Ogni
straniero che viene in un altro paese porta con sé il proprio mondo e
deve accomodarsi nel mondo d’altri. Il carattere italiano, devo dire, è
più compatibile di altri, ma i piccoli “scontri di civiltà” sono a volte
inevitabili...
Quale Ortodossia in Italia?
di Vladimir Zelinskij
Meno di un secolo fa i confini fra le religioni potevano ancora
coincidere con quelli geografici. Il secolo XX, con le sue rivoluzioni,
le guerre e le pulizie ideologiche, ha mescolato le carte europee -
anche quelle confessionali. Masse di profughi ortodossi sono venuti in
Occidente dall’Asia Minore e, soprattutto, dalla Russia ed hanno messo
radici nei paesi che li hanno accolti come immigrati. In Europa siamo
soliti pensare ancora all’Ortodossia in termini etnografici, come ad una
confessione destinata a restare per sempre “orientale”, senza quasi
accorgerci che già da tempo esiste un’importante presenza ortodossa
francese, inglese, tedesca, senza contare quella americana (che pure
annovera una sua Chiesa autocefala). Mentre direi che l’Ortodossia
italiana sia entrata già in una fase di fermentazione.
Il crollo del comunismo negli anni ’90 del secolo scorso ha portato in
Europa occidentale una nuova grande ondata di immigrati provenienti da
paesi di tradizione ortodossa. Numericamente sono più di un milione ed
alcuni affermano che in certe zone l’Ortodossia sia diventata la seconda
presenza religiosa in Italia, anche se in questo campo è difficile
esprimere dei dati concreti poiché si tratta di un’emigrazione a volte
sommersa nella clandestinità. In ogni caso, il ruolo sociale delle
comunità ortodosse è diventato più che importante. Non solo nelle
fabbriche e nei campi, ma anche presso il focolare domestico
s’incontrano e, a volte, si scontrano due modi di vivere, due mentalità;
addirittura anche due civiltà che non sono così lontane l’una
dall’altra, ma che hanno le proprie tradizioni e abitudini diverse.
Oltre ai collaboratori domestici arrivano anche gli uomini d’affari, i
quali spesso mandano i propri figli a studiare nelle più prestigiose
università dell’Occidente. Si moltiplicano i matrimoni misti. Per non
parlare delle decine e decine di migliaia di pellegrini che ogni anno
passano per Roma e per Bari (città in cui sono conservate le reliquie di
san Nicola, il santo più venerato dai russi). Si hanno, infine, le
crescenti conversioni all’Ortodossia da parte di italiani. La presenza
reale dell’Europa orientale sta diventando sempre più visibile, ma il
suo ruolo culturale non è ancora stato scoperto e ripensato. Ma col
passare degli anni di sicuro dovremo confrontarci con questa esistenza,
nell’ambito confessionale, culturale e, forse, anche politico.
Quando parliamo della presenza ortodossa in Occidente non dobbiamo
dimenticare che la maggior parte delle Chiese dell’Est (tranne quella
greca) sono appena giunte ai loro primi vent’anni di libertà. Gli
ortodossi si confrontano con dei popoli democratici arrivando da
un’esperienza d’oppressione e di persecuzione. Il loro martirio subito
lungo il XX secolo rimane un argomento ancora quasi sconosciuto in
Europa.
Questa storia non può non lasciare tracce nella mentalità dei cristiani
dell’Est. Gli ortodossi – e non solo loro – entrano in Europa con tante
ferite celate. Una delle ferite, forse invisibile, è la perdita della
propria identità religiosa, della radice della fede e di qualsiasi
pratica religiosa. Ma un piccolo miracolo è sempre possibile, anzi, sta
diventando quotidiano: scoprono la vita religiosa, varcano per la prima
volta la soglia delle nostre chiese qui, in Italia, intorno ai 50 anni e
si pentono per la propria precedente incredulità. L’emigrazione, con
l’inevitabile nostalgia che l’accompagna, è diventata un grande
laboratorio per la conversione di massa. Si scopre Dio nella propria
esistenza, anzi si condivide questa scoperta con gli altri.
Da un punto di vista sociologico si tratta della fascia popolare più
umile e, spesso, umiliata: le cosiddette colf e badanti. Un caso tipico:
immaginiamo un italiano (o un’italiana) con gli 80 anni già ben
suonati, malato/a, solo/a, perché i figli (con propri figli già adulti),
vivono separatamente, facendo delle breve visite alla mamma (o al
papà). Cosa fare con il genitore infermo? Mandarlo/a nella casa di
riposo costa tanto ed è poco umano. Soluzione migliore sarebbe dare
vitto ed alloggio alla badante dell’Est per il suo lavoro di 24 ore su
24, (con qualche ora di riposo, forse, una volta alla settimana). E
queste due persone, una con 87 anni, l'altra di 52 anni, con alle spalle
due vite molto diverse, ognuna con il suo caratterino, con i propri
vizi e le proprie virtù accumulati durante tutta la vita, trascorrono
gli ultimi giorni (mesi, anni) insieme. Tutte le infermità del corpo
umano in declino sono ormai affidate a questa straniera che ha appena
imparato un italiano molto primitivo (ma a volte la nostra persona
anziana parla solo il dialetto), con un marito disoccupato e due figli
in Ucraina che vogliono studiare all’Università… E questa donna sogna
una cosa sola: il permesso di soggiorno. Ma al di là dei problemi
sociali, fra la persona inferma e la sua domestica s’instaura
un’amicizia e, a volte, diventano più intime tra di loro che con le
proprie famiglie: le famiglie sono lontane, ma esse sono unite l’una
all’altra in modo strettissimo. A volte possono diventare quasi nemiche.
