giovedì 31 gennaio 2013

Dal blog amico e fraterno della Parrocchia Ortodossa di Brindisi http://ortodossiapuglia.blogspot.it

Riflessioni e consigli di un monaco pellegrino


Riflessioni e consigli di un monaco pellegrino
Miei amati amici e fratelli in Cristo!
Dopo la supplica e il consiglio che mi avete fatto, prima di partire dall’Italia , dopo 3 settimane della mia permanenza con voi, desidero indirizzarVi un saluto cordiale e in breve, vorrei descriverVi con amore e sofferenza le mie impressioni di questo viaggio.
La prima cosa che risalta all’occhio è la povera partecipazione alle Sacre ufficiature delle domeniche e delle feste. La Chiesa (il Sacro Tempio) è figura e immagine dell’arca di Noè. Quanti sono entrati dentro, si sono salvati dal diluvio. Quanti sono rimasti fuori, si sono annegati! Anche oggi la società vive come al tempo di Noè! Nel mondo domina un diluvio. Per quanti non vengono in chiesa, c’è il pericolo che patiscano ciò che hanno patito gli uomini al tempo di Noè! Perché, fratello mio, non vieni? Non dice il Salmista: “Nelle assemblee benedite il Signore”?
Che cosa fai tra il sabato sera e la domenica mattina? Fai la doccia? Cucini? Fai lavori di casa? Mangi?  Fumi? Guardi la televisione? Porti il cane a passeggio o fai ginnastica? Sono preferibili queste cose anziché venire in chiesa? (Non si arriva in chiesa dopo l’inizio della Liturgia; la regola vuole che si venga dall’inizio del Mattutino. L’intera settimana ha 638 ore; non siamo capaci di consacrare 3 ore al Signore?! Soltanto se siamo gravemente ammalati, siamo giustificati dal non venire la domenica ma qualsiasi altra scusa è un peccato da confessare. Ho notato che neanche nelle grandi Feste (Natale, Epifania etc.) non si viene in chiesa. Scusate, ma siamo Cristiani Ortodossi o siamo qualcos’altro?)
E' molto semplice, al giorno d'oggi, raggiungere con l'automobile la chiesa più vicina a noi. Perchè non lo facciamo? Ci sforziamo di essere presenti almeno al vespro del sabato? Nel calendario ortodosso (in italiano) ogni domenica sono riportati l’epistola e il Vangelo; sarebbe bene leggere a casa i brani della domenica.
Non abbiamo forse un comandamento da Dio, in altre parole che un giorno la settimana dobbiamo riposare? Cioè che dobbiamo santificare quel giorno e dedicarlo al Signore. E dove potrai trovare la serenità che provi dentro di te quando ti trovi in chiesa? Non è che ci colpa il papàs? Non è che hai qualcosa in precedenza contro di lui? Non è che ti ha amareggiato? Si è comportato male con te o ti ha fatto qualche torto?...
Noi andiamo in chiesa per il papàs o per il Signore? Dal papàs aspetti la remissione dei peccati o da Dio? E cosa fai tu, per la remissione dei tuoi peccati? Se ti chiedono: “Sei, senza peccato?”, tu dici: “No”; dunque, cosa te ne fai dei peccati che accumuli? Quanti ne hai raccolti sino ad oggi? Moltissimi! La Sacra Scrittura dice che se anche la vita dell’uomo sulla terra fosse di un’ora sola, l’uomo è peccatore!
Gli anni passano….uomini di ogni età vanno via ogni giorno, cosa succederà se moriamo con molti peccati? Dove ci metterà il Signore? Non disse il Signore alle cinque vergini e agli altri che non avevano buone opere: “Non vi conosco, allontanatevi da me!”.
Se non ci metterà nel Paradiso, dove ci metterà? Non esiste altro che Inferno e Paradiso. Se non siamo degni nel Paradiso, sarebbe stato meglio non essere nati. Non disse il Signore a quelli di destra (gli eletti): “Venite, benedetti dal Padre mio, riceve in eredità il Regno dei Cieli preparato per voi” e agli altri quelli alla sua sinistra (i dannati): “Andate, maledetti, nel fuoco  esterno preparato per il diavolo…”
“Ma Signore” –dirà qualcuno- “dal momento che questo fuoco è preparato per i diavoli perché ci mandi lì?”  Ed egli risponderà: “Perché avete fatto le opere del diavolo. Non vi siete convertiti, avete avuto rancore gli uni verso gli altri, siete stati egoisti e superbi, avete giudicato e criticato dalla mattina alla sera, non avete perdonato, non vi siete confessati, non avete digiunato, non avete comunicato al mio Corpo e al mio Sangue come vi ho comandato di fare; quel comandamento che ogni Grande Giovedì Santo nella Mistica Cena io vi ripeto. Molte e molte altre cose fate che non sono in sintonia con i miei comandamenti. Dove vi metterò? con i Santi? Non vi sentirete bene, andrete via da soli dal Paradiso. Ma io sono buono e la mia misericordia vi inseguirà tutti i giorni della vostra vita. Vi aspetterò con pazienza. Cercherò di creare dei presupposti per la vostra salvezza, cercherò d’intervenire anche all’ultimo momento della vostra vita quando siete in pericolo di scivolare nell’abisso ma attenzione, che non sia troppo tardi! Convertitevi! Cambiate modo di vita, dopo la morte non c’è più possibilità di conversione. Nella Chiesa pregate e trascorrete il rimanente tempo della vostra vita in pace e in conversione. Tutte queste fate che diventino pratica.
Vi ho portato in questa vita per amore e perché lottiate per dimostrarmi che voi valete e che io vi regali il Paradiso. Voi con le vostre buone opere mi dimostrerete la vostra buona Fede e io vi concederò in grazia il Paradiso, per l’eternità, una volta per sempre. E quali sono le buone opere che io voglio da voi? Che mi amiate perché io ho versato il mio sangue per la vostra salvezza, che amiate il vostro prossimo come voi stessi perché il vostro prossimo, ogni prossimo vostro, è mio fratello e tutto ciò che farete a lui, lo fate a me. Perdonate tutto a tutti affinché anch’io perdoni voi. Voi stessi dite nel Padre nostro: “e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”! Se non fate questo, perché mi raccontate bugie?!
 Non giudicate per non essere giudicati? Perché non siete intelligenti? Non giudicare così così non sarai giudicato. Se giudicate severamente, anche Io vi giudicherò. Chi sei tu, che giudichi colui che mi appartiene?”.
 Queste e molte altre cose potrà dirci il Signore a noi fratelli miei. È molto misericordioso e benigno e aspetta il ritorno di ciascuno di noi. Non ci ha lasciato forse l’esempio eterno della parabola del figlio dissoluto? Si, abbiamo peccato. Siamo caduti nel fango ma facciamo nostre le parole del figlio dissoluto: “Ritornerò da mio padre”- questo significa metania- e “Gli dirò: ho peccato contro il cielo e contro la terra”; Questa è la confessione e appena fece questo: il Padre, cioè il nostro grande Dio, lo abbracciò e sgozzò il vitello grasso che non è che altro il nostro Signore Gesù Cristo che si è sacrificato per noi e si è offerto in cibo per noi.
Queste cose fratelli miei, sono state scritte per noi. Perché vogliamo ignorarle? La strada della salvezza è semplice: come uomini pecchiamo. I peccati sono la spazzatura della nostra anima e come la spazzatura la buttiamo per far sì che non puzzi, così, avviciniamoci al Sacramento della Confessione! E con la benedizione del nostro padre spirituale, comunichiamo al Corpo e al Sangue di Cristo. (Fratelli miei, non fate la Comunione se non vi siete prima confessati. Non avrete nessun guadagno. È solo un grande peccato). In questo modo ricevendo la remissione dei peccati, saremo altri uomini, nuovi di zecca! Fuggiranno dal nostro intimo tutte le cose che ci dividono: inimicizie, rancori, piccolezze, odi, giudizi gli uni contro gli altri e guerre stupide fra di noi. E, al loro posto, regnerà la pace di Cristo! Soltanto allora la nostra chiesa si riempirà perché chiesa significa “assemblea dei fedeli” che è il corpo del nostro Signore; soltanto allora gusteremo la pace tra di noi, la comprensione, l’aiuto e ogni cosa buona e bella che la nostra anima desidera. Dimostriamo di essere uomini logici, dimostriamo di avere il pensiero di Cristo e di seguire le sue orme perché per questo è venuto e questo ci ha insegnato: affinché seguissimo le sue orme. Questo auguro con tutta la mia anima prima a me stesso e poi a voi tutti miei cari e diletti fratelli. Amin.
Rallegratevi sempre nel Signore
Efstathios monaco

