giovedì 30 aprile 2009

Domenica delle Mirofore

Domenica 3 Maggio 2009
Terza Domenica di Pasqua
“Delle Mirofore”


Antifone della festa:

1) Lettore: Alalàxate to Kirìo pàsa i ghì.

Coro: Tes presvìes tis Theotòku, Sòter, sòsonimàs.

2) Lettore: O Theòs iktirìse imàs ke evloghìse imàs.

Coro: Sòson imàs, Iiè Theù, o anastàs

ek nekròn, psàllondàs si: Alliluia.

3) Lettore: Anastìto o Theòs ke
dhiaskorpisthìtosan i echthrì
aftù ke fighètosan apò prosòpu
aftù i misùndes aftòn.

Coro: Christòs anèsti ek nekròn,
thanàto thànaton patìsas, ke
tis en tis mnìmasi zoìn charisàmenos.


Entrata

En Ekklisìes evloghìte ton
Theòn, Kìrion ek pigòn Israìl.

Sòson imàs, Iiè Theù, o anastàs
ek nekròn, psàllondàs si: Alliluia.


Tropari


Tono II
Ote katìlthes pros ton thànaton,
i zoì i athànatos, tòte
ton Ádhin enèkrosas ti
astrapì tis Theòtitos; òte
dhe ke tus tethneòtas ek ton
katachthonìon anèstisas,
pàse e dhinàmis ton epuranìon
ekrávgazon: Zoodhòta
Christè, o Theòs imòn,
dhòxa si.
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O efschìmon Iosìf apò tu
xìlu kathelòn to àchrandòn
su sòma, sindhòni katharà
ilìsas ke aròmasin, en
mnìmati kenò kidhèfsas
apètheto; allà triìmeros
anèstis, Kìrie, parèchon to
kòsmo to mèga èleos.
___ ___ ___
Tes mirofòris ghinexì parà
to mnìma epistàs, o Ánghelos
evòa: Ta mìra tis thnitìs
ipàrchi armòdhia,
Christòs dhe dhiafthoràs
edhìchthi allòtrios; allà
kravgàsate: Anèsti o Kìrios,
parèchon to kòsmo to
mèga èleos.
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Apolitikion del Santo della Chiesa
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Kontakion

I ke en tàfo katìlthes, athànate,
allà tu Ádhu kathìles
tin dhìnamin; ke anèstis
os nikitìs, Christè o Theòs,
ghinexì Mirofòris
fthenxàmenos Chèrete, ke
tis sis Apostòlis irìnin
dhorùmenos, o tis pesùsi
parèchon anàstasin.

Apostolo (Atti 6, 1-7)

-Mia forza e mio vanto è il Signore, egli è
divenuto la mia salvezza. (Sal. 117,14).
- Il Signore mi ha provato duramente, ma non
mi ha consegnato alla morte. (Sal. 117,18).

Lettura degli Atti degli Apostoli.
In quei giorni, mentre aumentava il numero
dei discepoli, sorse un malcontento fra gli
ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate
le loro vedove nella distribuzione
quotidiana. Allora i Dodici convocarono il
gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto
che noi trascuriamo la parola di Dio per
il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli,
tra di voi sette uomini di buona reputazione,
pieni di Spirito e di saggezza, ai quali
affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo
alla preghiera e al ministero della
parola”. Piacque questa proposta a tutto il
gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di
fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore,
Timóne, Parmenàs e Nicola, un proselito
di Antiochia. Li presentarono quindi agli
apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero
loro le mani. Intanto la parola di Dio si
diffondeva e si moltiplicava grandemente il
numero dei discepoli a Gerusalemme; anche
un gran numero di sacerdoti aderiva alla
fede.

Alliluia (3 volte).

- Ti ascolti il Signore nel giorno della prova,
ti protegga il nome del Dio di Giacobbe. (Sal.19,2).

Alliluia (3 volte).

- O Signore, salva il re, ed ascoltaci nel giorno
in cui ti invocheremo. (Sal. 19,10).

Alliluia (3 volte).


Vangelo (Mc. 15, 43-16, 8)

In quel tempo, Giuseppe d’Arimatèa, membro
autorevole del sinedrio, che aspettava
anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente
da Pilato per chiedere il corpo di
Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già
morto e, chiamato il centurione, lo interrogò
se fosse morto da tempo. Informato dal
centurione, concesse la salma a Giuseppe.
Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò
giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo
depose in un sepolcro scavato nella roccia.
Poi fece rotolare un masso contro l’entrata
del sepolcro. Intanto Maria di Màgdala
e Maria madre di Ioses stavano ad osservare
dove veniva deposto. Passato il sabato,
Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e
Salome comprarono oli aromatici per andare a
imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo
giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar
del sole. Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà
via il masso dall’ingresso del sepolcro?”. Ma,
guardando, videro che il masso era già stato rotolato
via, benché fosse molto grande. Entrando
nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla
destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero
paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura!
Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E’ risorto,
non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano
deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a
Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete,
come vi ha detto”. Ed esse, uscite, fuggirono
via dal sepolcro perché erano piene di timore
e di spavento. E non dissero niente a nessuno,
perché avevano paura.

MEGALINARION
O ànghelos evòa ti kecharitomèni:
Aghnì Parthène,
chère, ke pàlin erò, chère, o
sòs Iiòs anèsti triìmeros ek
tàfu. Fotìzu, fotìzu, i nèa
Ierusalim; i gar dhòxa Kirìu
epì sé anètile. Chòreve
nìn ke agàllu, Siòn; si dhe
Aghnì tèrpu Theotòke, en
di Eghèrsi tu Tòku su.

Kinonikon:

Sòma Christù metalàvete,
pighìs athanàtu ghèfsasthe.
(3 volte). Alliluia (3 volte).

Dopo “Soson o Theos ……..”

Christòs anèsti... (1 volta)

Invece di: Dhi efchòn … si dice: “Christòs anèsti”…


Fine
Gloria a Dio

mercoledì 29 aprile 2009

MUSICA ORTODOSSA

Dal Sito: Tradizione Cristiana

Protopresbitero Alexander Schmemann

Cristo è risorto!

La mia fede in Cristo non deriva dall’opportunità che mi è stata data di partecipare sin dalla prima infanzia alla celebrazione pasquale. Piuttosto la mia fede è nata dalla stessa esperienza del Cristo vivente, perché Pasqua, quella notte unica che riempie di luce, di gioia e di una tale forza vittoriosa, è resa possibile nel saluto: “Cristo è risorto! Veramente è risorto!”. Come e quando è nata? Non lo so, non ricordo. So soltanto che ogni volta che apro l’Evangelo e leggo di Cristo, leggo le sue parole, leggo il suo insegnamento, consapevolmente mi ripeto, con tutto il mio cuore ed il mio essere, ciò che è stato detto da coloro che erano stati inviati per arrestare Cristo, ma che ritornarono dai farisei senza di Lui: “Nessun uomo mai ha parlato come quest’uomo” (Giovanni 7, 46). Pertanto, quello che so è prima di tutto che l’insegnamento di Cristo è vivo, e che niente sulla terra può essere paragonato ad esso. E questo insegnamento è su di Lui, sulla vita eterna, sulla vittoria sulla morte, su un amore che vince e vince la morte. So bene che in una vita dove tutto sembra così difficile e faticoso, una costante che non cambia mai e mai mi lascia è questa interiore consapevolezza che Cristo è con me. “Non vi lascerò orfani, verrò a voi” (Giovanni 14, 18). E viene a dare il segno sensibile della sua presenza attraverso la preghiera, con un fremito dell’anima, con una gioia così incomprensibile, e tuttavia molto viva, con la sua misteriosa, ma così certa presenza in chiesa durante le ufficiature e nei sacramenti. Questa esperienza di vita è in continua crescita, questa conoscenza, questa consapevolezza che diventa così evidente, che Cristo è qui e che la sua parola è stata compiuta: chi mi ama, “io lo amo e mi manifesterò a lui” (Giovanni 14, 21). E sia che mi trovi in mezzo alla folla, o da solo, questa certezza della sua presenza, questa potenza della sua parola, questa gioia della fede in Lui resta con me. Questa è l’unica risposta e l’unica prova.

“Perché cercate il Vivente fra i morti? Perché piangete in mezzo alla corruzione Colui che non ha conosciuto la corruzione?”. Tutto il Cristianesimo, dunque, è l’esperienza di fede ripetuta ancora e ancora, come se fosse la prima volta, attraverso la sua incarnazione in riti, parole, musica e colori. Al non credente, può effettivamente sembrare come un miraggio; sente solo parole, vede solo incomprensibili cerimonie, e comprende solo esteriormente. Ma per i credenti, tutto questo si irradia dall’interno, e non come prova della propria fede, ma come il suo risultato, così come la sua vita nel mondo, nell’umanità, nella storia. Pertanto, le tenebre e la tristezza del Santo Venerdì sono per noi qualcosa di reale, vivo, contemporaneo; possiamo piangere sotto la croce ed esperire tutto ciò che ha avuto luogo in questo trionfo del male, della slealtà, della codardia e del tradimento; possiamo contemplare il vivificante sepolcro nel Santo Sabato, con entusiasmo e speranza. E quindi, ogni anno possiamo celebrare il periodo pasquale, la Pasqua, la Risurrezione. Perché la Pasqua non è il ricordo di un evento del passato. È l’incontro reale nella felicità e nella gioia, con Colui che i nostri cuori molto tempo fa hanno conosciuto e incontrato come la Vita e la Luce di tutta la luce. La notte di Pasqua testimonia che Cristo è vivo ed è con noi, e che noi siamo vivi con Lui. L’intera celebrazione è un invito a guardare il mondo e la vita, ed ecco il sorgere del mistico giorno del Regno della Luce. “Oggi comincia il profumo della Primavera”, canta la Chiesa, “e la nuova creazione esulta...”. Si esulta nella fede, nell’amore e nella speranza.

