“Gli albanesi, andavano infettando il popolo con le stravaganti opinioni, e nutrivano nell’animo il veleno contro     l’autorità del papa…, che avevano del disprezzo per le censure, e indulgenza, che negavano le pene del purgatorio, somministravano l’Eucarestia ai bambini…” (dal     Romanus Pontifex - bolla papale di Pio IV – 1564) 
di Pietro De Leo 
     La  breve relazione che terrò sul tema affidatomi, contiene alcuni aspetti  biografici ed altri che connotano la mia esperienza di     studi fatti su questa particolare etnia, quale è quella degli  Albanesi calabresi. Ero ancora ragazzo quando nella città di Lecce mi  aggiravo nei pressi di Santa Croce dove c’è tuttora una chiesa     greca, l’unica parrocchia italo-albanese, nel quartiere omonimo, che  non si apriva mai nello stesso giorno in cui si officiava nelle chiese  latine, né sapevamo quando questo luogo di culto degli     Albanesi veniva aperto. Appena si sentivano suonare le campane,  tutti noi, ancora ragazzi, ci recavamo nei pressi di questa chiesa,  incuriositi dalla diversità di questo luogo di culto, dove non     c’erario altari privilegiati, né posti a sedere, per cui bisognava  rimanere in piedi. Il Papas veniva presso questa comunità  quando credeva, voleva o doveva, e noi eravamo curiosi di     vedere e di sentire questa Messa che era diversissima da quella che  noi ascoltavamo almeno una volta la settimana, ogni domenica. E la cosa  ci incuriosiva davvero tanto. 
           Ciò che notai sempre e subito era la diversità di approccio tra la  religiosità greca e quella latina,     erano però intuizioni che non si potevano capire a sette o otto anni  e che invece, un giorno mentre, giovane liceale, andavo da Lecce a  Bari, cominciai a capire meglio quando, nel vagone del     treno dove io e il mio amico alloggiavamo, salirono a Brindisi  alcuni preti ortodossi. 
          Nel nostro scompartimento c’erano alcune suore che recitavano il rosario e, cosa che non dimenticherò     mai — era il 2 agosto — dicevano che, non potendo partecipare quel giorno alla Messa, non avrebbero potuto lucrare l’Indulgenza. 
          Appena videro questi Papas, col cappello inconfondibile, che entravano nello scompartimento, si     alzarono come se avessero visto il diavolo e se ne andarono. 
         Qualcosa non mi convinceva, e proprio da questo episodio nasceva la  curiosità, divenuta in seguito anche riflessione     culturale, di avviare uno studio approfondito sugli Albanesi di  Lecce, dove erano già presenti nel secolo XVI, sin dagli inizi del  Cinquecento. 
          Avevo già pubblicato uno Stato delle Anime e mi ero imbattuto in quasi seimila Albanesi che     costituivano un terzo della popolazione; vedevo però che nella mia città la loro lingua non si parlava più. 
          Ma, ecco il fatto curioso che era emerso: c’era stato un Pietro Antonio Sanseverino, Principe di     Bisignano, che aveva sposato una Castriota Scanderbeg, duchessa di San Pietro in Galatina e che si era interessato a questi reietti o depravati come si diceva nei Capitoli della     città di Lecce: si esortava a portarli via perché erano un vero disastro! 
          Li avevano condotti qui in Calabria, in luoghi impervi, dove appunto vigeva la cosiddetta «legge della     montagna»: non era consentito loro uscire, specie nei giorni di fiera, perché erano considerati e chiamati «ladroni e mascalzoni». 
          Parlavano una lingua diversa, tant’è che sono stati considerati come diversi e tali si qualificarono     essi stessi. 
     * * * 
     Nell’ottobre  del 1997 seguivo per conto della Regione Calabria i finanziamenti della  Legge sul Giubileo, e vedevo che tantissimi     paesi albanesi avevano fatto richiesta per i contributi economici  legati all’Anno Santo. E visto che, appena sono a Roma una visita fugace  alla Biblioteca Vaticana non manca mai, mi capitò     sottomano una lettera del cardinale Santoro del 24 gennaio 1577 al  vicario episcopale di Crotone, Girolamo Valente, il quale aveva  denunciato di aver scoperto tutti eretici i preti greci della     sua diocesi. 
