morte (kéntron toû thanátou),
da cui deriva tutta la loro tragica situazione esistenziale, e credono
di risolvere tutto appunto con la ragione, non potevo non trovare in
Palamas un maestro. Imparavo a quei tempi, la meditazione yogica - che
da noi dovrebbe dirsi esicasmo (ma chi sa di che cosa sto parlando?) -
non potevo non cedere ai discorsi del santo bizantino in difesa degli
esicasti del Monte Athos.
Col mio grosso tomo di
Palamas sulle ginocchia quella volta fui io a tenere il campo su don
Matrangolo, il quale affermava, a più riprese, riconoscendone i luoghi,
che su quell’autore aveva dato lezioni all’Università di Bari.
E allora? Domandai.
Il
fatto è, diceva, che non posso non dirmi tomista. E tuttavia sono
uscito dall’Angelicum praticamente ateo, proprio per la teologia che in
quell’Ateneo si studiava. Si studiava, bada. Sì, proprio come denunci tu
col tuo Pascal noi studenti dell’Angelicum eravamo, con la nostra logica, pieni di esprit di géométrie, non di esprit de finesse. Se non avessi incontrata la liturgia …
La liturgia? – obiettavo: Ma se avete fatto dire al popolo prima il Credo di Pio X e poi quello pseudo niceno del Filioque,
quale liturgia avete celebrato? È vero che il popolo non sa di queste
disquisizioni da teologi, ma nelle vostre dottissime omelie, che più che
dirette al popolo, sembravano dirette a voi stesso, essendo quelle la
prosecuzione delle vostre ruminazioni, non ho mai sentito parlare di
queste cose, né mai ho sentito nominare uno solo dei nostri Padri. E poi
chi erano quei Passionisti che facevate venire per le serate di
evangelizzazione così stracolme di popolo? Tomisti che venivano per
farci diventare latini con l’insito paganesimo da ellenofroni di quella
teologia razionalistica?
Ebbe un attimo di smarrimento, mi parve, da cui si levò domandandomi: Difficili, dici, le mie omelie?
Non
per tutti – risposi. Certo, sì, per quelle quattro beghine che
frequentano la chiesa, alle quali credo basti la loro fede. Le omelie
sembrano fatte, a meno che non prendano la usurata e retorica china del
panegirico, per gli intellettuali i quali hanno bisogno sempre di dare
un fondamento razionale alla loro fede, (che non hanno) essendo sempre
malati di agostinismo: credo ut intelligam. Ma credo ut intelligam, e
viceversa, che cosa? Dio? Non vi pare una bestemmia? Puro
pelagianesimo? Che risponderebbero i nostri Padri, se li scomodassimo?
Usò contro di me, giacché era un logico, l’argomento della autocontraddizione performativa: Attento, stai usando la detestata ragione contro la ragione.
E
già la ragione si contraddice - gli rimando - è nemica di se stessa: il
nichilismo, il suo ultimo figlio legittimo, ne è prova.
Dico
- ripresi - prendendo chissà da dove la sfrontatezza (ma forse usavo
solo il dono della profezia, in quanto col battesimo sono istituito,
come tutti, re, profeta e sacerdote – d’altra parte non è stato
raccomandato di non preoccuparsi perché parla lo Spirito per noi? ):
Dico, come i Padri, che parlo solo perché parlano gli eretici.
Sorrise.
Poi si distese sulla sedia incassando la testa tra le spalle: Il guaio è
che noi arberischi siamo ancipiti – lo riconosceva con disappunto: non
greci perché arberori, non arberori perché greci; non italiani perché
arberischi, non arberischi perché italiani, e non cattolici perché
bizantini e soprattutto non bizantini perché cattolici – recitando il Pistevo in greco non pronuncio il Filioque, che tra l’altro verrebbe a rovinarne la prosodia, ma lo lascio dire in italiano, dove il Filioque è stato aggiunto, con un colpo di mano, al popolo.
Basti guardare – gli rimando - l’ Enchiridion bilingue di papas Damiano Como: di qua il Pistevo niceno nella sua integrità; a fronte, una evidente manomissione, il Credo con il Filioque – chi
tradisce che nella traduzione? Quando vado talvolta a Torino a cantar
messa mi porto il messale edito da Grottaferrata senza traduzione a
fronte, così recito il Pistevo niceno in greco, con la scusa
che non ho il testo italiano per recitare l’altro (che qualcuno dice dei
Franchi, perché voluto da Carlo Magno, che doveva porre un discrimine
tar il suo impero e quello legittimo d’oriente) che forse non saprei
nella sua integrità recitare a memoria.
Non siamo
bizantini – aggiunse con rammarico, come se non sapesse o non potesse
risolversi per una tesi piuttosto che per l’altra - perché veniamo
allevati nelle università cattoliche – prima di Basilio (ho fatto
lezione a Bari anche su di lui) ho studiato la teologia aristotelica di
Tommaso – le sue prove della esistenza di Dio sono, oserei dire,
blasfeme. E in ogni caso solo ai ciechi, che rimangono sempre tali, si
può dimostrare l’esistenza del sole.