Questo è il giorno della Risurrezione,
cerchiamo di essere illuminati dalla festa,
abbracciamoci l’un l’altro,
chiamiamo “fratelli” anche quelli che ci odiano,
e perdoniamo tutti a motivo della Risurrezione,
e così gridiamo: Cristo è risorto dai morti,
ha calpestato la morte con la morte,
e a chi giace nei sepolcri ha donato la vita.

Cristo è risorto!

Padre Alexander Schmemann

Tradotto per Tradizione Cristiana da E. M.
Aprile 2009
Testo originale in http://www.schmemann.org/byhim/christisrisen.html

martedì 28 aprile 2009

Mesazhi i Kryepiskopit Anastas me rastin e Pashkës

CHIESA ORTODOSSA AUTOCEFALA D'ALBANIA
Kisha Orthodhokse Autoqefale e Shqipërisë
Pashkë 2009
të lirë nga frika

† Anastasi
Kryepiskop i Tiranës, Durrësit dhe i gjithë Shqipërisë

Klerit dhe popullit shpresëtar Orthodhoks,
Bij të shtrenjtë më Zotin,
“Mos kini frikë” (Matth. 28:10)

“Mos kini frikë”, u tha engjëlli i Zotit grave miroprurëse, të cilat i kishte pushtuar “tmerri dhe habia” para varrit të zbrazur. “Sepse e di se kërkoni Jisuin që u kryqëzua. Nuk është këtu, sepse u ngjall, siç pati thënë” (Matth. 28:6).
Pas pak, vetë Krishti i ngjallur “u tha atyre: Mos kini frikë” (Matth. 28:10). E më tej, nxënësve të tij të frikësuar: “Përse jeni të turbulluar? Dhe përse hipin mendime në zemrat tuaja?” (Lluk. 24:38). Dhe duke u treguar shenjat e kryqëzimit në duar dhe në këmbë, i siguroi me praninë e Tij për ngjarjen e mrekullueshme të Ngjalljes së Tij.
“Mos kini frikë!”. Mesazhi i Ngjalljes predikon në mënyrë diakronike lirinë nga çdo gjë që shkakton frikë. Fitorja e Krishtit dërrmoi zotërimin e fuqive demoniake, vendosi një urë mbi ndarjen e madhe që ekzistonte midis Perëndisë dhe njerëzve dhe rivendosi marrëdhëniet midis tyre. Rëndësinë ontologjike të Kryqit dhe Ngjalljes, na e zbuloi me një mënyrë unike apostull Pavli. Jisui u bë njeri dhe e pranoi Pësimin “që të prishë me anë të vdekjes atë që ka pushtetin e vdekjes, domethënë djallin, edhe të shpëtojë të gjithë ata, të cilët për frikën e vdekjes ishin gjithë jetën e tyre nën skllavëri” (Hebr. 2:14-15). Krishti i ngjallur është tashmë fillesa e njerëzimit të ri, “i parëlinduri prej të vdekurve, që të bëhet ai i parë në të gjitha” (Kol. 1:18-22). Me Ngjalljen e Krishtit ka nisur një formë e re ekzistence për njerëzit. Siguria e Ngjalljes, bindja se Atij iu dha “çdo pushtet në qiell dhe mbi dhè” (Matth. 28:19) i çliroi nxënësit e Tij nga çdo lloj frike dhe ankthi. Dhe i transformoi në predikues të guximshëm dhe burrërorë të jetës së re në Krishtin.
“Mos kini frikë!” Në epokën tonë janë shumuar frikërat që kërcënojnë jetën tonë. Madje, kohët e fundit janë acaruar edhe për shkak të vuajtjeve që shkakton kriza ekonomike në tërë planetin. Fobi të reja dhe të vjetra qarkojnë mendjen tonë dhe na e shtrëngojnë zemrën. Brenda kësaj atmosfere të nderë vjen e kremtja e Ngjalljes që të ftojë çdo besimtar në një rrugëtim lirie nga frika:
Nga frika e atyre që janë armiqtë tanë. Nga frika që krijon padrejtësia dhe egërsia e shoqërisë sonë. Nga frika e mëkatit shumëformësh që depërton në qenien tonë dhe na e tjetërson. Nga frika e dhimbjes, e varfërisë, e sëmundjes, e vetmisë, e rreziqeve dhe hidhërimeve që kërcënojnë jetën tonë. Nga frika e problemeve të mprehta të jetës së përditshme. Nga frika e së panjohurës, e dështimit, e pasigurisë për të ardhmen. Kulmi i mesazhit të Ngjalljes së Krishtit është çlirimi nga frika e vdekjes, e vdekjes sonë dhe e njerëzve tanë të afërm, frikë që na e ndrydh jetën. E kremtja e Ngjalljes nuk shpall thjesht një lajm, por na fton të marrim pjesë në lirinë që na fali Krishti.
Kjo liri, sigurisht mbështetet në besimin. Kisha, duke brohoritur në mënyrë dhoksologjike “Krishti u ngjall!”, nuk kërkon strehë në argumentime për të imponuar të vërtetën që predikon. - Sa janë besimtarë! “Të lumur janë të gjithë ata që besojnë...”. Mjafton, sigurisht, që siç na thotë apostull Pavli “të qëndrojmë në besim të themelosur dhe të patundur, e të mos luajmë nga shpresa e Ungjillit” (Kol. 1:23).
Ngjallja e Krishtit e shpërbën frikën, sepse bashkërendohet me një fuqi të mrekullueshme, të cilën ftohemi ta ndiejmë në një mënyrë të veçantë gjatë kësaj të kremteje të tërëndritshme: “që të njohim madhësinë e pafund të fuqisë së tij (të Perëndisë), (Efes. 1:19). “Këtë fuqi e tregoi te Krishti kur e ngjalli atë prej së vdekurish, dhe e vuri të rrijë në të djathtë të tij në qielloret, përmbi çdo autoritet e pushtet e fuqi e zotërim e çdo emër që të quhet jo vetëm në këtë jetë, por edhe në atë që vjen” (Efes. 20-21).
Kjo liri nga frika, dhuratë e Ngjalljes, duhet t’i japë formë pozicionimit të jetës sonë, “sepse ju, vëllezër, u thirrët në liri”. Por duke shtuar një qartësim në këtë rast: “vetëm mos e përdorni lirinë për shkak të mishit, po me anë të dashurisë, t’i shërbeni njëri-tjetrit” (Gal. 5:13).
Krishti, që është dashuria e personifikuar dhe e mishëruar e Perëndisë, me sakrificën e Tij mbi Kryq dhe fitoren e Ngjalljes shpalli qartë fuqinë unikale të dashurisë, që e çliron njeriun nga çdo formë frike. Sa janë të bashkuar me Atë në besim dhe dashuri, bëhen të denjë të jetojnë të vërtetën që zbulon Ungjillori Joan: “Frikë nuk ka në dashuri, por dashuria e përsosur e nxjerr jashtë frikën, sepse frika ka mundim (përmban ndëshkim), dhe ai që ka frikë, nuk është i përsosur në dashuri” (1 Jn. 4:18).

Vëllezërit e mi, le të gëzojmë pra, në mënyrë të veçantë gjatë këtyre ditëve të Pashkës, lirinë nga çdo lloj forme frike, duke e thelluar besimin dhe dashurinë tonë për Atë që mundi vdekjen, Zotin e jetës sonë. Për më tepër, le t’ua bëjmë të ditur edhe vëllezërve tanë të frikësuar se “Krishti u ngjall!”.
Me dashurinë e tërë shpirtit në Krishtin e Ngjallur,

+ Anastasi
Kryepiskop i Tiranës, Durrësit dhe i gjithë Shqipërisë

lunedì 27 aprile 2009

Da: ZENIT.org "Un abbraccio ecumenico nel segno di san Marco"