POST-SCRIPTUM
Fratelli miei,
un’ultima domanda: crediamo nella Risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo? L’Apostolo Paolo dice: “ Se non crediamo –cioè se speriamo solo da questa vita-siamo da rimpiangere più di tutti gli altri uomini!” perché perderemo sia questa vita che l’altra. Il nostro Signore Gesù disse dopo la Sua risurrezione che Egli sarebbe andato come precursore, primogenito dai morti, a prepararci un luogo. E lì ci aspetta. Una cosa sola è certa: qualche giorno dobbiamo partire da questo mondo di vanità per il quale il sapiente Salomone disse: “Vanità delle vanità, tutto è vanità!” e altri lo hanno chiamato: “valle di lacrime”. Questo conferma che qui non è la nostra Patria. L’apostolo Paolo dice: “Non cerchiamo qui una città ma aspettiamo la futura perché la nostra cittadinanza è nei cieli”.
Noi, fratelli, siamo qui solo “temporaneamente e momentaneamente”. Cerchiamo di provvedere per tempo con il passaporto e il biglietto affinché non ci sia negata alle porte del Paradiso l’entrata, le cui chiavi ce le ha l’apostolo Pietro. Il passaporto e il biglietto sono nient’altro che la metania (conversione di vita al Vangelo), la confessione dei peccati e la Santa Comunione.
Dalle parole del nostro Signore Gesù Cristo:
-         “Io sono la Via, la Verità e la Vita”;
-         “Io sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita”;
-         “Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo per le vostre anime. Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero”;
-         “A che giova che l’uomo guadagni tutto il mondo se poi perde la propria anima?”;
-         “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la Sua croce e mi segua”;
-         “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e Io in lui, e io lo resusciterò nell’ultimo giorno…e avrà la vita eterna”;
-          “Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvato; chi non crederà sarà condannato”;
-         “Senza di me non potete far nulla”;
-         “Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni con gli altri”;
-         “Nel mondo avrete afflizioni ma abbiate coraggio, Io ho vinto il mondo!”;

“Beati coloro che, pur non vedendo, crederanno”

Intronizzato il metropolita ortodosso di America




Il 27 gennaio 2013 nella cattedrale di San Nicola a Washington ha avuto luogo la cerimonia di intronizzazione di Sua Beatitudine l’Arcivescovo Tikhon di Washington, Metropolita di tutta l’America e il Canada, che il 13 Novembre 2012 è stato eletto sesto Primate della Chiesa Ortodossa in America dal XVII Concilio Panamericano, svoltosi nella cittò di Parma dello stato americano dell’Ohio.
Durante la Divina Liturgia che ha accompagnato il rito di intronizzazione, col metropolita Tikhon hanno concelebrato i vescovi della Chiesa Ortodossa in America, e il vescovo Nicholas di Brooklyn (Patriarcato di Antiochia), l’arcivescovo Justinian di Naro-Fominsk, amministratore delle Parrocchie Patriarcali negli Stati Uniti, il vescovo Giorgio di Mayfield (Chiesa ortodossa russa fuori frontiera), e il metropolita Demetrio di Batumi e Laz (Chiesa Ortodossa Georgiana).
Dopo la Divina Liturgia, l’arcivescovo Justinian ha trasmesso a Sua Beatitudine il metropolita Tikhon i saluti e le congratulazioni del Patriarca di Mosca e tutta la Rus’ Kirill. Dopo essersi riferito agli stretti legami spirituali tra la Chiesa Ortodossa in America e il Patriarcato di Mosca che nel 1970 le concedette l’autocefalia, l’arcivescovo Justinian ha detto: “Oggi tutta la Chiesa ortodossa russa prega e condivide la gioia della sua amata sorella nel Signore, la Chiesa ortodossa in America”.
L’arcivescovo Justinian ha donato al Primate della Chiesa Ortodossa in America un’icona di San Tikhon di Zadonsk e una parte delle sue reliquie. Il nome monastico di questo santo era portato da San Tikhon, Patriarca di Mosca, il santo patrono del metropolita Tikhon di tutta l’America e il Canada.
In risposta, il metropolita Tikhon ha espresso profonda gratitudine a Sua Santità il Patriarca Kirill e a tutta la Chiesa ortodossa russa, dicendo: “Trasmettete a Sua Santità il nostro amore reciproco, il nostro rispetto e il nostro impegno a mantenere quelle relazioni speciali che durano tra di noi da molti anni.”