          Tra le accuse abituali che venivano loro mosse, in primo luogo, vi era la denuncia della convinzione che     si dice essere propria di tutti gli Albanesi di Calabria, secondo cui non si devono osservare «iubilei 
     et indulgentiae» che manda il santissimo Padre,     ma solo quelli che manda il Patriarca di Costantinopoli. 
          Volli verificare la notizia e trovai che negli Statuti del 1596 della diocesi di Cassano redatti dal     vescovo Auderio, poi segretario del cardinale Borromeo, si legge testualmente nel capitolo De 
     indulgentiis: «Ubi mero de indulgentiis     agitur et iubileis, quondaim greci nullo pacto persuaderi possunt ut illa osservent» («Dove poi si tratta delle indulgenze e dei giubilei, non c’è per nulla verso che essi si possano     convincere di questo») 
           Naturalmente dobbiamo capire perché gli Albanesi da sempre hanno  osservato tale norma, nonostante tutti     i contraccolpi dell’episcopato latino che li voleva assolutamente  organizzare all’interno della propria Chiesa, e perché hanno sempre  resistito alla celebrazione del Giubileo. Uno dei motivi     fondamentali era il parametro diverso del computo del tempo; come  ben sapete, noi cristiani, tardivamente, solo dal quarto secolo,  iniziamo il computo in die a Nativitate Domini nostri Jesu     Christi, ovvero dalla nascita di Cristo. 
          La Chiesa greca, ha sempre calcolato gli anni ab origine mundi,  quindi l’anno della nascita di     Cristo éra il 5508, ed in Calabria in particolare, fino al 1620,  molte comunità hanno sempre osservato sia il computo dalla creazione,  sia quello greco, e iniziavano tranquillamente l’anno il     primo di settembre, secondo quanto avveniva nel mondo orientale e  nella Chiesa bizantina. 
          Parlare di Giubileo era dunque un’argomentazione. che andava al di fuori dei riferimenti     canonici e religiosi della Chiesa orientale che non concepisce in alcun modo il discorso sulle Indulgenze. 
          Eppure, la cosa mi stupiva perché ricordavo di aver letto nel sesto capitolo del terzo libro del     Rodotà[ii], quanto segue: «La  fede che hanno professata gli Albanesi è     quella stessa che è spuntata nell’emisfero della Macedonia nei primi  secoli della chiesa, per opera di San Paolo; fu dai loro primi  antenati, successivamente, tramandata ai tardi nipoti, i quali,     volgendo a lei avidi gli occhi e stendendo pure le mani, la  accolsero nei loro petti e la crebbero nei loro cuori serbandola  schietta e limpida qual fu la pura sorgente donde sgorgò senza mai     intorbidirla con mescolanza di fango e di creta che ne hanno dato  sinceri e sicuri contrassegni fino ai nostri giorni». 
          Quando poi mi soffermavo a leggere le memorie dei Valdesi di Calabria, che chiamavano «mescolanza di     fango e creta» le Indulgenze dei Romani Pontefici, i  quali le concedevano probabilmente anche in senso mercantile, allora  ecco che in un certo senso questa connotazione del rifiuto     del Giubileo e dell’Indulgenza, la trovavo molto adeguata agli schemi mentali e religiosi degli Albanesi stessi. 
           A tale proposito, numerosi sono gli interventi che i Pontefici Romani  soprattutto a partire dal Giubileo     del 1575 al Giubileo del 1650, hanno fatto sia nei riguardi dei  Grecanici sia nei riguardi degli Albanesi, minacciandoli di scomunica se  avessero ancora ritenuto di non dovere accettare la sacra     Indulgenza del Giubileo, che era in effetti molto lontana dalla loro spiritualità, dalla loro religiosità e dalla loro catechesi 
          Darò poi tutte le indicazioni che vengono portate in questo senso nei Registri pontifici; vero     che qualche Albanese è disposto ancora ad andare in pellegrinaggio verso la Terra Santa, ma non per acquistare l’Indulgenza bensì per visitare i luoghi della Redenzione. 