Il patriarcato di Venezia consegna
una reliquia all'esarca Gennadios
Il 25 aprile scorso il patriarcarato di Venezia ha consegnato all'Arcivescovo d'Italia e Malta, Esarca per l'Europa meridionale del Patriarcato ecumenico, Gennadios, una preziosa reliquia di sant'Atanasio, il cui corpo è custodito nella parrocchia di San Zaccaria a Venezia.
La consegna ha avuto luogo nella liturgia della festa di san Marco, patrono di Venezia, con la partecipazione del Cardinale Marco Cé, Patriarca emerito della città lagunare, in presenza del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia.
"Mai forse come oggi, in un mondo che va smarrendo la verità della presenza di Dio nella storia, mentre la fatica e la sofferenza del vivere continuano a bussare alla nostra porta, c'è bisogno da parte di noi credenti di un'umile e forte testimonianza di quell'amore misericordioso — che si fa partecipe, accogliente e solidale — che un giorno gratuitamente ci ha raggiunti e ci ha presi in braccio", ha detto il cardinale Cè nell'omelia.
"L'Osservatore Romano" ha spiegato che la celebrazione "ha costituito un particolare momento di unione tra cattolici e ortodossi".
Dal canto sui, il Cardinale Scola ha invece detto: "Un segno straordinario del fraterno affetto che lega i cristiani è il dono della reliquia di sant'Atanasio vescovo che mi accingo a fare a nome di tutto il patriarcato - nelle mani del metropolita ed esarca Gennadios - a Sua Beatitudine Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli".
Il porporato ha sottolineato che "l'intensa fedeltà con cui i nostri fratelli ortodossi venerano le reliquie dei santi sta progressivamente ridestando in noi veneziani un più profondo senso dell'incarnazione del Figlio di Dio fatto uomo".
E ha aggiunto: "La fede cristiana infatti, sulla scia di quella dei nostri fratelli ebrei, è la fede in un Dio incarnato che si è compromesso con la storia".
Il Patriarca di Venezia ha quindi concluso: "Eminenza reverendissima, porgo a lei e, attraverso di lei, a Sua Beatitudine Bartolomeo, uno speciale abbraccio di comunione e di pace, associandomi a quello che so essere anche il vostro ardente desiderio: l'unità dei cristiani, così necessaria nel mondo di oggi possa, per la potenza dello Spirito, manifestarsi quanto prima in forme più piene".
Ricordando il santo patrono della città, il Cardinale Scola ha detto che "l'intercessione di Marco, unita a quella della Vergine Santissima, ha altresì di mira i bisogni e le sofferenze di tutti noi, così come non trascura la memoria della liberazione del nostro Paese, che cerca pace nell'importante ricorrenza civile di oggi".
"A essa con forza aneliamo - ha esortato il porporato - soprattutto in questo tempo segnalato dal mare oscuro della crisi economica di cui non pochi bambini, anziani, donne e uomini stanno soffrendo, in modo particolare nei Paesi poveri".
Nel suo intervento il Cardinale ha espresso un pensiero anche nei confronti "degli amati fratelli dell'Aquila, duramente provati dal recente terremoto".

Da: Albania News

L'Albania presenterà domani domanda di ammissione nell'Ue
L'Albania si candiderà per un posto nell'Unione Europea domani, su invito dell'attuale presidenza dell'Unione europea, la Repubblica Ceca. Lo ha reso noto in una conferenza stampa, tenuta oggi, il primo ministro albanese Sali Berisha. "Ho detto al mio amico Karamanlis che domani l'Albania farà richiesta di ammissione nell'Unione Europea, su invito della presidenza ceca", ha detto Berisha, facendo riferimento al presidente greco Kostas Karamanlis, che sedeva a fianco a lui.Karamanlis ha detto di aver ricordato a Berisha che far svolgere le elezioni di giugno secondo gli standard internazionali, sfidando la corruzione e garantendo il rispetto dei diritti umani, faciliterebbe il percorso dell'Albania verso l'ammissione nell'Ue.

mercoledì 22 aprile 2009

Suntem Crestini


De ce sa ne mintim mereu ca suntem crestini?
Ne place sa credem poate,dar oare cati suntem capabili sa dovedim prin fapte?
Ne rusinam cand trecem pe langa sfanta biserica sa ne facem semnul biruintei ,al sfintei cruci,ne rusinam daca postim.
Este trist ca nu dovedim ca suntem chip al Lui Dumnezeu.Atat de multe lucruri primim de la Tatal, ceresc insa noi ca niste pagani si vamesi uitam sa-i multumim.
Multumirea sa fie prin rugaciune,credinta curata si dreapta.Suntem trecatori in aceasta lume,drumul ,rolul nostru pe acest pamant se va incheia iar cand va veni vremea Judecatii ce raspuns vom da pt cele ce am facut in aceasta viata?
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Doamne Ajuta!
Pubblicato da DIACON .GHEORGHE CAZACU

sabato 18 aprile 2009

La fine del rito greco in Calabria

La storia dei paesi greci di Calabria segna una profonda battuta d'arresto con la fine del rito greco nella diocesi di Bova e la quasicompleta latinizzazione del territorio. Non v’è stato storico sufficientemente asservito ai nuovi padroni, che non si sia sforzato di dimostrare che il rito greco doveva scomparire per consunzione naturale e a causa dell’ignoranza dei suoi preti. Le accuse più varie si accumularono su di essi: rilassatezza dei costumi, avidità di ricchezze, vita scostumata, ignoranza dei testi di liturgia. In realtà una serie di concomitanze furono utilizzate per la soppressione del rito greco a Bova, così come in verità era stato per le altre diocesi. Innanzi tutto v’è da segnalare che la classe che a Bova deteneva il potere economico e politico era quella dei proprietari terrieri e certamente si palesava più aperta verso le innovazioni che venivano dalla città. La lingua da loro parlata, oltre al grecanico, per i continui contatti con il mondo esterno che li circondava, era anche il dialetto calabrese neolatino. Evidentemente nel contatto con le genti delle altre città si sentiva a disagio nel parlare una lingua diversa e nel professare un’altra fede religiosa. E’ chiaro che i ceti dominanti in Calabria erano ormai tutti di confessione latina e di lingua italo-calabra per cui non ebbero remore a schierarsi con quel mondo che essi consideravano più civile. Così quando fu nominato amministratore della sede di Bova Fra’ Giulio Stauriano, che intanto continuava a mantenere il titolo di Mègara, essi gli furono accanto in quell' opera di demolizione del rito greco. Fra’ Giulio prese possesso della sua nuova sede il 30 maggio 1571 e da subito si rese conto che essa era una piccola e povera diocesi. I confini della sua sede erano delimitati dal torrente Amendolea, nel lato verso Reggio, e dalla fiumara di Bruzzano, verso Locri-Gerace. Pochi e inadatti i collegamenti tra i paesi della diocesi; cinque - seimila gli abitanti tutti di lingua greca; tutti posti sui monti i paesi e chiusi da secoli di isolamento. I loro nomi sono gli stessi, fatta eccezione per qualcuno, che ancora oggi appartengono all’area della grecità e dell’ellenofonìa: Bova, Amendolea, Gallicianò, Roccaforte, Roghudi, Africo, Pietrapennata, Palizzi, Brancaleone, Staiti. Bova ne era la capitale, “ i Chòra”, ed aveva resistito alla latinità incalzante anche quando tutte le altre diocesi erano state costrette a subire il predominio dei latini. E nonostante ciò a Bova l’attività degli scriptoria era ancora abbastanza fiorente. Giorgio di Costantinopoli, nel 1552, aveva redatto una nuova edizione del Typicon di quella chiesa; Nicola Manglaviti trascriveva i testi allora in uso. Poco prima di Fra’ Giulio era stato vescovo di Bova Achille Brancia che mal sopportava l’invadenza del metropolita di Reggio. Ben presto il Brancia, suffraganeo del vescovo di Reggio, all’epoca Gaspare dal Fosso, aveva denunciato l’arroganza dei visitatori inviati dai metropoliti in una seduta del concilio di Trento, votando contro alcune proposte del dal Fosso. La spuntò naturalmente quest’ultimo che costrinse il Brancia alle dimissioni. Eppure sotto il vescovato del Brancia il clero aveva mantenuto una buona competenza nella lingua e nella liturgia ed egli stesso aveva partecipato con fervore attivistico al concilio tridentino. Aveva infine favorito la trascrizione degli ultimi codici greci di Calabria. Ma tant’è, dovette andarsene lasciando la diocesi in una situazione di anarchia. Questa era la situazione che trovò Fra’ Giulio al suo arrivo. Per prima cosa riaprì al culto la cattedrale dell’Isodia e vi collocò, il 23 novembre del 1572 le reliquie dei santi apostoli Andrea e Giacomo. In quel giorno e, più ancora dopo la solenne liturgia del 20 gennaio 1573, si era compiuto infatti l'ultimo atto contro la chiesa greca: Bova, estremo baluardo della grecità religiosa, si "consegnava" nelle mani della chiesa latina. Fra’ Giulio credette così di poter uscire da quel isolamento umano e culturale che era rappresentato dal fatto di essere il solo vescovo di rito greco in mezzo alle diocesi latine. L'ironia della sorte volle che a mutare il rito religioso a Bova fosse proprio un vescovo greco di origine armena: il cipriota frate Giulio Staurianoche, d'accordo con i notabili della città, mise i bovesi davanti al fatto compiuto. In realtà v'è il sospetto che frate Giulio Stauriano fosse stato mandato fin qui dalla Curia Romana proprio perché la presenza di un vescovo di rito greco avrebbe reso meno doloroso e traumatico il passaggio al rito latino. Le scuole di grammatica latina e di canto gregoriano, per le quali Fra’ Giulio continuava a ripetere di aver speso somme ingenti, erano infatti già funzionanti. Né egli mancò di affermare che era stato lo stesso papa Pio V ad imporgli oralmente di “ridurre il suo clero dal rito greco al latino”. Fra’ Giulio cercò in tutti i modi comunque di nascondere la portata reale del suo progetto ed agì in maniera tale da mettere tutti davanti al fatto compiuto, come se ciò che stesse facendo, più che essere un fatto di una certa risonanza, non fosse altro che un mero fatto amministrativo. Il suo primo passo fu la Parrocchia di Palizzi, paese in feudo agli Aragona d’Ayerbe, conti di Simeri (ancora ne persiste il toponimo). Dal passaggio al rito latino i feudatari e il protopapa Pietro d’Arena ne ricavavano il vantaggio maggiore, anche perché tutte le proprietà della parrocchia di Sant’Anna, della cappella di santa Caterina e della chiesa di San Leonardo passavano in mano ad una comunìa della quale potevano goderne soltanto i preti di rito latino. Insomma, per alcuni preti, “poscia più che il dolor potè il digiuno”, direbbe padre Dante. E così fu! I preti greci che non si adeguarono, furono ridotti in miseria e sopravvissero facendo i contadini ed officiando nelle povere chiese rimaste in mano loro. A Bova invece la resistenza era maggiore ma Fra’ Giulio cercò di aggirare gli ostacoli recandosi a Roma con delle credenziali che non lasciavano spazio all’immaginazione. I notabili bovesi infatti, sapendo che il precedente vescovo, Achille Brancia, era in odio al cardinale Sirleto (punto di riferimento a Roma dei calabresi), aggiunsero alle parole del vescovo bovese ed a quelle del metropolita di Reggio dal Fosso, una lettera che doveva fungere da compiacente presentazione, avendo Fra’ Giulio - adetta dei notabili - liberato la città “dagli mano di faraoni et posta in luce “ . A frate Coluccio Garino, prete greco e tesoriere della cattedrale, non rimaneva altro che lanciare il suo anatema contro quanti avevano favorito il passaggio dal rito greco al rito latino. Ma la cosa non terminò qui, sic et simpliciter, perchè non tutte le comunità parrocchiali si rassegnarono a "consegnarsi" nelle mani dei latini.Molte continuarono ad officiare col vecchio rito e con i loro Protopapi, anche perchè - e la cosa parve opportuna - gran parte del popolo si esprimeva e conosceva la sola lingua greca. Anzi i risentimenti furono tanti e tali, proprio a causa della lingua, che fu creata una collegiata greca nel 1625. E l’Arcivescovo d’Afflitto, tra la fine del XVI sec. e l’inizio del XVII, affermava ancora che nelle sue visite pastorali aveva trovato sacerdoti, diaconi e libri corali greci a Motta S.G., Pentidattilo, Montebello, S.Lorenzo, S.Agata. I grecanici comunque cominciano a fare uso della lingua volgare e ascrivere in caratteri latini, perdendo, lentamente ma inesorabilmente, la loro distinzione etnica.