Dal sito della Chiesa Ortodossa Russa

Messaggio del metropolita Hilarion alla mostra russa ad Auschwitz


Il 27 gennaio 2013, in occasione della ricorrenza del 68° anniversario della liberazione del campo di sterminio “Auschwitz-Birkenau” da parte delle truppe sovietiche, è stata aperta ad Oswiecim (Auschwitz, Polonia), la nuova mostra russa “Tragedia, coraggio, liberazione”.  Dal 1961 la mostra è allestita nel 14°  blocco del campo di concentramento e ora, dopo anni di lavori di restauro, è stata riaperta ai visitatori. Il Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, metropolita Hilarion, ha inviato il seguente messaggio alla cerimonia di apertura:

Cari organizzatori e visitatori della mostra,
saluto quanti si sono riuniti oggi al Museo di Stato “Auschwitz-Birkenau”, per richiamare ancora una volta alla memoria le tragiche pagine della storia e onorare le vittime della Seconda Guerra Mondiale. Il XX secolo ha significato il culmine di violenze insensate. In questo luogo si può vedere di persona quale frutto abbiano portato le ideologie che affermano la superiorità di una nazione rispetto ad un’altra. Alcune persone, in preda alla folle idea della propria perfezione, ritenendo tutti gli altri dei “subumani”, hanno creato questi campi per lo “sterminio tecnico” di quanti non corrispondevano ai loro criteri di appratentenza al genere umano. La conseguenza di tale politica sono stati i milioni di vittime innocenti, la cui unica colpa era di essere nati ebrei, russi, ucraini, bielorussi, polacchi, serbi, rom o di altre nazionalità.
Poco a poco, la memoria storica delle nuove generazioni si indebolisce, ciò che è accaduto sembra lontano, e le lezioni apprese dai loro antenati sembrano inattuali e non autorevoli. E’ compito di fondamentale importanza, per  tutti noi, ricordare alle nuove generazioni quanto è avvenuto nel passato, affinché esse si sappiano opporre a quelle forze che vorrebbero far rivivere il male del nazismo, che sembrava essere stato definitivamente sconfitto.
Mi auguro che questa mostra possa essere un avvertimento di quanto potrebbe accadere di nuovo, se qualcuno si rimettesse a proclamare la superiorità etnica, sociale o religiosa  di una comunità su un’altra, e a incitare allo sterminio degli individui di nazionalità, stato sociale o convinzioni religiose diverse.

Hilarion,
Metropolita di Volokolamsk,
Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne
del Patriarcato di Mosca

mercoledì 30 gennaio 2013

 
Chiesa Ortodossa 
 Patriarcato di Mosca
Parrocchia
San Giovanni di Kronstadt
Palazzo Gallo - P.zza Vittorio Em. II 
(di fronte la pizzeria da Armando -
seguendo Corso Garibaldi a destra)
Castrovillari (cs)


 
03  Febbraio  2013
San Massimo il confessore

Tono II



 
Orario Ufficiature 

Sabato 02 - Ore 17,30: Vespro (Vecernie)

Domenica 03  - Ore 10.00 : Divina Liturgia 



  Carissimi Fedeli Ortodossi di 
Castrovillari e del circondario, 
carissimi Arbëreshë  dei paesi viciniori,
(San Basile - Frascineto - Ejanina - Civita)
 come sempre vi aspetto numerosissimi,
 per celebrare con Voi le Ufficiature 
della Vostra Chiesa e della Vostra
 Santa Tradizione Ortodossa.
Per qualsiasi informazione chiamate
 il Parroco al: 3280140556

domenica 27 gennaio 2013

Dal sito: http://makj.jimdo.com/

“Per l’uomo, la vita terrena, la vita nel corpo, è solo una preparazione alla vita eterna, che comincerà dopo la morte del corpo. Perciò dobbiamo approfittare senza indugio della vita presente per prepararci all’altra vita” (s. Giovanni di Kronstand)      
 
 
LA NOSTRA VOCAZIONE ULTIMA [1]
 