Ma più spesso questo legame cresce, umanamente e spiritualmente. Nel
punto finale della vita di una di loro avviene un autentico incontro
religioso. Il vero ecumenismo può trovare i suoi focolari segreti - non
come quello delle commissioni teologiche, ma proprio nel crocevia della
morte dell’una e della povertà dell’altra -, quando, ad esempio, una
parrocchiana ortodossa mi chiede di pregare per la sua padrona cattolica
malata o di commemorare quella che è già morta.
Ogni straniero che viene in un altro paese porta con sé il proprio mondo
e deve accomodarsi nel mondo d’altri. Il carattere italiano, devo dire,
è più compatibile di altri, ma i piccoli “scontri di civiltà” sono a
volte inevitabili. Per esempio, alcune famiglie italiane non capiscono
perché la donna che li serve debba andare in chiesa solo la domenica
mattina e non in un altro tempo. Altri, sembra strano, ma è vero, sono
irritati per il digiuno osservato dalla loro badante. Ma queste sono,
naturalmente, piccole cose; conflitti religiosi fra gli italiani e la
gente dell’Est europeo non ci sono. Le icone ortodosse poste in qualche
angolo, di solito, piacciono a tutti. Il problema che si pone non è
questo della compatibilità, ma quello dell’identità, quello di essere
ortodossi in Italia, in Occidente.
Esiste un altro problema all’interno del mondo ortodosso che
contribuisce anche alla inconsistenza culturale: la divisione secondo il
principio nazionale. Nei paesi tradizionalmente ortodossi questo
problema non era visibile poiché gli ortodossi degli altri paesi erano
lontani, separati dalla lingua e dalla frontiera. Ma all’estero questa
divisione è venuta fuori come sfida alla coscienza ortodossa. Basta dire
che sul territorio italiano sono presenti almeno 7 Patriarcati
canonici, che si trovano in comunione eucaristica. Ed inoltre, più o
meno lo stesse numero di Chiese ortodosse non-canoniche, cioè non
riconosciute dalla pienezza dell’Ortodossia. In teoria tutti i capi,
(vescovi, sacerdoti, teologi) si rendono conto che da un punto di vista
ecclesiologico, senza parlare di buon senso, le Chiese, almeno quelle
canoniche, debbano trovare un accordo e creare una Chiesa comune, la
Chiesa autocefala italiana (o europea). Ma, in pratica, nessuno lo vuole
e si preferisce rimanere nella propria casa nazionale.
L’Europa non è soltanto uno spazio economico, ma anche il continente
dell’incontro spirituale dove ogni parte può portare i propri doni. Per
gli europei la crescente presenza ortodossa potrebbe contribuire alla
riscoperta della propria ed antica tradizione cristiana che era comune -
un fatto conosciuto e sempre dimenticato - per l’Oriente e l’Occidente
per i primi mille anni. Per gli ortodossi l’Europa cristiana potrebbe
diventare una scuola per la liberazione della grande ricchezza
spirituale propria dell’Ortodossia, per la trasformazione del “deposito”
spirituale nella giustizia sociale, politica, quotidiana. Teologicamente
parlando, essere ortodosso in Occidente vuol dire sentire sulla pelle e
nello spirito la differente temperatura spirituale e confessionale di
due mondi religiosi che non sempre confluiscono l'uno nell'altro. Vuol
dire scoprire di nuovo, non solo nelle ricerche, ma nel profondo del
cuore, quello che si chiama “il dramma della divisione”. La drammaticità
di questa divisione consiste nel fatto che gli attori stessi, nella
gran maggioranza, in sostanza non sentono alcuna divisione; le loro
verità, a dispetto del bisogno e della nostalgia reciproci, stanno
rinchiuse nelle proprie corazze protettive e ciascuno conserva la
propria ricchezza e la propria memoria. E tuttavia, la differenza di
misura ed il contrasto nel modo di interpretare e di vivere queste
verità in “Occidente” e in “Oriente” confermano appunto che prima o poi
questi due mondi dovranno intersecarsi come i due bracci della croce del
Signore. Alla fine dei conti non potranno fare a meno di incontrarsi
e di ritrovarsi nel mistero comune, nell'annuncio comune e nel calice
condiviso.
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