Inviatoci fraternamente dal nostro caro
collaboratore GABRIJE'. Grazie

martedì 14 aprile 2009

PAROHÌA CREŞTINĂ ORTODOXĂ
PARROCCHIA CRISTIANA ORTODOSSA
ПРАВОСЛАВНЫЙ ХРИСТИАНСКИЙ ПРИХОД




Sf. Ioan de la Cronstadt
San Giovanni di Kronstadt
Святой Иоанн Кронштадский
CASTROVILLARI

19 Aprile 2009
Pasqua di Resurrezione Ortodossa

DIVINA LITURGIA

ORE 10.00
Presso Chiesa Cattolica ‘Madonna delle Grazie’
(In fondo a Corso Garibaldi)

ХРИСТОС ВОСКРЕСЕ

ВОИСТИННУ ВОСКРЕСЕ


HRISTOS A ÎNVIAT

ADEVARAT A ÎNVIAT
P. Giovanni Capparelli (328 0140556)

Pubblicato dal Diacono CAZACU GHEORGHE



Che questo giorno così speciale e importante possa donarvi una festa piena di felicità, amore e speranza ... AUGURI DI BUONA PASQUA!

Fie ca aceasta zi speciala si importanta, sa o sarbatoriti cu multa fericire, dragoste si speranta....PASTE FERICIT!Celor care sarbatoresc peste o saptamana Pastele ..le urez o duminica placuta de Florii!!

Da un commento inviatoci da Sorin M. (Romania)

Sorin M. ha detto...
Doamne-n Săptămâna asta grea a Patimilor Tale, fă să-Ţi suferim alături când Tu sui a Crucii cale, să simţim şi noi cum Crucea ne apasă şi ne doare, să simţim cum arde biciul peste sânge şi sudoare.Doamne, să-Ţi simţim alături fiecare lovitură,să răbdăm aceeaşi hulă şi batjocură, şi ură, să plătim cu-aceleaşi lacrimi şi cu-acelaşi sânge toate,să simţi şi Tu că ne doare c-am trăit cândva-n păcate. Doamne, ia-mă şi pe mine să-mi pun umărul sub cruce, măcar partea mea de vină să-Ţi ajut să mi-o poţi duce, măcar sarcina mea, Doamne, să m-apese şi pe mine, e de-ajuns câţi ani din viaţă Ţi-am făcut şi eu ruşine. Sus pe Golgota, Iisuse, când pe Cruce-au să Te-ntindă,fă şi firea mea cea veche răstignirea s-o cuprindăşi, privindu-Ţi agonia, s-o văd şi pe ea cum moare, Tu să Te cobori de-acolo, dar ea-n veci să nu coboare. Iar în clipa Învierii, piatra când se dă-ntr-o parte, să se vadă că din groapă ai ieşit Tu Fără Moarte, sfintele mironosiţe şi-ai Tăi ucenici să vadăşi-ale mele semne-alături, şi-nvierea mea s-o creadă. Atunci ştiu că şi-n a Doua Fericită Înviereaş veni şi eu cu Tine în Mărire şi-n Putere,– căci, dac-am răbdat alături, în batjocuri şi-n ruşine, vom fi-alături şi-n Mărire, să împărăţim cu Tine.
de Traian Dorz
(Se qualcuno gentilmente potesse tradurre questo commento inviatoci da Sorin M., così da poter inserire anche la traduzione in italiano. Grazie)

sabato 11 aprile 2009

Da Albania News

Terremoto in Abruzzo e gli immigrati 'invisibili'

C'è un dato oggettivo e impressionante:in seguito alla scossa di terremoto micidiale che ha colpito l'Abruzzo, sono diventati "invisibili" i cittadini stranieri regolari ed irregolari che vivevano nella città di L'Aquila,capoluogo della regione. Da notizie raccolte attraverso canali "non ufficiali", sembra, che il 90% degli scantinati e dei seminterrati del centro storico di L'Aquila erano stati affittati a loro. La stragrande maggioranza,ovviamente, in nero. Clandestini, immigrati comunitari, extra comunitari regolari, tutti ammassati. Dopo il terremoto, dove sono finiti? Che fine hanno fatto? Si tratta di centinaia di persone che non risultano all'anagrafe, che non compaiono nelle liste dei morti, dei dispersi, dei feriti. Insomma, non esistono! A loro volta, i proprietari delle case che si sono messi in salvo non ne denunciano la presenza e, di conseguenza, neanche la scomparsa. Ma dove sono finiti? "Sono gli 'invisibili'- commenta una nota dell'agenzia Adnkronos - quelli il cui nome da vivi era conosciuto solo da pochi e forse un nome non l'avranno neanche da morti. E' una tragedia nella tragedia quella degli stranieri regolari e irregolari di cui non si hanno più notizie dalla tremenda scossa delle 3,32 di lunedì, quando il terremoto ha colpito al cuore l'Aquila e l'Abruzzo". Ma chi sono questi "invisibili"? Ma la maggioranza degli stranieri a L'Aquila provenivano dall'Albania, dalla Kosova, dalla Macedonia e dalla Romania, e svolgevano quasi tutti il lavoro di muratore. Ed è la comunità' albanese che, dai dati fin qui raccolti, ha a pagato il prezzo più alto della tragedia con vittime e dispersi. Io ho pubblicato, diffuso l'allarme su questo dramma. Molti leggendo, sono rimasti scioccati. Altri mi hanno chiesto verifiche. Altri, ancora, mi hanno INSULTATO: "L'Italia non è un Paese sotto-sviluppato dell'Africa. L'Italia non è un Paese dei Balcani. L'Italia è un Paese civile ed europeo, democratico e dalle radici cristiane. Le Foibe, signor Vasta, l'hanno utilizzate i suoi amici slavi. E in Abruzzo nessuno ha attivato le foibe per fare scomparire i suoi amici kossovari. Lei è un altro IMBECILLE, e andrebbe denunciato alla Procura della Repubblica per PROCURATO ALLARME! Dott.Giovanni Genovese". Intanto,l a notizia oramai è ufficiale ...Gli "invisibili" sono esseri umani e hanno il diritto ad essere trattati come tali, qualunque sia la loro condizione giuridica nei confronti dello Stato italiano. Onorandomi di essere un "IMBECILLE" per il Dott.Genovese, ripeto: DOVE SONO FINITI i miei amici e fratelli kosovari, macedoni, rumeni, albanesi?
Orazio Vasta

giovedì 9 aprile 2009

DOMENICA DELLE PALME - E DIALLA E DHAFNIS


Domenica 12 Aprile 2009

Ingresso di N.S.G.C. a Gerusalemme
(Domenica delle Palme)

Digiuno con licenza di olio e vino



Antifone della festa:
1) Lettore: Igàpisa òti isakùsete Kìrios tis fonìs
tis dheìseòs mu.

Coro: Tes presvìes tis Theotòku, Sòter, sòsonimàs.

2) Lettore: Epìstefsa, dhiò elàlisa, egò
dhè etapinòthin sfòdhra.

Coro: Sòson imàs, Iiè Theù, o epì
pòlu ònu kathesthìs, psàllondàs si:
Alliluia.
3) Lettore: Exomologhìsthe to Kirìo, òti
agathòs, òti is ton eòna to èleos aftù.