 
san Ivan di Kronstad
 
“Per un autentico cristiano, la morte
è la nascita ad una nuovo vita”
Icona di san Ivan di Kronstad (Russia - 1829/1908)
Icona di san Ivan di Kronstad (Russia - 1829/1908)
     1. Siamo una candela che si consuma: Che cos’è la nostra vita? Una candela che si consuma: chi l’ha accesa deve solo soffiare ed essa scompare. Che cos’è la nostra vita? Il cammino di un viaggiatore: quando ha raggiunto un luogo fissato, le porte si aprono davanti a lui, si toglie il vestito da viaggio (il corpo), depone il bastone da pellegrino e rientra in casa. Che cos’è la nostra vita? Una lunga lotta sanguinosa per la conquista della vera patria e della vera libertà. Una volta terminata la guerra saremo vincitori o vinti; verremo fatti passare dal luogo della battaglia a quello della ricompensa e riceveremo dal Giudice o un premio eterno, una gloria eterna, oppure un castigo, una vergogna eterna.
     2. Il ritorno nella casa del Padre: La giornata è il simbolo della fugacità della nostra vita terrena: prima c’è il mattino, poi viene il giorno, infine la sera e quando scende la notte, tutta la giornata è trascorsa. Così trascorre anche la vita: prima l’infanzia, come il mattino, poi l’adolescenza e l’età adulta, come il giorno pieno, infine la vecchiaia, come la sera che scende, se Dio ce lo concede; dopodiché viene la morte, inevitabile. Ovunque vada, un uomo finisce sempre per tornare a casa sua. Così anche il cristiano: chiunque sia, nobile o plebeo, ricco o povero, dotto o ignorante, ovunque possa trovarsi, qualunque sia il ruolo che occupa nella società, qualunque cosa faccia, deve sempre ricordarsi che non è a casa sua, ma che si trova in viaggio, in cammino e che deve ritornare a casa, da suo padre e sua madre, dai fratelli e dalle sorelle maggiori. Questa casa è il cielo, il padre è Dio, la madre è la purissima Madre del Signore, i fratelli e le sorelle maggiori sono gli angeli e i santi di Dio. Il cristiano deve anche ricordarsi che tutti i suoi impegni e le sue attività terrene sono fallaci, mentre il suo vero impegno consiste nella salvezza dell’anima, nel compimento dei comandamenti divini, nella purificazione del cuore.
     3. Morire è facile, se si è pronti: A volte, quando la nostra anima è abbattuta, ci auguriamo la morte. Morire è facile e presto fatto, ma sei pronto a morire? Ricordati che dopo la morte viene il giudizio (cfr. Ebr 9, 27). In realtà non sei pronto a morire e se la morte venisse da te, fremeresti d’orrore. Allora non parlare a vanvera, non dire: «Sarebbe meglio per me se morissi», di’ piuttosto: «Come posso prepararmi a morire cristianamente?» Con la fede, con le buone opere, sopportando coraggiosamente le miserie e le sofferenze che sopraggiungeranno, in modo da poterti avvicinare alla morte senza timore né vergogna, nella pace non come se si trattasse solo di una dura legge di natura, ma come fosse un invito affettuoso del Padre celeste, santo e beato ad entrare nel Regno eterno. Ricordati di quel vecchio il quale, faticando sotto un carico pesante, invocava la morte: quando questa si presentò, egli si rifiutò di morire e preferì continuare a portare il suo carico.
     4. Preoccupiamoci di purificare il nostro cuore:Queste nostre mani che amano afferrare tutto ciò che si presenta loro, saranno incrociate sul petto e non prenderanno più nulla. Queste gambe e questi piedi che amano camminare nel male e non vogliono stare fermi per la preghiera, rimarranno per sempre distesi e non andranno più da nessuna parte. Questi occhi che guardano con invidia la felicità del prossimo si chiuderanno, il loro fuoco si spegnerà e più nulla li incanterà. Queste orecchie, spesso tese ad ascoltare con piacere maldicenza e calunnie, non ascolteranno più niente: non sentiranno neanche i colpi di tuono, sentiranno solo la tromba che risveglierà i morti, quando i corpi corruttibili resusciteranno, «gli uni per una resurrezione di vita, gli altri per una resurrezione di condanna» (Gv 5, 29). Che cosa resterà vivo in noi dopo la morte, quale deve essere l’oggetto di tutte le nostre preoccupazioni in questa vita? È quello che noi chiamiamo il cuore, cioè l’uomo interiore, l’anima: ecco quale dev’essere l’oggetto delle nostre premure. Purifica il tuo cuore durante tutta la vita, affinché sia capace di vedere Dio nell’al di là; preoccupati del tuo corpo e delle sue esigenze quel tanto che è necessario per conservare la salute, le forze e la decenza. Tutte queste cose periranno e saranno inghiottite dalla terra; sforzati perciò di perfezionare in te l’essere che ama e odia, che è tranquillo o turbato, che si rallegra o è afflitto, cioè il tuo cuore, il tuo uomo interiore, il quale pensa e riflette per mezzo della mente.
     5. La gioia di riposare nel Signore: Fratelli, qual’è lo scopo della nostra vita quaggiù? Non è forse quello, dopo essere stati provati con ogni sorta di disgrazie e di sventure qui sulla terra, dopo aver progredito nella virtù con l’aiuto della grazia divina che ci viene comunicata attraverso i sacramenti, dopo la morte, di poterci riposare nel Signore, che è la pace delle nostre anime? Per questo cantiamo: « Dona, o Signore, il riposo all’anima del tuo servo defunto ». Riposare in pace è il nostro più grande desiderio e lo chiediamo a Dio. Ma allora non è insensato affliggersi oltremodo per un decesso? « Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo » (Mt 11, 28), dice il Signore. Quelli che ci hanno lasciato, che si sono addormentati in una morte cristiana, hanno obbedito a questa chiamata di Dio e hanno trovato il riposo. Allora, perché rattristarsene?
     6. La vera morte è vivere senza Dio: L’unione con Dio: ecco il nocciolo della nostra vita al quale il peccato si oppone radicalmente; per questo devi fuggire il peccato, come un nemico terribile, come l’uccisore dell’anima, perché vivere senza Dio non è vivere, bensì morire. Cerchiamo allora di capire a fondo per che cosa siamo fatti, ricordiamoci sempre che il nostro comune Signore ci chiama all’unione con lui.

NOTA
 
[1] Tratto dal libro Ivan di Kronstadt, La mia vita in Cristo. Semi di preghiera e di pace – Gribaudi editore – 1979.

sabato 26 gennaio 2013

La difficile eredità - di Nando Elmo

La difficile eredità - di nando elmo

pubblicata da Nando Elmo il giorno Sabato 26 gennaio 2013 alle ore 9.59 ·
 
Sono  giorni che canto “O monoghesis”  segno che  mi è entrato nell’anima più delle canzoni di Sanremo. E  mi dico: che  eredità, che responsabilità,  ci  hanno lasciato gli avi.
              " La liturgia in greco".

Se è vero quello che si racconta, i nostri preti antenati, che non erano sapienti come i nostri, tutti laureati in teologia, andavano, armati solo di fede, in Grecia o a Costantinopoli per farsi consacrare sacerdoti, affrontando chissà quali pericoli. Erano forse analfabeti i più, ma forse si ricordavano del greco che di sicuro i loro padri parlavano quand’erano in Grecia da dove partirono per l’Italia dopo la disfatta di Koroni.