           Siamo in presenza di due mondi differenti e distinti che sono stati poi  in parte ricongiunti quando dopo     l’istituzione del Collegio Greco (prima quello di Roma e poi quello  di San Benedetto Ullano nella diocesi di Bisignano), con la sua  particolare attenzione e lungimiranza la Sede Apostolica ha     riconosciuto almeno parte di quelle identità religiose, costituendo  tra l’altro due eparchie o diocesi greche per gli italo-albanesi (prima  quella di Lungro in Calabria neI 1919, poi quella di     Piana degli Albanesi in Sicilia nel 1937). 
          Proprio quest’anno mi è capitato di andare al Collegio Greco di Roma e di incontrare il vescovo di Piana     degli Albanesi, al quale ho rivolto questa domanda: « Eccellenza, ma lei crede nel Giubileo? »; rispose: «Ben conoscendo la teologia ortodossa, non scriverò mai la parola     Giubileo nelle mie lettere pastorali». 
          Era la risposta che io avevo già dato ai sindaci che facevano pressione per avere i finanziamenti del     Giubileo, invitandoli ad una maggiore serietà nelle  richieste. Giustamente, di fronte alla mia esortazione il comune di  Guardia Piemontese, ritirò subito la sua richiesta in     merito. 
          Agli altri sindaci cercai di spiegare che era inutile richiedere finanziamenti in vista del Giubileo,     visto che le loro tradizioni sono tutt’altro che in sintonia con tali prospettive e pratiche religiose. 
 Il  sindaco di Bova mi disse: <
           A Bova difatti è stato finanziato il totale recupero della sinagoga.  Perciò credo che anche queste     situazioni, giubilari o non giubilari che siano, ci consentono di  approfondire quei piccoli segmenti socio-culturali che sono propri  dell’identità religiosa di un popolo, che vanno preservati     come tali e che non vanno invece soggetti a confusione. 
           Oggi esiste invece un pericolo reale: quello dell’omologazione degli  Albanesi alle tradizioni della     Chiesa e della cultura latina. Il pericolo è presente e per due  motivi: quello che ormai gli Albanesi finalmente non vivono più isolati;  la maggioranza di essi vive infatti in luoghi aperti che     non tutelano, come accadeva in passato, una etnia chiusa (ed è bene  che sia così); il secondo motivo è che per poter comunicare usano non il  proprio idioma, ma la lingua italiana. 
           Ed ancora, sussiste tra gli Albanesi la tendenza ad avere una sorta di  riverenza verso la Chiesa latina     pur avendo lottato fermamente in passato per preservare l’identità  del proprio rito; tale riverenza si apre oggi a tal punto che era stato  addirittura programmata l’istituzione di un santuario     con possibilità di lucrarvi le indulgenze. Per fortuna un illuminato  prelato come mons. Fortino osservò giustamente che la cosa era alquanto  impropria e dell’iniziativa programmata non se ne è     fatto più niente. 
           Da tutto ciò nasce la considerazione che occorre stare molto attenti:  lo studio del passato e quello     delle identità delle singole etnie, ci consente anche di porre dei  punti fermi, che non sono ottusità mentale, ma sono, a mio avviso, punti  solidi per preservare dall’omologazione queste etnie     che vanno invece e giustamente tutelate e salvaguardate 
          Il Giubileo allora non c’entra assolutamente con le tradizioni degli italo-albanesi ed avrebbe più senso     se le eparchie di Lungro o di Piana degli Albanesi si recassero a Roma non per il Giubileo, ma ad limina Apostolorum, come anticamente facevano i monaci greci; forse la cosa sarebbe     sicuramente più appropriata e il giusto senso sarebbe più evidente. 
           Il pellegrinaggio verso la tomba degli Apostoli aveva infatti questo  particolare significato: non per     ottenere l’indulgenza, ma per un forte senso di presenza fisica dei  Santi Pietro e Paolo in quel luogo che è stato santificato dalla  testimonianza altissima della loro fede nel martirio. 
NOTE 
[i]             Tratto dagli “Atti del convegno di studi” dedicato alle “Minoranze etniche e culturali nella Calabria             settentrionale fra il XV e il XIX secolo”, pagg. 23/27 – Presente nei Quaderni “il Palio” a cura di Luigi Falcone – Bisignano 19 giugno 2000;         
[ii] Rodotà, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, Roma, 1763.         
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