Coro: Tin kinìn Anàstasin * pro tu
su Pàthus pistùmenos, * ek
nekròn ìghiras ton Làzaron,
Christè o Theòs; * òthen ke
imìs, os i pèdhes, * ta tis nìkis
sìmvola fèrondes, * si to nikitì
* tu thanàtu voòmen: *
Osannà en tis ipsìstis, * evloghimènos
o erchòmenos * en onòmati Kiriu.

Ingresso

Evloghimènos o erchòmenos
en onòmati Kirìu; Theòs
Kìrios ke epèfanen imìn.

Sòson imàs, Iiè Theù, o epì
pòlu ònu kathesthìs, psàllondàs si:
Alliluia.


Tropari della festa

Tin kinìn Anàstasin * pro tu
su Pàthus pistùmenos, * ek
nekròn ìghiras ton Làzaron,
Christè o Theòs; * òthen ke
imìs, os i pèdhes, * ta tis nìkis
sìmvola fèrondes, * si to nikitì
* tu thanàtu voòmen: *
Osannà en tis ipsìstis, * evloghimènos
o erchòmenos * en onòmati Kiriu.


Sepolti assieme a Te, o Cristo
Dio nostro, per mezzo
del battesimo, per la tua risurrezione
siamo fatti degni
della vita immortale. Perciò
inneggiando gridiamo a Te:
Osanna nel più alto dei cieli;
benedetto Colui che viene
nel nome del Signore.


(Tropario del Santo della Chiesa)

……… ……. ……..


Kontakion

O Cristo Dio, che nei cieli sei
assiso sul trono e sulla terra
siedi su di un puledro, ti siano
anche accette le lodi degli
Angeli e le acclamazioni
dei fanciulli giudei che a te
gridano: Benedetto sei, Tu
che vieni a rialzare Adamo.

Apostolo (Filip. 4, 4-9 )

- Benedetto colui che viene nel nome del
Signore. Il Signore è Dio ed è apparso a
noi. (Sal. 117,26)
- Celebrate il Signore perché è buono, perché
eterna è la sua misericordia. (Sal. 117,29)

Lettura dalla lettera di San Paolo ai Filippesi.

Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà
con voi!

Alliluia (3 volte).

- Cantate al Signore un canto nuovo, perché
ha compiuto prodigi. (Sal. 97,1)

Alliluia (3 volte).

- Tutti i confini della terra hanno veduto la
salvezza del nostro Dio. (Sal. 97,3)
Alliluia (3 volte).

Vangelo (Giov. 12, 1-18) )

Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché questo olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darlo ai poveri?” Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”. Intanto una gran folla di Giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere
Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù. Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: “Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina”. Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto. Intanto la gente che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo risuscitò dai morti, gli rendeva testimonianza. Anche per questo la folla gli andò incontro, perché aveva udito che aveva compiuto quel segno.


MEGALINARION

Il Signore è Dio ed è apparso a noi. Celebrate con
esultanza la festa, e giubilando venite a magnificare
il Cristo, con palme e rami, gridando a Lui l’inno: Benedetto
Colui che viene nel nome del Signore, nostro Salvatore.

Kinonikon
Evloghimènos o erchòmenos
en onòmati Kirìu.
(3 volte)Alliluia (3 volte).

Dopo “Sóson, o theós” si canta :
Tin kinìn Anàstasin * pro tu
su Pàthus pistùmenos, * ek
nekròn ìghiras ton Làzaron,
Christè o Theòs; * òthen ke
imìs, os i pèdhes, * ta tis nìkis
sìmvola fèrondes, * si to nikitì
* tu thanàtu voòmen: *
Osannà en tis ipsìstis, * evloghimènos
o erchòmenos * en onòmati Kiriu.