Oj e Bukura Morè , cantavano.
Non cantavano “oj e bukura Shqiperi”.
E se venivano dalla Morea, erano bilingui come lo siamo noi, ai quali, se per qualche evento fosse impedita la lingua italiana, che è lingua passepartout, rimarrebbe solo l’Arbëresh.
Il greco, i nostri antenati, una volta stabilitisi in Italia, trascorsi i secoli, lo dimenticarono – destino di tutti gli emigrati.  Non era esso più la lingua ufficiale, non era la lingua dei commerci, non lingua burocratica, non la lingua del pane come direbbe Zef Skirò di Maxho, per questo c’era l’italiano che soppiantava il greco. Che rimase però legato solo alla liturgia, come d’altra parte il latino per litnjët, i latini dell'impero d'occidente.
  Ai miei tempi c’erano ad Acquaformosa analfabeti che parlavano solo l’Arbëresh. E ai maschi che avevano fatto il servizio militare poteva capitare di capire l’italiano ma di non parlarlo – altro fenomeno legato all’emigrazione: capisco il piemontese ma non lo parlo.
D’altra parte quanti sono quelli che ad Acquaformosa capiscono l’arbëresh, ma non lo parlano? Ad esempio: Alberto Lotito, Taurino, ed altri di cui non ricordo il nome. Così sarà avvenuto ai nostri antenati con il greco che capivano forse ma non parlavano: non parlata quella lingua non poteva che sparire dall’uso nelle necessità quotidiane che incrociavano nei commerci e nella burocrazia quelle italiane che noi chiamiamo latine. Latine, litire,  perché dell’impero d’occidente - essendo noi greco-albanesi “romei”, romani dell’unico impero romano quello d’oriente sopravvissuto dopo l’istituzione del Sacro Romano impero che era dei barbari  Franchi.
  In Morea, se da lì i nostri avi provenivano, ma anche dalla tebaide come testimonia il cognome Capparelli, gli arberori erano come i ticinesi italofoni in Svizzera, i quali non si dicono italiani ma svizzeri, e non hanno come eroe Garibaldi, come noi Skanderbeg, ma  Guglielmo Tell – dovremmo cambiare eroe eponimo. È vero che ai tempi non c’era l’idea poltica di Grecia, ma l’area linguistica  culturale sì.
 La grancassa Shqipetara battuta dai nostri intellettuali, tutti preti cattolici (Papas Sepa, Papas Solano, papas Vorea Ujko ecc…) puzza di bruciato. D’abbruciamento di una eredità e di una identità che doveva farci salvi dalle persecuzioni del Principe Spinelli, il quale in tempi in cui non si parlava di ecumenismo di facciata, non si peritava di assassinare da buon cattolico, come a Guardia Piemontese i Barbet, tutti quelli che non cantavano in latino le lodi del Signore.
Per i nostri antenati era meglio dirsi Shqipetari, dato l’eroe eponimo defensor fidei, che greci.
 Si favoleggia di una resistenza di Lungro, e di una desistenza di Spezzano agli attacchi dello Spinelli. Ma non sono uno storico. E dunque non mi avventuro in discorsi che non sono i miei, non vorrei passare sotto le forche caudine del sarcasmo di Francesco Damis.
Tuttavia le domande sono ineludibili. Se venissimo dall’Albania governata dal Defensor fidei, dove la messa si celebrava in latino forse non celebreremmo una liturgia in greco: l’albania era sotto l’influenza di Venezia, e dunque avrebbe avuto una messa latina, tradotta in albanese dal vescovo cattolico, educato a Venezia, Gjon Buzuku, ma latina. Se dunque celebriamo una messa in greco è perché i nostri erano greci di lingua albanese, ma greci. Dunque, probabilmente, ortodossi.
Non voglio avventurarmi qui in discorsi che riguardino le appartenenze a questa o a quella confessione. La cosa non mi appassiona.
 Mi appassiona, invece, il fatto che a me sia toccata questa, che non so come chiamare se fortuna  o jattura, d’essere nato, gettato, in una cultura che parla Arbërisht e prega in greco.
E se le prime parole che ho sentito appena nato erano arberische, di sicuro le seconde sono state greche, quando (allora s’usava) fui offerto come primogenito al Signore e zoti më dha grekisht uratën, - il prete mi ha benedetto in greco. E v’assicuro che don Matrangolo allora non metteva nella liturgia parole arberische o italiane. Quindi se devo credere a un imprinting, le mie orecchie sono state impresse per l’eternità con fonemi arberischi e greci. Dunque non posso fare a meno, quando mi domandano delle mie radici, di dire che sono un greco di lingua albanese.
  Forse sarà meglio che io pensi che sia stata una iattura l’essere nato greco albanese, perché soffro a vederle buttate alle ortiche le due mie culture, soprattutto la greca – dimidium animae meae - nella egemonia dell’italiano.
Come si sono buttate alle ortiche? Per esempio col non aver avuto a suo tempo il buon senso di istituire a Lungro piuttosto che un liceo scientifico, uno classico. Essendoci solo quello, gli studenti solo a quello si sarebbero iscritti, e oggi avremmo un buon numero di lettori e di intenditori di greco.
L’essere cresciuti nel culto dei santi cattolici e nel non aver mai sentito nel catechismo i nomi di Basilio, di Crisostomo, del Nisseno, del Nazianzeno ecc …
L’aver sconsideratamente chiuso i seminari e non averli costituiti come collegi o centri di cultura orientale – delle madrase, come i musulmani, insomma, che in quelle allevano gli “hafiz”, i “custodi” della lingua del Profeta. Se avessimo anche noi delle madrase oggi leggeremmo il Nuovo testamento di prima mano.
 Il greco. Avendo insegnato per pigrizia come Skirò Di Maxho in una scuola media stavo per dimenticare la lingua classica che mi hanno lasciato, soprattutto in cuore, i miei avi.
Pensate: la lingua delle feste, la lingua che rendeva speciali le nostre feste, la lingua misteriosa del mistero del sacro. Quando entrai la prima volta in una chiesa latina rimasi sconcertato a non sentire il greco: che funzione era mai quella dei latini? E quando feci una volta la comunione con l’ostia, qualcuno mi spiegò che quella era la comunione di Giuda, il quale aveva mangiato ma non bevuto (si beve solo con gli amici – aveva aggiunto don Fernando Manes che a Lungro era un lenza).
 Eredità greca, che farne? Stavo perdendo il greco - studiato sin dalla prima media, approfondito a Grottaferrata con le lezioni di Padre Ignazio.
Stavo per dimenticare il greco.
Sennonché durante le mie discussioni con don Matrangolo, durate  una trentina di agosti, ogni giorno all’ “ora del caffè”, diceva Lui, siccome Zoti mi faveva citazioni in greco, che qualche volta mi mettevano in imbarazzo, decisi di riprenderne lo studio.
Incominciai con la rilettura del Nuovo Testamento. Per  me era la via più facile, ne conoscevo brani a memoria, soprattutto quelle pericopi delle lettere di Paolo che ripetevo a tutte le messe del mattino in collegio e a tutte le messe cantate (ero molto ricercato nei funerali), essendo la mia la voix d’un ange, come si espresse la moglie del console francese che mi sentì cantare i tropari a Palazzo Venezia a Roma (ci sarà qualcuno a testimoniare per me di questi eventi da quando non c’è più Padre Gabriele che mi prendeva come suo chierichetto a servirgli messa).
 Ripresi, poi, a pregare in greco ogni mattina coi salmi, con la dossologia, a ripetere i tropari della Paráclisis e dell’Akáthistos e a invocare ( lo faccio ancora oggi) lo Spirito, con il Vasilev Uranie.