Quest’ultima
affermazione, mi mise in pace con le mie assunzioni antirazionalistiche
e anti illuministiche. Potevo andare soddisfatto, dopo il caffè.
Da
qualche parte, aveva seguito il nostro dibattito, quegli che allora era
un semplice diacono, papas Pietro Lanza, che mi disse: Bravo, gli hai
tenuto testa.
Non era questione di tenergli
testa. Il fatto era che non gli sfuggiva – e come avrebbe potuto, per
tutto il sapere che aveva? – l’ancipite situazione nostra, il fatto cioè
che pretendiamo di essere nello stesso momento bizantini e cattolici,
esercitando una inconsapevolezza veramente esemplare.
Lui
avrebbe però preferito un adesione totale al cattolicesimo anche nel
rito: Siamo destinati a sparire – argomentava con tutte le inferenze del
caso – ma non sapeva, non sapevamo allora delle nuove vocazioni.
Oggi
che non sono più sotto la sua soggezione – temevo che le mie citazioni
in greco gli sembrassero d’accatto – spesso mi correggeva qualche
accento o gli spiriti che, quand’era in vena di salire in cattedra,
sapeva classicamente aspirare – oggi posso tranquillamente dire che non
basta chiamare l’uno o l’altro protoiereo o protosincello, e mettere in scena, per una sceneggiata televisiva, un porta bastone al pontificale, per definirsi bizantini.
La liturgia bizantina comporta una teologia, che, partendo dalle implicazioni del Filioque
a tutto il resto, nessuno dei nostri conosce, o se conosce per sentito
dire, nessuno più frequenta. In ogni caso (se li abbiamo) abbiamo dei
laureati, dei professori. Non dei santi. Negli atenei, nei seminari non
senti il profumo della santità. Abbiamo (se l’abbiamo) una teologia
intellettualistica concettuale speculativa, se proprio vogliamo una omoíosis tô theô
pitagorica, per antico vizio intellettuale occidentale culminante
nell’hegelismo, o in quella protestante. Non abbiamo una teologia
empirica – quella dei santi appunto (beaucoup d’esprit de géométrie, pas d’esprit de finesse;
molto “dio tappabuchi” - come lo chiamerebbe Bonoefer – molto “dio dei
filosofi” come lo chiama Weischedel, poco Dio di Abramo, Isacco e
Giacobbe).
Qui verrebbe voglia di citare Nietzsche (dal quale un aspirante bizantino avrebbe più da imparare che dalla scolastica): … nessuno sa più arricchire la propria persona e tutti invece si mascherano da uomini colti, da scienziati, da poeti, da politici. Da storici, aggiungo io, per contemplare un passato mai esistito (cfr Mandalà : Mundus vult decipi)
ricostruito con enfatica retorica, e lì sedarsi, per esercitare
un’ipocondriaca pigrizia. Li avete mai visti invasati da una qualche
grazia? Da una Schwärmerei, come dicono a Salisburgo? Hóti gleúkous memestoménoi eisí – quia musto pleni sunt.
Sì, a Lungro si beve altro vino, non quello della grazia – per il resto
buoni borghesi, magari massoni, giusto per farsi un solletico. Sempre
attenti a non suscitare i risentimenti dei fratelli maggiori, i latini
(era questa la preoccupazione (che passava per umiltà), a dire di papas
Matrangolo, del Vescovo Mele).
Siamo stati
educati nel catechismo di Pio X – a cui papas Matrangolo anelava,
perché pare che a quello anelasse anche Andreotti – e d’altra parte che
catechismo tradusse in albanese a suo tempo mons. Fortino?
Con
quel catechismo abbiamo allevato filistei democristiani, bacchettoni
di CL, lefevriani vandeani, fascisti, cavalieri di Malta, maggiordomi
di sua santità, non santi.
Non sono qui a
difendere l’Ortodossia – non ne sarei degno e avrei troppe parole, per
non passare per un chiacchierone perditempo (mi maschero anch’io da
uomo colto ecc…)
Tuttavia, mettiamola così: enoiksen ho Theo to stoma tes onou kai legei - aperuit Deus os asinae et locuta est. Parlo perché mi sento non un autore del mio dire ma un autorizzato. Dallo Spirito che ora invoco: Basileus ouranie …o thisavros ton agathon … elthe - Veni creator Spiritus.
In
ogni caso le cose che dico, da quell’asino, “taban” di Acquaformosa,
che sono, le dico col cuore, coll’intelligenza del cuore, che non
sottosta alle proprietà e alle regole del logos discorsivo
razionale, della ragione raziocinante che detta solo le sue ragioni e
non si lascia andare all’ “ubriacatura” (méthê) dello Spirito. Le dico
col logos esistenziale, sapienziale, del noûs pneumatikós che non sa niente della dianoia,
dei ragionamenti a fil di logica (anche se la studio da una vita - e
proprio per questo ne conosco la miseria). Le mie ubriacature le
conosce, o finge di conoscerle, molto bene papas Tamburi.