LA GRANDE QUARESIMA : Il Sabato di Lazzaro

Dal Sito di P. Giovanni Festa - Palermo

Il Sabato di Lazzaro

La sesta e ultima settimana di Quaresima si chiama "Settimana delle Palme". Nei sei giorni che precedono il sabato di Lazzaro e la Domenica delle Palme, la liturgia della Chiesa ci fa seguire il Cristo a cominciare dal suo primo annuncio della morte del suo amico e dall’inizio del suo viaggio a Betania ed a Gerusalemme. Il tema ed il tono di questa settimana sono annunciati al vespro della domenica precedente: "Cominciando con zelo la sesta settimana di Quaresima, offriremo al Signore inni, annunciando la festa delle palme, a lui che viene con gloria e potenza divina a Gerusalemme per mettere a morte la morte...".
Il centro dell'attenzione è Lazzaro, la sua malattia, la sua morte ed il dolore dei suoi congiunti e la reazione del Cristo a tutto ciò. Così al lunedì leggiamo: "Oggi la malattia di Lazzaro appare al Cristo mentre egli cammina sull’altra riva del Giordano...". Al martedì udiamo le parole: "Ieri ed oggi Lazzaro è malato...". Al mercoledì si legge: "Oggi Lazzaro morto è portato alla sepoltura ed i suoi congiunti piangono...". Al giovedì: "Due giorni or sono Lazzaro è morto...". Infine al venerdì: "Domani il Cristo viene a sollevare il fratello morto (di Marta e Maria)...".
Tutta la settimana passa così nella contemplazione spirituale del prossimo incontro tra Cristo e la morte, dapprima nella persona del suo amico Lazzaro, poi nella morte del Cristo stesso. È l'avvicinarsi di quell'ora del Cristo di cui egli stesso ha parlato e verso la quale era rivolto tutto il suo ministero terreno. Dobbiamo dunque chiederci: Qual è il posto ed il significato di questa contemplazione nella liturgia quaresimale? In che rapporto sta con il nostro sforzo quaresimale? Queste domande ne presuppongono un'altra nella quale dobbiamo brevemente trattenerci. Nella commemorazione degli avvenimenti della vita del Cristo, la Chiesa molto spesso, se non sempre, trasferisce il passato nel presente. Così nel giorno del Natale cantiamo: "Oggi la Vergine dà alla luce..."; il Venerdì Santo: "Oggi sta davanti a Pilato..."; nella Domenica delle Palme: "Oggi egli viene a Gerusalemme. ..". Da qui la domanda: qual è il significato di tale trasposizione, il senso di questo "oggi" liturgico? La stragrande maggioranza di coloro che frequentano la chiesa probabilmente l’interpreta come una metafora retorica, come una “figura poetica”. Il nostro moderno accostamento al culto è o razionale o sentimentale.
L’accostamento razionale consiste nel ridurre la celebrazione liturgica a “idee”. Esso ha le radici nella teologia “occidentalizzante” che s’è sviluppata nell’Oriente ortodosso dopo il tramonto dell’età patristica, per la quale la liturgia è, nel migliore dei casi, materiale rozzo per ordinate definizioni e proposizioni intellettuali. Quello che nel culto non può essere ridotto ad una verità intellettuale è etichettato come “poesia”, cioè come qualcosa da non prendersi troppo seriamente. E poiché è ovvio che gli avvenimenti commemorati dalla Chiesa appartengono al passato, all’oggi liturgico non viene attribuito alcun significato serio. Per quanto concerne l’accostamento sentimentale, esso è il risultato di una pietà individualistica e concentrata nell’io, che è in molti casi la sostituzione della teologia intellettuale. Per questo genere di pietà il culto è soprattutto un’utile cornice per la preghiera personale, uno sfondo ispiratore il cui fine consiste nel “riscaldare” il nostro cuore e dirigerlo verso Dio. Il contenuto ed il significato degli uffici liturgici, dei testi sacri, dei riti e delle azioni sono in questo caso di secondaria importanza, essi sono utili ed adeguati finché mi fanno pregare! Ed in tal modo l’oggi liturgico si dissolve come se fossero tutti gli altri testi liturgici una specie di “preghiera” indifferentemente devozionale ed ispirata.
A causa della lunga consuetudine della nostra mentalità ecclesiastica con questi due modi di accostarsi all’ufficio liturgico oggi è molto difficile dimostrare che la reale liturgia della Chiesa non può essere ridotta né a "idee" né ad una "preghiera"; non si possono celebrare idee! Per quanto riguarda la preghiera personale, non è detto nell’Evangelo che quando desideriamo pregare dobbiamo chiuderci nella nostra camera ed entrare lì in comunione personale con Dio? (cfr. Matteo 6, 6). Il concetto di celebrazione implica un avvenimento e la reazione sociale o di ciascun membro ad esso. Una celebrazione è possibile solo quando la gente si raduna insieme e, trascendendo la separazione naturale e l’isolamento reciproco, reagisce insieme come un corpo, come fa una persona di fronte ad un avvenimento (per esempio l'arrivo della primavera, un matrimonio, un funerale, una vittoria, ecc...). Ed il miracolo naturale di ogni celebrazione consiste precisamente nel fatto che essa trascende, sia pur per un tempo determinato, il livello delle idee e quello dell'individualismo . Nella celebrazione si perde davvero se stessi e si trovano gli altri, in un’unica via. Ma qual è il significato dell'Oggi liturgico con cui la Chiesa inaugura tutte le sue celebrazioni? In che senso sono passati gli eventi celebrati Oggi?
Si può dire, senza paura di esagerazione, che tutta la vita della Chiesa è una continua commemorazione e memoria. Alla fine di ogni ufficio divino ci ricordiamo i nomi dei santi "di cui celebriamo la memoria"; ma, dietro a tutte queste memorie, è la Chiesa ad essere il memoriale di Cristo. Da un punto di vista puramente naturale, la memoria è una facoltà ambigua. Così, il ricordare qualcuno che amiamo e che abbiamo perduto significa due cose. Da un lato la memoria è molto più che una semplice conoscenza del passato. Quando io ricordo mio defunto padre, io lo vedo: egli è presente nella mia memoria, non come una somma totale di tutto ciò che conosco di lui, bensì in tutta la sua realtà vivente. Tuttavia, d'altra parte, è proprio questa presenza che mi fa sentire acutamente che egli non è più qui, che mai più su questa terra toccherò quella mano che vedo così vividamente nella mia memoria. La memoria è così la più meravigliosa e nello stesso tempo la più tragica di tutte le facoltà umane, poiché nulla rivela meglio la natura spezzata della nostra vita, l'impossibilità per l'uomo di conservare realmente e di possedere davvero qualcosa in questo mondo. La memoria ci rivela che il "tempo e la morte regnano sulla terra".
Ma è appunto a causa di questa funzione unicamente umana della memoria, che i Cristiani si concentrano su di essa, poiché essa consiste in primo luogo nel far memoria di un Uomo, di un Evento, di una Notte, nella cui profondità e oscurità ci venne detto: "...fate questo in memoria di me". Ed ecco, il miracolo si realizza! Noi facciamo memoria di Lui ed Egli è qui: non come un'immagine nostalgica del passato, non come un triste "non più", ma con tale intensità di presenza, che la Chiesa può eternamente ripetere le parole dei discepoli di Emmaus: "Non bruciavano i nostri cuori nel petto...?" (Luca 24, 32).
La memoria naturale è in primo luogo la "presenza di un assente", cosi che quanto più colui che ricordiamo è presente, tanto più acuta è la sofferenza per la sua assenza. Ma, nel Cristo, la memoria è diventata di nuovo la facoltà di ricomporre il tempo spezzato dal peccato e dalla morte, dall'odio e dall'oblio. Ed è questa memoria nuova in quanto potere superiore sul tempo e sulla sua frantumazione, che si trova al centro della celebrazione liturgica, dell'oggi liturgico. Certo, non c’è dubbio, la Vergine non dà alla luce oggi; nessuno, attualmente, sta di fronte a Pilato; ed in quanto fatti, questi eventi appartengono al passato. Ma oggi noi possiamo far memoria di questi fatti e la Chiesa è in primo luogo il dono e il potere di questa memoria che trasforma i fatti del passato in eventi di una portata eterna.
La celebrazione liturgica è così un ri-entrare della Chiesa nell'evento e ciò non significa soltanto la sua “idea”, ma la sua gioia o la sua tristezza, la sua vita e la sua concreta realtà. Una cosa è il sapere che con il grido "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? " il Cristo crocifisso manifestò la sua “kenosis” e la sua umiltà. Ma è una cosa del tutto diversa celebrarlo ogni anno in quel Venerdì unico in cui, nel quale senza cercar di razionalizzare, sappiamo con assoluta certezza che queste parole, proferite una volta per tutte, rimangono eternamente reali così che nessuna vittoria, nessuna gloria, nessuna "sintesi" potranno mai cancellarle. Una cosa è spiegare che la risurrezione di Lazzaro aveva lo scopo di "confermare la risurrezione universale" (cfr. il Tropario del giorno): una cosa ben diversa è celebrare giorno dopo giorno, per un'intera settimana, questo lento approssimarsi dell'incontro tra la vita e la morte, il divenire parte di esso, il vedere con i nostri stessi occhi e il sentire con tutto il nostro essere ciò che comportano le parole di Giovanni: "Egli gemeva nel suo spirito, era turbato e... piangeva" (Giovanni 11, 33-35).
Per noi e a noi tutto ciò accade oggi. Noi non eravamo lì a Betania, presso la tomba, con le sorelle di Lazzaro che gridavano in pianto. L'Evangelo ce ne dà solamente conoscenza. Ma nella celebrazione della Chiesa, oggi, accade che un fatto storico divenga un evento per noi, per me, un effetto nella mia vita, una memoria, una gioia. La teologia non può spingersi oltre l'-idea-. E dal punto di vista dell'idea, abbiamo forse bisogno di questi cinque lunghi giorni, quando è sufficiente dire che la risurrezione di Lazzaro aveva lo scopo di "confermare la risurrezione universale"? Ma il punto sta proprio qui: che in sé e per sé questa affermazione non conferma niente. La vera “conferma” viene dalla celebrazione, e precisamente da quei cinque giorni durante i quali noi siamo testimoni dell'inizio di questa lotta mortale fra la vita e la morte e cominciamo non solo a capire quanto a essere testimoni del Cristo che sta andando a mettere a morte la morte. La risurrezione di Lazzaro, la meravigliosa celebrazione di questo sabato unico, è al di là della Quaresima. Il venerdì che lo precede cantiamo: "Avendo portato a termine gli edificanti quaranta giorni..." e, in termini liturgici, il sabato di Lazzaro e la Domenica delle Palme sono il preludio della croce. Ma l'ultima settimana di Quaresima, che è una continua pre-celebrazione di questi giorni, è la rivelazione definitiva del significato della Quaresima.
Abbiamo più volte detto che la Quaresima è la preparazione alla Pasqua; in realtà, però, nella comune esperienza, che per noi ora è divenuta ormai tradizionale, questa preparazione rimane astratta ed è tale solo di nome. La Quaresima e la Pasqua sono poste l'una accanto all'altra, ma senza una reale comprensione del loro legame e della loro interdipendenza. Anche se la Quaresima non è intesa come il periodo dell’adempimento della Confessione e della Comunione annuale, è di solito pensata in termini di sforzo individuale, anche solo così essa resta incentrata su se stessa. In altre parole, ciò che sembra virtualmente assente dalla nostra esperienza quaresimale è quello sforzo fisico e spirituale finalizzato alla nostra partecipazione all'oggi della Risurrezione del Cristo; non una moralità astratta, né un progresso morale, non un maggior controllo delle passioni e neppure un perfezionamento personale, bensì la partecipazione all'oggi ultimo e totale del Cristo che tutto abbraccia. Una spiritualità cristiana che non mirasse a questo rischierebbe di diventare pseudo-cristiana, poichè, in ultima analisi, sarebbe motivata dall’"io" e non da Cristo. Vi è il pericolo che, una volta purificata la dimora del cuore, fatta pulita e liberata dal demonio che l'abitava, essa resti vuota e il demonio vi ritorni "prendendo con sé altri sette spiriti peggiori di lui, ed essi entrino e vi alloggino e la condizione finale di quell'uomo diventi peggiore della prima" (Luca 11, 26). In questo mondo ogni cosa, ed anche la “spiritualità” può essere demoniaca. Pertanto è molto importante recuperare il significato ed il ritorno della Quaresima quale autentica preparazione al grande oggi di Pasqua.
Abbiamo visto ora che la Quaresima è divisa in due parti. Prima della Domenica della Croce la Chiesa ci invita a concentrare la nostra attenzione su noi stessi, a lottare contro la carne e le passioni, contro il male e tutti gli altri peccati. Ma, pur facendo questo, siamo costantemente esortati a guardare avanti, a misurare e a motivare il nostro sforzo con "qualcosa di meglio", preparato per noi. Poi, a partire dalla Domenica della Croce, subentra il mistero della sofferenza di Cristo, della sua croce e della sua morte, che diventa il centro della celebrazione quaresimale. Essa diventa la "salita a Gerusalemme" . Infine, durante quest'ultima settimana di preparazione, la celebrazione del mistero ha inizio. Lo sforzo quaresimale ci ha resi capaci di allontanare tutto ciò che abitualmente e continuamente oscura in maniera consistente l'oggetto centrale della nostra fede, della nostra speranza e della nostra gioia. Il tempo stesso, per così dire, arriva ad un termine. Esso è ora misurato non in base alle nostre solite preoccupazioni ed affanni, ma da ciò che avviene sulla via che porta a Betania e poi a Gerusalemme. E, una volta di più, tutto questo non è retorica. Per colui che ha gustato la vera vita liturgica, fosse pure una sola volta e anche in modo imperfetto, vien quasi da sé che, a partire dal momento in cui udiamo: "Gioisci, o Betania, dimora di Lazzaro..." e poi: "Domani il Cristo viene...", il mondo esterno diventi un po' irreale e si provi quasi fatica a piegarsi alla necessità del contatto quotidiano con esso. La "realtà" è ciò che avviene nella Chiesa, in quella celebrazione che giorno dopo giorno ci fa capire che cosa significhi attendere e perché il Cristianesimo sia, prima di tutto, attesa e preparazione. Così, quando arriva quel venerdì sera e noi cantiamo: "Avendo portato a termine gli edificanti quaranta giorni...", non abbiamo semplicemente adempiuto a un "obbligo" cristiano annuale; siamo pronti a far nostre le parole che canteremo il giorno seguente:
"In Lazzaro, il Cristo già ti distrugge, o Morte! E dov'è, o Inferno, la tua vittoria...? ".
da A. Schmemann, “The great Lent”, St. Vladimir's Seminary Press 1974, 79-85 trad. A. S.In “Messaggero Ortodosso”, Roma, aprile-maggio 1986, nn. 4-5, pp. 4-11

mercoledì 8 aprile 2009

TRAGEDIA ABRUZZO: SOLIDARIETA' E AIUTI ANCHE DALL'ALBANIA



Il Presidente della Repubblica albanese Bamir Topi ha inviato questa mattina un messaggio al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano e al Premier Silvio Berlusconi esprimendo profondo cordoglio per la tragedia:"Desidero esprimere la mia amarezza per questa tragica situazione che ha toccato l'amico popolo italiano e desidero inviare le mie profonde condoglianze ai familiari delle vittime a nome mio e del popolo albanese."
Anche il Primo Ministro Sali Berisha ha inviato a Silvio Berlusconi un messaggio di " solidarieta' e simpatia per le famiglie delle vittime, per il governo e per l'amico popolo italiano". Berisha ha comunicato che il governo albanese ha deciso di destinare alle famiglie delle vittime un piccolo contributo di 50 mila euro. Parole di solidarieta' ai vertici istituzionali italiani anche dal Sindaco di Tirana e leader del Partito Socialista Edi Rama.