E il greco cominciò a rifiorire nella mia memoria, così dal Nuovo Testamento potei passare all’Antico, un capitolo ogni giorno (come fa Erri De Luca – ma lui in ebraico) e da lì a Platone.
Alle discussioni con don Matrangolo che durante gli ultimi anni, si erano trasformate in lunghe telefonate notturne (chiamava lui, dunque non c’è dubbio che mi stimasse) alle sue citazioni in greco, potei opporre le mie.
Se ne avessi avuto voglia sarei potuto partire per Atene o Costantinopoli e farmi ordinare qualcosa, ma scoprii che non avevo bisogno di nessuna ordinazione perché col battesimo, col solo battesimo, ero istituito RE, PROFETA E SACERDOTE. Nasceva allora, con l’approvazione di Don Matrangolo (“ma non dirlo in giro”, consigliava la sua prudenza cattolica – ma non escludo che prendesse abilmente in giro le mie alzate d’ingegno), il Christianus sine glossa che sono.
Che vuol dire Christianus sine glossa? Che  posso, senza bisogno di ecumenismo, frequentare tutte le chiese, gli ortodossi, i copti, i valdesi (grandi perseguitati) che sono miei grandi amici intanto perché hanno grandi teologi, davanti ai quali impallidiscono i cattolici, anche il chiacchierone piemontese primo della classe di Bose -  che io scrivo Böse – e poi perché non sono fascisti come Ruini, Bertone,Sepe e compagnia (delle opere) bella, non sono alleati del Mestatore di Arcore e non benedicono il Celeste né i vandeani di Léfevre  …  - anche per questo non frequento più le chiese latine, se non per vedere qualche opera d’arte, e aspetto d’essere ad Acquaformosa per andare a messa.
Ho ripreso il greco, l’eredità che mi hanno lasciato i padri e verso di loro mi son reso responsabile. Così oggi in quella lingua posso leggere Origene, Basilio, il Nisseno, il Nazianzeno, Palamas, e farmi in qualche maniera esperto nella ortodossia onorata nei nostri tempi da personaggi come Evdokimov, Bulgakov, Berdjaev, Sestov, tutti, cristiani ortodossi  laici grandi teologi fuorusciti dalla Russia Sovietica. E posso trovare rispecchiate le mie intuizioni teologiche in Maximos Lavriotis.
 Non è difficile, per chi volesse, riprendere il greco in mano, basta averne una conoscenza di base e comprare libri con testo a fronte per un “aiutino” quando è necessario, e aver voglia di spendere qualche euro per volumi che costano – ma la spesa vale l’impresa : non accumulate ricchezze di questo ordine borghese di cose.
 Il greco, seconda lingua dei nostri padri, come l’italiano di noi figli, ormai integrati, come vuole la tolleranza cattolica.
E tuttavia non posso non segnalare che ad Acquaformosa – non tutto è perso - c’è un gruppo di persone non colte che cantano in greco tutta la Paráklisis senza inciampare, senza storpiare le parole. Ed è per loro, per la loro enfasi che mi ha colpito una parola.
 Cantavano “Alala ta cheili tön asevõn tõn mé proskynounton tén ikona sou tèn septén, tén istoretheisan hypò tou apostolou Lukã ierotatou tèn Odighétrian”.  (Per chi non conosce il greco: “Mute siano le  parole degli empi che non s’inchinano davanti alla tua pura icona  “dipinta”, dal santo Apostolo Luca, l’Odigitria (Colei che indica la strada)”.
Fu un attimo. Un’arricciatura nel canto, un po’ calcata,  di una del coro su “Istoretheisan” che mi fece porre attenzione a quella parola. L’ho tradotta, come tutti,  col participio “dipinta”, ma in italiano  “dipinta” non mantiene la polisemia di “istoretheisan”, la “tradisce”) perché per “dipingere” in greco, e nel greco bizantino, si ricorre a “Zographein” – i pittori d’icone sono chiamati “zographoi”, cioè disegnatori, pittori, di figure umane.  Per mantenere la polisemia del verbo greco avrei dovuto più opportunamente, forse, tradurre “raccontata”, “testimoniata”, tenendo presente che Luca non è solo pittore, zographos, ma anche “storico”, colui che può “testimoniare”.
Al di là dei problemi di metrica che avranno imposto quella parola all’innografo, che cosa egli intendeva con “istorein”?
Se i tropari sono ispirati, come credo (credo che tutti siamo in qualche maniera le antenne di un’ispirazione, di uno Spirito (thisavròs tõn agathõn, tesoro di beni) che soffia, soprattutto se si è poeti, artisti), forse l’ “istoretheisan”  va oltre il semplice “illustrare”, “rappresentare” – “dipingere”, come i più traducono.
 Forse l’innografo voleva fare cenno all’umanizzazione della Theotókos, alla sua appartenenza alla storia? E che cosa ha fatto la Theotókos  (non chiamatela Madonna) se non umanizzare, storicizzare il Logos? E allora? Storicizzare per non creare idoli? Perché non dovremmo noi, allora, storicizzare il rito? Non sostengo nel mio libro sull’icona che bisogna uscire dal canone per non fare copie di copie? Coartare tutto alle esigenze del tempo?  Solo gli eidola sono immoti. Anche il rito è un rappresentare, uno storicizzare, un raccontare misteri, un al di là che si affaccia, si mostra, si racconta  di qua, come allora non storicizzarlo?
Mi risuonava nella memoria anche un detto niciano che suona più o meno così: lo stare immoti è un peccato contro lo Spirito Santo.
Rimasi nel tormento ritrovandomi – in un ruolo che non vorrei sostenere - un laudator temporis acti, un idolatra quale non voglio essere, e non sono  – idolatra del passato, come un lefevriano, un vandeano, un ciellino, un integralista, un fascista che eleva tutto a idolo tartufesco: “Dio, Patria, Famiglia”, manganello da dare in testa a chiunque si metta nella scia dello Spirito.
  Mi soccorsero due letture, un luogo di S. Agostino che ho citato altre volte dove il santo di Tagaste dice che la vera preghiera che conviene a Dio è un tereteretere senza senso, per cui il nostro greco incomprensibile, poteva essere quel tereteretere, un significante senza significato, o dal significato “misterioso”, con l’aura del sacro come un mantra – le donne di Acquaformosa che cantano la Paráklisis senza capirla; l’altra lettura, un luogo di Vattimo dove il filosofo nichilista calabro piemontese sostiene che le cose sacre andrebbero dette in lingue antiche, proprio per tenere il sacro lontano dalla lingua di tutti i giorni – se poi pensiamo che la lingua di tutti i giorni è quella usurata dei media, se poi pensiamo che la musica è quella che ci entra in casa con i jingle commerciali, allora latino, greco, canto gregoriano e canto bizantino dei monasteri ben vengano a risollevarci dal deserto in cui ci hanno costretti gli illuminismi di ogni genere che hanno scorticato la terra delle divine presenze.
 Certo, ho scritto contro la messa latina celebrata a Rivarolo dai fascisti e dalla conventicola dei lefevriani e dei cavalieri di Malta in bardatura similcrociata. Ma quel latino non aveva niente a che fare con il sacro. Era una mazza “cattolica” da dare in testa a coloro i quali preferiscono l’italiano e quindi secondo il sentire dei fascisti, cattolici non sono. Il latino qui assumeva una indebita valenza politica. Si tenga poi presente che il latino è la lingua ufficiale della chiesa romana, dunque una messa latina in Vaticano ci sta tutta, non a Rivarolo.
 Ora siccome da noi la messa si celebra in greco da cinquecento anni e ci è entrata nel sangue come seconda lingua, e siccome non si è mai compromessa né con la politica né con finalità commerciali, allora a rappresentare quel sacro, di cui parla il nichilista Vattimo, ci sta tutta.

