sabato 16 luglio 2011

L'Espresso blog


Il bolognese Morini insiste: la Chiesa ritorni al primo millennio

teodora

Caro Sandro Magister,
ai tre commenti di Francesco Arzillo, di padre Giovanni Cavalcoli e del professor Martin Rhonheimer che hanno fatto seguito al mio intervento del 21 giugno su www.chiesa, questa mia non vuole essere una replica puntuale, non solo per ragioni di spazio e per un opportuno senso della misura, ma soprattutto perché tutti e tre gli interventi mi sono sembrati pacati nel tono, anche quando registrano il dissenso, e ugualmente preoccupati di quella continuità con la tradizione che hanno ben percepito trasparire anche dal mio scritto.
Il problema semmai non è che cosa si intenda per tradizione ma se ci sia stato un momento in cui in Occidente è successo qualcosa per cui questo flusso vitale, che non si è mai interrotto – lungi da me il mettere in dubbio questa fedeltà della mia Chiesa alla tradizione! – si è per così dire intorbidato.
A mio parere ciò è avvenuto in modo rilevante proprio allo scadere del primo millennio, donde la mia individuazione di un criterio ermeneutico del Concilio Vaticano II precisamente nel ritorno all’esperienza comune della Chiesa indivisa.
Anche l’Ortodossia sarebbe ugualmente bisognosa di una tale “riforma” della sua vita ecclesiale – anche se in misura sensibilmente minore rispetto all’Occidente cattolico-romano –, sempre seguendo il medesimo criterio. Anzi, ha già incominciato a farlo (basti pensare al “ritorno ai Padri” avviato dalla teologia russa dell’emigrazione) e qualora questo ritorno alla propria tradizione arrivasse anche alle sorgenti dell’ecclesiologia ortodossa – spogliandola degli elementi spuri accumulatisi in secoli di polemica – allora persino il tremendo problema del primato romano sarebbe forse suscettibile di soluzioni oggi ancora inimmaginabili.
Quanta strada sia ancora da fare in questo ambito nella Chiesa cattolica – sempre in quella interpretazione “accrescitiva” del Concilio, alla quale ho fatto riferimento – lo ha dimostrato nei giorni scorsi la preconizzata successione sulla cattedra episcopale milanese: senza minimamente eccepire sulla sostanza della scelta – data l’elevatissima personalità dell’eletto – il metodo mi ha lasciato interdetto. Trasferire un vescovo da una grande Chiesa che vanta radici apostoliche (Aquileia-Grado-Venezia) a un’altra grande Chiesa, che vanta, accanto ad un grande presente, un non meno grande passato (basti pensare alla tradizione ambrosiana) richiama troppo da vicino il trasferimento di un funzionario, che ha ben meritato, da una prefettura ad un’altra più prestigiosa e impegnativa. L’episodio mi è sembrato il sintomo di un forte scompenso ecclesiologico.
Francesco Arzillo dubita che questo ritorno “al primo millennio” sia stato l’intento riformatore dell’ultimo Concilio. Può darsi che non fosse questa l’intenzione, neanche della cosiddetta “maggioranza conciliare”. Nondimeno i casi da me citati – assunti a campione dall’ecclesiologia e dalla liturgia del Vaticano II – mi hanno convinto che questo è stato lo spirito del Concilio – direi quasi la sua provvidenzialità – e questa dovrebbe esserne la “recezione creativa e responsabile” (cito sempre, anche se ad altro proposito, Alberto Melloni).
Arzillo è, tra i miei recensori, colui con il quale mi sento in più forte sintonia – per il suo tono gioiosamente ecumenico – e ho apprezzato molto la citazione dell’ufficiatura italo-greca di san Francesco, che ho avuto l’onore di presentare due anni fa, presso l’Antonianum di Roma, insieme ad altri due colleghi più qualificati di me, nella recente e bella edizione di Anna Gaspari. Mi permetto di discutere solo le riserve da lui espresse in ordine alla continuità del palamismo rispetto alla grande teologia trinitaria orientale del IV secolo.
Anche se l’Ortodossia non è tutta “palamitica”, nondimeno questa teologia è – dai grandi concili del XV secolo – dottrina ufficiale della Chiesa ortodossa, senza che nemmeno il Concilio di unione fiorentino l’abbia smentita (e l’ufficiatura di san Gregorio Palamas è stata inserita da papa Paolo VI, sia pure come facoltativa, nei libri liturgici dei cattolici greci di rito bizantino). Il palamismo è l’esempio di quella evoluzione creativa – inaspettata forse in un contesto teologico, come quello orientale, ingiustamente accusato di “fissismo” – che ha saputo sviluppare, in continuità con la tradizione, intuizioni fondamentali dei Padri Cappadoci e di san Massimo il Confessore. Anzi, se è difficilmente assimilabile, da parte della speculazione teologica occidentale, la caratteristica distinzione in Dio di una essenza inconoscibile e di energie incerate ma partecipabili, tuttavia io credo che la rivendicazione di Palamas che è possibile, anzi è essenziale per la deificazione dell’uomo, conoscere Dio rappresenti l’apporto fondamentale di questo grande pensatore alla teologia cristiana “in toto”, senza distinzioni tra Est ed Ovest.