Dal sito: Albania News

Dal Blog di Beppe Grillo

Inserisco questo post molto significativo, estratto dal blog di Beppe Grillo, di un architetto di Sulmona. Io sono ignorante in materia, ma a me è sembrato molto interessante inserirlo, non per polemizzare, ma per dare voce a chi senza la Rete resterebbe nell'anonimato e il suo pensiero non verrebbe conosciuto.


Caro Beppe,
sono un architetto di Sulmona è sto vedendo in continuazione telegiornali e speciali TV riguardo il terremoto. Più li vedo è più mi irrito sentendo parlare di assoluta fatalità, di impossibilità di prevedere e stronzate del genere.
Innazitutto si tratta, notoriamente, di una zona ad alto rischio sismico, e sono mesi che si sentono evidentissime scosse di terremoto, tanto che diversi ragazzi che studiano a L’Aquila sono già andati via da più di una settimana perchè avevano avvertito un aumento delle scosse, ma tutti si guardano bene da intervistare queste persone. Due mesi fa sono stato svegliato in piena notte da una scossa, sto nella campagna della periferia di Sulmona ed abito in una villetta di soli due piani e non in un piano alto di un palazzo dove le scosse si possono avvertire con maggiore effetto, il giorno dopo ho visto telegiornali, giornali, ma nulla a riguardo! tanto che ero sicuro di aver sognato tutto. Quello che succedeva veniva totalmente ignorato! esistevano solo romeni.
E’ mai possibile che dopo tutte queste scosse nessun amministratore di nessun comune, oppure la protezione, oppure qualsiasi altro organo preposto e non, si siano degnati di fare una ricognizione degli edifici più a rischio nel caso ci fossero state scosse più forti?
Nulla di nulla! mesi di scosse e nessuno muove un dito! in una zona colma di edifici antichi, o semplicemente, vecchi, oltretutto ad alto rischio sismico si aspetta semplicemente che le scosse spariscano così come sono venute, finchè ad un certo punto arriva quella forte, non fortissima, ma semplicemente forte! ed è il dramma, come se fosse stato improvviso.
I telegiornali e gli speciali che si preoccupano, per la maggior parte del tempo, di dire che era imprevedibile, che non si poteva immaginare una cosa simile, che li istituzioni hanno operato al meglio possibile e quanto sono brave queste istituzioni.
Inoltre si aggiunge la continua critica all’ormai famoso tecnico del Gran Sasso, criticato sempre in sua assenza, senza dire chi è, che tipo di lavoro fa al Gran Sasso, per quale motivo inviava dei resoconti alla protezione civile, è solo una persona da criticare perchè i terremoti sono imprevedibili! anche se ci si trova in una zona altamente sismica e le scosse cominciano mesi prima e tendono ad intensificarsi, I TERREMOTI DEVONO ESSERE TOTALMENTE IMPREVEDIBILI.
Si è sentito dire che non si poteva evacuare un’intera regione, ma perchè bisognava evacuare un’intera regione? il terremoto non uccide le persone, ma è l’edificio che cade in testa alle persone ad uccidere! si poteva benissimo verificare se i dati relativi al gas radon emesso in questo periodo fossero in qualche modo in relazione alle scosse e alla loro intensità, si calcolava una probabilità, e quando questa probabilità era verificata, PERCHE’ QUESTA ERA VERIFICATA! comunicarla alla popolazione, così quando i valori sarebbero stati allarmanti si invitava la popolazione ad uscire dalle case, e se questo allarme succedeva di notte la si invitava a dormire nelle auto, come stanno facendo in questi giorni moltissime persone che vedo la sera in diversi piazzali dei comuni intorno a Sulmona. Questo era semplicissimo da fare, c’erano gli strumenti per ricavarne una semplice probabilità ed attuare delle semplicissime soluzioni temporanee. Invece incompetenza e menefreghismo allo stato puro.
In questi mesi c’era, anche, tutto il tempo di verificare quali sarebbero stati gli edifici più a rischio crollo, perchè, infatti sono stati i crolli ad uccidere, non gli edifici diventati inagibili. Su una popolazione di 70.000 abitanti, più quella dei Comuni limitrofi ci sono stati circa 200 morti, quindi gli edifici più a rischio si potevano individuare ed evacuare, questi si da evacuare, non l’intera regione, finchè non fossero finite le scosse.
Ma fare questo durante la campagna elettorale (ma per i politicanti quando finisce la campagna elettorale?) poteva non essere producente, se non fosse successo nulla come si faceva a spiegare tutto l’allarme messo in atto, invece dopo il dramma ci si può sempre fare belli per come si portano gli aiuti alla popolazione di fronte ad un “imprevedibile” terremoto.