Perché metto l’accento sul nichilismo di Vattimo al quale  sembra niente il sacro? Ma proprio perché il suo discorso non è orientato a sottolineare una sostanzialità del sacro. Sottolinea piuttosto una presa di responsabilità dei soggetti nei riguardi della nullità delle cose. Forse proprio perché le cose sono transeunti bisogna prendersi la responsabilità di non lasciarle andare: andiamo semmai noi con loro, che le cose finiscano quando finiamo noi. E noi col greco in cuore non siamo ancora trapassati, perché allora anticipare l’oltrepassamento del greco?
 Non buttiamo le perle ai porci? Buttare il greco? In cambio di che? Di Italiano e arbëresh? Perché no? Storicizziamo la liturgia, ma non traducendo la greca.
Riscriviamone una in italiano o in arbëresh, o in tutt’e due le lingue insieme facendo cenno a quell’ibrido che siamo. Ma tradurre la liturgia greco-bizantina no.
Così manteniamo l’icona e la sua funzione, ma dipingiamone di nostre, secondo che ci detta dentro lo Spirito che spira, che mette in movimento, ma non copiamo Rublëv. Rublëv è intraducibile, c’è quella impossibilità che è rappresentata in filosofia dal “de se nunc”.
 Nessun musulmano si sognerebbe di leggere il Corano in lingua volgare. I musulmani che hanno scuole di Corano sono linguisticamente più avveduti di noi: sanno della impossibilità della traduzione senza un tradimento. L’eco della polisemia linguistica di un “istoretheisan” va persa con la traduzione “dipinta”.
 Così come quando traduciamo Kosmos e Mundus con “Mondo” tout court. “Mondo” è parola totalmente catacresizzata, abusata, usurata, che non dice più il significato di “Mundus” = “netto, pulito, elegante, acconciato e per traslato: Universo, Terra ecc…”. Intendendo “Mundus” o “Kosmos” che ha le stesse valenze semantiche, solo come Terra, Habitat,   mettiamo, come qualcuno ha detto un sasso in bocca al significante e gli vietiamo di significare oltre il significato catacresizzato, abusato e stereotipato, dall’uso comune.
 Con Kosmos, come con “Mundus” non si intende “questo mondo”, “questa terra” in cui viviamo contrapposti a un mondo ultra terreno. Con Kosmos non si intende quel che vediamo, con i sensi, del firmamento (che è lo “stereoma”, lo spazio), ma un modo ordinato secondo figure e schemi matematici, emisferi, coordinate di orientamento  (il Kosmos è un cielo umano, non il disordine di mondi che quel cielo è); o “mundus” un mondo ordinato secondo le leggi dell’imperium - l’ordine fascista, l’ordine capitalistico, l’ordine della divisione in classi, l’ordine dell’esercito schierato in battaglia ecc … Quindi quando Cristo dice che il suo “regno non è di questo mondo”, dobbiamo intendere che non sta parlando di un regno ultraterreno, ma di un “ordine”, “Kosmos, Mundus”, tutto terreno, intendendo: “il mio mondo non è di questo ordine di cose”, il mio ordine è fondato sull’amore dei nemici, sul fare agli altri quello che vogliamo per noi, sul non accumulare ricchezze, sul non scandalizzare i piccoli, sul non pensare che puttane e pubblicani sian da rigettare perché non degni della nostra pulizia (Mundus) del nostro perbenismo piccolo borghese, ecc...
 E così altre parole fondanti l’espressione greca che non è la nostra: si pensi quando in greco si usa la parola Aletheia, che è tradotta e tradita  come “verità”.
È per questo che i miei scritti abbondano di citazioni in greco – che qualcuno ha ritenuto senza logica.
Non voglio togliere a quella lingua la risonanza, l’eco di significati, che l’italiano catacresizza, stereotipizza, secondo le nostre categorie che bloccano il campo semantico che quelle espressioni aprono in greco – o nelle altre lingue in cui cito.
 Ma qui il discorso si farebbe lunghissimo.
 Ricordo che una cosa è parlare arbërisht, e un’altra in italiano. Non riserviamo l’arbëresh a situazioni intime, che non possono essere veicolate da una lingua asettica  come la lingua pubblica italiana? La  lingua pubblica è astratta, appartiene a tutti e a nessuno, ha pretese di “oggettività”, tanto quanto gli idioletti appartengono ai singoli e hanno tutte le sfumature del vissuto, dell’esistenziale, del “soggettivo” – anche del soggettivo che è una comunità.
Così quando canto il Vasilev uranie alla maniera dei miei antichi Ngjosha e Çitri – i quali richiamavano quel tereteretere di Agostino quando cantavano l’alleluia dopo l’Epistola facendolo precedere da un lungo “ailè/leeeà/aileeeee” senza senso -  l’anima si apre su profondità insondabili, dove “naufragar m’è dolce”.
 Io salverò, per me il greco, lo indosserò come monile prezioso lasciatomi in eredità dai miei avi (non mi sognerei mai di usare il rito per dirmi più cristiano di un altro o più ortodosso o più cattolico di un altro) e andrò commuovendomi con quel Platone che quel greco mi ha messo in condizione di intendere: Devr’ektrapómenoi katà ton Ilisòn iomen … - Giriamo di qua e andiamo verso l’Ilisso … dove appunto Socrate (l’illuminista, il razionalista, come si dice) e il suo discepolo Fedro incontreranno divine presenze ….
 Qui il discorso s’arriccia, torna su se stesso come per contraddirsi. Ma non è il discorso, “nella sua goffaggine” che si contraddice, è la realtà che si contraddice, una realtà che solo se è bivalente si contraddice, se è monovalente accoglie in sé la tradizione “che sta” e il suo divenire, il suo storicizzarsi; gli eidola e la loro negazione.