Tutta
la teologia è raziocinante, tanto da proclamare la “morte di Dio” e non
poteva non arrivare a tanto. Ho detto a suo tempo dei teologi “della
morte di Dio” nel mio libretto sulla mariologia di papas Matrangolo dove
criticavo l’inconsistenza delle posizioni razionaliste di costoro.
Posso aggiungere che va bene: basta con il “dio tappabuchi” di Bonoefer e
di tutti suoi discepoli da Hamilton ad Altizer a van Buren a Cox (tutti
figli di Agostino e di Tommaso, come papas Matrangolo uscito ateo
dall’Angelicum), i quali mettono al centro della loro via di fede
Cristo, anzi “Il nostro Signore Gesù Cristo”. Ma non è anche Cristo un
tappabuchi che viene a coprire il vuoto drammatico lasciato dal
razionalissimoNichilismo della morte di Dio? Ma in ogni caso come si può
rimuovere Dio al seguito di Cristo, il quale dice chi vede me vede il
Padre? Come si può avere il “Nostro Signore Gesù” senza “Dio”? non
devono essere insieme scalzati da un pensiero maturo? O non esiste
pensiero maturo? O non è questo pensiero maturo una maschera? Allora
come fa il vostro Mancuso, non si può smontare il motore e conservare la
carrozzeria. Per farci cosa? Una nuova casa? Ma un rabbino di Chatwin
dice sualla scorta di Isaia e Osea che ogni casa è casa di gentile – Dio
incontra nel deserto nelle mobili tende. Allora a che una carrozzeria,
una casa? Per ripararsi in caso di pioggia? E che cosa piove? Il fatto
che morto Dio, muore anche Cristo? Allora basta con tutto, non c’è
riparo e con l’intuizione del poeta possiamo dire: Ognuno sta solo sul
cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera.
Ma
siamo nell’età dello Spirito – nessuno se n’è accorto, per non smontare
la carrozzeria: la cosiddetta Chiesa? – in cui Dio non sarà adorato né a
Roma né a Costantinopoli, tanto meno nelle università, ma in Spirito e
“aletheia”.
Ma non so più andare avanti … e allora: Basileu ouranie, elthè kai skenoson en en emin kai katharison emas …
Per dire: quando canto l’ “O Monoghenís, o l’ “En Iordani, vaptizomenou sou Kyrie”, o l’ “Alala ta chili”, o l’ “O Angelos evoa”, o il “Ton nymphona sou vlepo”, o ancora il “Fos ilarón”, zëmëra më bëfet lemeridhe,
il cuore s’intenerisce, si fa un grumo di stupefazione, perché son
puro senza preoccupazioni sovrastrutturali illuministiche, che sono merimnai
che vanno lasciate fuori della porta – un mio maestro di meditazione,
prima d’incominciare la seduta ci raccomandava di lasciate fuori della
porta non solo le scarpe ma anche la ragione – qualcosa avrò imparato.
Se avessi preoccupazioni razionalistiche mi sentirei ridicolo, a pensare
da bambino mentre sono cresciuto.
Vorrei che le
mie non passassero per romanticherie di un vecchio pronto alle
tenerezze, che si commuove al pensiero del buon tempo andato, semmai
come un intimo sentire, un innermost flowering (come diceva un mio maestro), che nessuna parola può descrivere e nessuna ragione può giustificare: si tratta di un “de se nunc”, di un’intima esperienza del qui e ora che non si può razionalizzare, di cui non devo “reddere rationem”. Esprit de finesse. Potrei dire: vieni e guarda; vieni e prova.
Che Lungro, allora, si decida.
La
retorica dei due polmoni mi sembra un luogo comune, uno stereotipo
ormai fuori luogo, se i suoi sacerdoti e i suoi vescovi, sono cresciuti
dentro il pensiero occidentale e di questo si sono nutriti. Dunque non
respirano essi col polmone bizantino. Dirsi in questo contesto bizantini
è un abuso di attribuzione, un’intemperantia in adiecto.
La
Chiesa continua – sia quella di Roma, sia quella di Lungro (è un caso
che l’altare della Cattedrale di Lungro guardi ad occidente?) - a
respirare con un solo polmone e a battere una sola ala, perché così
vuole ogni imperium, semper magnum latrocimium, dell’integrazione, del mondo tutto organizzato secondo un unico disegno.
L’ ut unum sint bisognerebbe declinarlo sempre nel senso pentecostale: ognuno capiva nelle sua lingua e cioè secondo la propria cultura, come merismoi tou Aghiu Peumatos, come particole dello Spirito – assistite tutte dallo Spirito.
Ripeto non bastano vestimenti e lingua greca, quando c’è; ci vuole il pensiero, un nous peumatikos bizantino, e questo non c’è. Ci sono troppi interessi istituzionali che prevalgono sull’agape, che ami il “nemico”, ami il “diverso”.
Non
disse per caso uno, che contava, a un altro, che poco contava e che
aveva tendenze ortodosse: non puoi sputare nel piatto in cui mangi? Che
era un modo di dare una pietra a chi chiedeva pane.
Appunto, prima di tutto si fa salvo il mangiare. Che è una pietra tombale sul nostro cuore? Bizantino? Forse.
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