Dell’intervento di padre Cavalcoli ho apprezzato soprattutto il richiamo alla distinzione congariana fra la Tradizione e le tradizioni. Com’è provvidenziale una pluralità di teologie nella Chiesa (altra acquisizione del Concilio), di conseguenza esiste, con la medesima positività, una pluralità di tradizioni, tutte necessariamente diramantesi dalla Tradizione apostolica. Credo tuttavia che nessuna di esse sia omologabile alla Grande Tradizione, cioè a quella della Chiesa indivisa, vale a dire proprio quella del primo millennio.
Mi permetto solo di esprimere un dissenso nei confronti di padre Cavalcoli in merito – come ci poteva aspettare – a quanto egli scrive sul “Filioque”. La dottrina, relativa a questa formula, non mi pare assolutamente desumibile dalla Rivelazione. Certamente il Nuovo Testamento presenta ripetutamente il Figlio come agente dell’effusione dello Spirito, dai numerosi passi giovannei nel grande discorso dei capp. 13-16 (14, 16.26; 15, 26; 16, 7) sino alla grande Pentecoste giovannea di 20, 22, dove il Figlio – che aveva emesso lo Spirito sulla croce – lo sparge nel mondo con il suo soffio, alitando sui discepoli. Ma in tutti questi casi si tratta appunto dell’invio dello Spirito nel mondo, di quella fase cioè della storia della salvezza definita “economia”. Quando invece si tratta della sua relazione d’origine, cioè della “teologia”, la speculazione cioè che osa scrutare la vita intima di Dio, la stessa Rivelazione evangelica è esplicita nel postulare l’origine dello Spirito dal Padre solo (Gv 15, 26).
Più duro nella sostanza, anche se ugualmente cortese e rispettoso nella forma, mi è parso l’intervento di padre Rhonheimer, ma le sue puntuali argomentazioni non le trovo inconciliabili con il mio pensiero. Egli privilegia, uscendo da una dialettica contrapposizione tra ermeneutica della rottura ed ermeneutica della continuità, il concetto di “riforma” come criterio interpretativo del Concilio. La riforma però presuppone un modello a cui ispirarsi – e questo io credo di averlo identificato, nonostante su questa identificazione nessuno dei miei interlocutori sia d’accordo –; se questo modello non è chiaro e plausibile, la riforma fallisce.
Sperando di non urtare la sensibilità di nessuno, mi viene in mente quel poderoso movimento che ha talmente enfatizzato il concetto di riforma, da autodenominarsi proprio come la Riforma (“protestante”). Qual era il modello di questa “riforma”? La “ecclesiae primitivae forma”, come ho insinuato nel mio primo intervento? Proprio in questi giorni abbiamo avuto sotto gli occhi un esempio sconcertante: il pastore che ha celebrato nozze omosessuali. Proprio il protestantesimo (che talvolta assume l’aspetto di un “cristianesimo mondanizzato”, come severamente lo ha definito il teologo ortodosso francofono Olivier Clément), il movimento cioè che nella Chiesa ha formalizzato come dottrina qualificante la sua stessa esistenza il principio della “sola scriptura”, sembra avere dimenticato l’inequivocabile e inappellabile condanna scritturistica dell’omosessualità, dalle prescrizioni veterotestamentarie (cito solo Levitico 18, 22) al celebre passo di s. Paolo (Rom 1, 26-27), proprio l’apostolo più caro ai Riformati.
Su di un aspetto mi permetto garbatamente di dissentire da padre Rhonheimer, cioè nel suo riferimento al “cesaropapismo” orientale, o comunque imperiale. Nonostante le apparenze, si tratta di una categoria estranea all’Ortodossia. Il termine è stato coniato dalla storiografia per definire la situazione in cui l’imperatore fa il papa (come il suo contrario, la teocrazia, vuol dire che i sacerdoti fanno i politici). Nell’Ortodossia invece i due “poteri” devono agire in sinfonia: l’imperatore ha competenze ecclesiastiche (che gli vengono dall’essere l’Unto del Signore), ma nelle faccende dogmatiche la competenza esclusiva è dei vescovi. I due campi sono accuratamente delimitati: “cesaropapisti” sono stati gli imperatori eretici, come, ad esempio, i monoteliti e gli iconoclasti.
Non è vero, a mio parere, quanto affermava l’ultimo bozza di documento – poi decaduta – del dialogo teologico cattolico-ortodosso: che cioè, nei rapporti tra le due Chiese proprio nel primo millennio, l’”idelogia dell’impero romano” abbia rappresentato un fattore non teologico. Come ho cercato di dimostrare in una relazione tenuta a Varese nello scorso settembre, la “basileia” ha adempiuto non solo una funzione storica, ma ha avuto anche un compito teologico, se non altro nel conferire piena legittimità ai sette concili fondativi della Chiesa universale, convocandoli, presiedendoli e dando loro vigore normativo. Forse per questo, esaurita la sua funzione “ecclesiastica”, essa è provvidenzialmente venuta meno.
Enrico Morini
Bologna, 15 luglio 2011

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