venerdì 25 gennaio 2013

LA VERA CHIESA SIAMO NOI”. IN GRECIA, APPELLO DI ORTODOSSI CONTRO L’ECUMENISMO di Agenzia ADISTA

ATENE-ADISTA. “L’ecumenismo è un’eresia”: questo lo slogan di un appello, che ha già raccolto quasi seimila firme, nato in Grecia ma poi fatto proprio anche da prelati ortodossi di altri Paesi, che invita vescovi e fedeli ad opporsi al dialogo ecumenico ed a mantenere pura e intatta l’Ortodossia, contrastando le pretese di Roma.
L’appello–intitolato Confessione di fede ortodossa – è stato lanciato nell’aprile scorso e, da allora, è partita la raccolta di firme che a metà settembre ha raggiunto circa 5.800 adesioni. Il testo è stato firmato da sei metropoliti greci; ad essi si sono aggiunti un vescovo bulgaro e un vescovo ortodosso degli Stati Uniti d’America. L’hanno inoltre sottoscritto un migliaio di monaci e di sacerdoti, e quasi cinquemila laici.
In Grecia (la terza nazione dell’Ortodossia per importanza numerica, dopo quella russa e quella rumena), ci sono gruppi ortodossi, guidati da vescovi e da monaci, che sostengono che l’ecumenismo – e cioè la ricerca della piena unità tra tutte le Chiese oggi divise – non sia altro che un inganno, una subdola e pericolosa eresia, perché porterebbe a negare che la Chiesa, la vera Chiesa, quella apostolica, già esista nell’Ortodossia, cioè in ciascuna Chiesa ortodossa legata dalla stessa fede e dalla stessa sostanziale Tradizione con le comunità sorelle. Per tale ragione, questi gruppi si oppongono ai dialoghi teologici con Chiese non ortodosse, in particolare con la Chiesa cattolica romana, la quale invece, a livello ufficiale, come più volte hanno sottolineato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, afferma di essere la sola Chiesa ad essere, come proclamato nel Credo, “una, santa, cattolica ed apostolica”.
A rendere la questione problematica in Grecia è il fatto che la piccola minoranza cattolica ellenica da tempo insiste perché siano cambiate alcune normative della legislazione civile e della prassi consolidata che, di fatto, premiano chi è di fede ortodossa e, al contrario, limitano i diritti di chi non lo è e soffocano lo status giuridico delle altre Chiese e religioni. La stragrande maggioranza della popolazione del Paese è ortodossa, e per tale ragione alcuni pensano ‘greco=ortodosso’ e perciò chi prende le distanze dall’Ortodossia le prenda anche dalla patria ellenica. Le richieste dei vescovi cattolici greci affinché sia garantita anche alla Chiesa cattolica piena personalità giuridica, con tutto ciò che ne consegue, sono allora viste – da molti gruppi ortodossi – come manovre per minare l’Ortodossia. Inoltre, a livello popolare, è ancora diffuso in Grecia il risentimento contro i crociati occidentali che nell’aprile del 1204 saccheggiarono Costantinopoli e profanarono le chiese bizantine. In proposito, quasi come “condizione” per poter visitare la Grecia, papa Wojtyla, in un suo discorso ad Atene, dovette esprimere rammarico per le vicende di otto secoli prima (e delle quali, oltre al resto, il papato non era colpevole).
Ufficialmente, il Sinodo della gerarchia ellenica (come quello della Chiesa russa), accetta l’ecumenismo, ma interpretato in modo rigido, sempre ribadendo che è l’Ortodossia la vera Chiesa. E solo dopo molti contrasti il Sinodo accettò (anche per le pressioni del governo greco) che Giovanni Paolo II, nel 2001, visitasse la Grecia; salvo poi, nel 2004,opporsi al viaggio dell’arcivescovo di Atene, Christodoulos, a Roma. Il prelato poté compiere questa visita – la prima di un primate greco in Vaticano – solo due anni dopo, nel dicembre2006. Il successore di Christodoulos Ieronimos II (eletto nel febbraio 2008), cerca ora di muoversi tra le diverse correnti che agitano la Chiesa ortodossa.
Intanto, nonostante il patriarca ecumenico di CostantinopoliBartolomeo I, convinto ecumenista, abbia preso le distanze dall’appello, la raccolta di firme prosegue a pieno ritmo. (luigi sandri)

giovedì 24 gennaio 2013

 
Chiesa Ortodossa 

 Patriarcato di Mosca
Parrocchia
San Giovanni di Kronstadt
Palazzo Gallo - P.zza Vittorio Em. II 

(di fronte la pizzeria da Armando -

seguendo Corso Garibaldi a destra)
Castrovillari (cs)






 

27 Gennaio  2013

Conclusione della festa delle Luci e
memoria dei santi padri nostri uccisi
al Sinai e a Raithu


Tono I




Tropari della  domenica:

Камени запечатану от иудей и воином стрегущим Пречистое Тело Твое, воскресл еси тридневный, Спасе, даруяй мирови жизнь. Сего ради силы небесныя вопияху Ти, Жизнодавче: слава воскресению Твоему, Христе, слава Царствию Твоему, слава смотрению Твоему, едине Человеколюбче.
 

Во Иoрдане крещающуся Тебе Господи, Троическое явися поклонение: Родителев бо глас свидетельствоваше Тебе, возлюбленнаго Тя Сына именуя: и Дух в виде голубине, извествоваше словесе утверждение, явлейся Христе Боже, и мир просвещей слава Тебе.

Слова Божия служительнице, во апостольстей проповеди первозванному Андрею и прочим апостолом подражавшая, просветительнице Иверии и Духа Святаго цевнице, святая равноапостольная Нино, моли Христа Бога спастися душам нашим.

Слава Отцу, и Сыну, и Святому Духу.
Православныя веры поборниче, земли Российския печальниче, пастырем правило и образе верным, покаяния и жизни во Христе проповедниче, Божественных Таин благоговейный служителю и дерзновенный о людех молитвенниче, отче праведный Иоанне, целителю и предивный чудотворче, граду Кронштадту похвало и Церкве нашея украшение, моли Всеблагаго Бога умирити мир и спасти души наша.
И ныне и присно и во веки веков. Аминь.


Гавриилу, вещавшу Тебе Дево, радуйся, со гласом воплощашеся всех Владыка, в Тебе, Святем Кивоте, якоже рече праведный Давид: явилася еси ширшая небес, поносивши Зиждителя Твоего. Слава всельшемуся в Тя, слава прошедшему из Тебе, слава свободившему нас Рождеством Твоим.КондакВоскресл есияко Бог из гроба во славе, и мир совоскресил еси; и естество человеческое яко Бога воспевает Тя, и смерть исчезе; Адам же ликует, Владыко; Ева ныне от уз избавляема радуется, зовущи: Ты еси, Иже всем подая, Христе, воскресение.
 

Orario Ufficiature 

Sabato 26 - Ore 17,30: Vespro (Vecernie)

Domenica 27 - Ore 10.00 : Divina Liturgia 





  Carissimi Fedeli Ortodossi di 

Castrovillari e del circondario, 

carissimi Arbëreshë  dei paesi viciniori,

(San Basile - Frascineto - Ejanina - Civita)

 come sempre vi aspetto numerosissimi,

 per celebrare con Voi le Ufficiature 

della Vostra Chiesa e della Vostra

 Santa Tradizione Ortodossa.
Per qualsiasi informazione chiamate

 il Parroco al: 3280140556