Rivolta popolare nella Repubblica di Moldova

martedì 7 aprile 2009

Inviatoci dal nostro grande amico Gabrijè

Vita ed opere del nostro santo padre Bartolomeo da Rossano detto il Giovane

Nacque il nostro Santo nella terra di Calabria da pii genitori, dai quali sin dalla tenera età fu dato ad educare in un monastero
Avendo scelto la virtù per compagna della sua vita diede a vedere in organismo puerile una mente provetta. Non si dilettava infatti nei giuochi e nei trastulli, nelle facezie, nel correre e nel saltare, come sono soliti fare la maggior parte dei fanciulli, ma al contrario era dedito all’orazione e alle pie letture, esercitando la pietà verso Dio, e studiandosi di giungere alla più alta perfezione. Ma sopra tutte le sue azioni virtuose risplendeva l’amore al digiuno, cui egli si studiò di osservare sino all’ultimo suo respiro.
Fanciullo ancora, dai superiori del Monastero veniva mandato come un garzone nel vicino castello per qualche bisogno del monastero. Ora trovando spesso a desinare coloro, cui veniva mandato, invitato a mangiare con essi, egli non accettava l’invito, giustificando il rifiuto con un grazioso pretesto. Diceva: «Ho già mangiato nel monastero e quindi sono sazio». In tal modo, senza accettare l’invito, se ne tornava al monastero digiuno. E qui pure invitato da quei monaci a mangiare, esimendosi con lo stesso pretesto, serbava inviolato il merito.
Mentre pertanto così bene egli veniva educandosi in questo monastero, la fama del beatissimo Nilo, scorrendo da per tutto a guisa di messaggero divino, invitava quanti erano amanti della virtù, a mettersi sotto la direzione del Santo. Parlo di Nilo, il Giovane, anch’esso oriundo dalla Calabria, che per amore della solitudine, abbandonata la patria e pellegrinando di luogo in luogo, si era portato in Italia. Per fuggire la gloria degli uomini, che è d’inciampo alla virtù, si andava nascondendo nei luoghi più solitari. Ma poiché, a detta del Signore, non può rimanere nascosta una città posta sul monte non riuscì a Lui di rimanere celato: infatti la fama delle sue virtù, divulgandosi più del suono d’una tromba, rendeva manifesto l’Uomo di Dio. Pertanto non appena (Nilo) ebbe stabilito un monastero nelle parti della Campania, erano corsi da Lui oltre 60 monaci, tra i quali il giovane Bartolomeo, a Dio carissimo, di cui stiamo parlando.
Anche qui di bel nuovo la pratica della vita monastica e la ripresa delle fatiche e dei sudori primieri; anche qui il giovane Bartolomeo, a Dio diletto, si dava con fervore agli stessi esercizi di prima. Radunandosi i monaci alla Sacra Lezione, e talvolta essendo tutti sorpresi dal sonno, egli solo restava a vegliare insieme col Padre (Nilo), interrogandolo sopra i passi difficili della Sacra Scrittura, che dal Grande (Nilo) gli venivano spiegati, tanto che ammirato della sua condotta, mentre rimproverava gli altri, perché si lasciavano vincere dal sonno, incapaci di vegliare, ad esempio del giovanetto, di questi approvava l’alacrità ed il fervore nel bene.
E che avvenne in seguito? Era giusto ormai che il nostro gran Padre Nilo, liberato dalle diuturne fatiche ne riportasse il premio e, passato a vita migliore, godesse l’eterno godimento (dei beati). Il che accadde, poiché in bella vecchiaia lasciò questa vita e passò al Signore, che egli aveva amato. Pertanto dopo la morte di lui, tra coloro che tennero il governo dei fratelli, terzo fu l’ammirabile Bartolomeo ad assumere la dignità dell’egumenato. Non perseguì egli tal dignità, ma dalla dignità fu perseguito e molto più costrettovi dalla Comunità dei fratelli, quantunque ancora giovane di età. Anche in questo grave ufficio dié a vedere la sua umiltà e la sua modestia, mentre non volle da solo esercitare il governo della Comunità, ma chiese istantemente che gli si desse per coadiutore nel governo uno dei fratelli, insigne per prudenza e sagacità.
L’invidia però non permise che ciò durasse a lungo. Dopo che fu posto quale lampada sul candelabro e preparato a diffondere la sua bella luce chi può ridire quanto fosse carissimo ai suoi sudditi, quanto affabile con i forestieri, ammirabile ai lontani, ai vicini amabilissimo, soave nel parlare, sapiente nella dottrina e con quanto zelo si affaticasse nella composizione degli inni? Ne rendono testimonianza i sapientissimi cantici, che egli compose in onore della Tuttapura Madre di Dio e degli altri Santi, ripieni di ogni sapienza e di bella armonia, e, ciò che è assai mirabile, mentre era occupato e assorbito dalle cure del governo.
Frattanto durante il tempo in cui egli con tanta sapienza e fervore di spirito reggeva il governo della Comunità, gli affari del monastero prosperavano, ed aumentava pure la moltitudine dei monaci. E tale grazia di Dio era con lui, e benediceva i suoi disegni, che poté erigere in terra straniera un tempio assai grande e bello in onore della Madre di Dio (intendo parlare di questo tempio visibile e agli stranieri e agli indigeni, nel quale noi siamo soliti ivi recitare la Divina Ufficiatura a gloria di Dio), di ornarlo d’immagini e (arricchirlo) di vasi sacri, come pure di preziosissime e splendide suppellettili.
Non è fuor di proposito narrare qui il miracolo avvenuto durante la costruzione del tempio. Infatti, quale era il Beato, tali erano anche i suoi sudditi.
Ora il Santo stabilì che questo tempio poggiasse sopra delle colonne. E poiché una di queste colonne stava in un luogo elevato, quelli che erano stati incaricati di trasportarla, trascinatala a forza in un declivio, la lasciarono precipitare a basso, senza l’opera loro. Mentre pertanto quella con impeto irrefrenabile precipitava, un monaco del monastero, ignaro della discesa della colonna, si era fermato proprio sul passaggio di essa, rivolto altrove, non sapendo affatto quanto stava facendosi. Quelli intanto, sollevato il masso, accortisi che questo precipitava direttamente proprio in quel sito, e che il monaco né si voltava indietro, né si scansava dalla via del masso, altamente gridando verso di lui, lo avvisavano che evitasse il precipitare del masso. Ma egli tranquillamente voltatosi indietro e veduta la colonna in procinto d’investirlo, «Fermati», disse, e sull’istante il masso inanimato, come se fosse stato legato dalla parola del monaco, risté e cessò di muoversi. In tal modo successe questo grande e ammirabile prodigio.
Ne narreremo ora un altro non inferiore. Poco discosto dal tempio v’era un muro impastato con fango e pietra, all’ombra del quale il suddetto beato monaco, collocato il suo letto, concedeva un breve riposo al suo corpo. Ma questo muro, fosse per malizia del perverso demonio, oppure per caso, (come per lo più suole accadere), era per riuscire insidioso al monaco ivi dappresso. Infatti, una notte, crollando improvvisamente si vide abbattuto a terra; ma, (oh! amorosa protezione e pronto soccorso di Dio verso i suoi servi!) mentre il muro giaceva rovinato al suolo là sul luogo stesso, ove era il letto del monaco, questi, addormentato, com’era, e quindi ignaro dell’accaduto, si ritrovò sano e salvo in altro luogo.
Narreremo in seguito gli altri miracoli.
Ora dobbiamo tornare là donde ci siamo dipartiti, e riprendendo la narrazione delle cose spettanti al nostro santissimo Padre, dimostreremo all’evidenza in qual modo la virtù lo rese ammirabile a tutti, come più sopra già abbiamo accennato.
Colui, che in quel tempo sedeva sul Trono Apostolico essendo troppo giovane – il che non doveva essere – cedendo alle suggestioni della voluttà, era caduto in un fallo dell’umana fragilità. Ma, infine, dopo molto tempo, ravvedutosi del suo trascorso, e cercando perdono del suo fallo, volle avere il Padre (Bartolomeo) per mediatore e riconciliatore con Dio. Perciò, chiamato l’Uomo di Dio, con la più grande riverenza e benignità gli manifesta la passione, ricercandogli la cura conveniente. Il Santo non si atterrì per l’altezza del trono, non ebbe riguardo all’eccellenza della dignità, né ebbe la mira ai donativi e agli onori, come sono soliti fare molti medici delle anime, ma alla ferita mortale, di difficile guarigione, applicando il taglio opportuno, gli disse: «Non ti è lecito d’ora in poi di esercitare la dignità sacerdotale; che anzi devi deporla e placare Dio, che peccando irritasti». Ed il Pontefice non frappose indugio, né differì ad altro tempo l’esecuzione (dell’ordine del Santo), ma subito abbandonato il trono si ritirò a vita privata.
Quanto poi fosse caro ai Principi il discorso ora lo dimostrerò. Il Principe di Salerno, assalito con forza il Duca di Gaeta, lo fece prigioniero in guerra e lo tradusse in catene a Salerno . I congiunti del Duca, avendo mosso ogni pietra, come suol dirsi, per liberarlo dai ceppi, non riuscirono a nulla, e tutti i loro sforzi furono vani, e non v’era speranza alcuna di aiuto da nessuna parte. In tale situazione disperata si rifugiarono al porto serenissimo, voglio dire, al nostro Padre. Trattatone dapprima con i Principi della città di Tuscolo, supplicano il Santo di recarsi colà. (Al suo arrivo) che cosa non sanno dire, che cosa non fanno per piegare l’animo di lui? Piangevano miseramente, lo supplicavano istantemente, gli baciavano le mani, gli si prostravano ai piedi, dicendo che giammai lo avrebbero lasciato partire di là, né se ne sarebbero distaccati, poiché per l’infelice (Duca) non v’era altra speranza di liberazione, fuorché in lui. Egli, che non soffriva di vedere un’anima afflitta (senza consolarla), si piegò alle loro suppliche. Intraprende, pertanto, il faticoso viaggio e parte, pronto a dare l’anima sua per l’amico, conforme la parola del Signore. Che cosa avvenne poi? E che cosa dispose quel Dio, che glorifica con maggiore gloria quelli che lo glorificano, in siffatto negozio? Non appena il Principe ebbe notizia che il Santo era vicino gli uscì incontro con una grande moltitudine di popolo, poiché già lo conosceva da prima, ed era pienamente informato delle sue virtù lo ricevette con segni di benevolenza, salutandolo con tutto l’affetto. Ora qui mi opportuno narrare un graziosissimo fatto, e la digressione ci verrà compensata dalla meraviglia del prodigio accorso. Abitava nei pressi della città di Salerno un monaco. Costui aveva udito vantare da tutti la gran fama del Santo, il suo ascetismo, la sua santa condotta, la sua vita penitente, semplice ed umile, nel vederlo, in questa circostanza, circondato da tanta gente e accompagnato con tanto onore dai Principi, intese seco un tal quale umano risentimento, sospettando che fosse falso quanto si diceva di lui. Poiché, pensava, non poteva essere operatore di quelle virtù, di cui aveva udito parlare, chi era circondato da tanta gloria e da tal corteggio di onore.
Stando il monaco in questo pensiero, sopraggiunta la notte, si mise a dormire, e subito gli si rappresentò questo sogno: Gli pareva di vedere una Donna piena di vaghissimo splendore, che fermatasi vicino a lui lo riprendeva del suo pensiero, dicendogli: «Perché non ti sei portato a venerare il mio eremita?». Ed egli atterrito dalla visione e dall’aspetto e dalla grazia, che da quella Matrona emanava, riconosciuta in essa la Santissima Madre di Dio, con gran timore e riverenza Le rispose: «E chi è, o Signora, il tuo eremita?». «È proprio il monaco Bartolomeo, testé arrivato in questa città. Lui infatti io ritengo e chiamo mio eremita. Ciò inteso il monaco, e destatosi dal sonno, ripensando alla visione, si reca in fretta dal Santo e gli rivela il sospetto avuto, manifestandogli la visione. E chiesto ed ottenuto perdono, se ne tornò tutto lieto alla sua dimora. E d’allora in poi, fatto certo dall’apparizione della Santa Madre di Dio, persistette nel primo giusto concetto, che del Santo si era formato. Il Duca di Gaeta, poi, non solo fu liberato dalle catene e dalla prigione, ma di più, per la mediazione del Santo, ricevette dal Principe (di Salerno) la signoria su di un altro dominio. E così il Duca con gioia se ne tornò tra i suoi, glorificando Dio e rendendo moltissime grazie al Santo.
Si aggiunga, a testimonianza di quanto è stato detto, il fatto di Giovanni Scolastico, il che conferma, sia ciò che abbiamo narrato come anche manifesta l’amore dei Santi verso il nostro Beato Padre. Giuntagli la fama delle virtù, dell’ingegno e dell’eloquenza del nostro Santo, mossosi dall’isola di Sicilia, bramava di veder di presenza e godere della sua conversazione e delle sue orazioni. Mettendo, perciò, in esecuzione il suo proposito, intraprese il viaggio, e a termine di pochi giorni raggiunse il monastero. Ottenuto ciò che desiderava, avendo constatato che ciò che si aspettava era superiore alla fama, volle recarsi a Roma, per venerarvi i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo; come veramente fece. Venerate (le tombe dei santissimi Apostoli), e trattenutosi alcuni giorni a Roma, non avendo ricevuto da quel giusto attenzioni e cure, (forse per divina disposizione, affinché fosse manifesta la predilezione, che i santissimi Apostoli avevano per quell’Uomo di Dio, pur trovandosi ancora in questo mondo) seco stesso biasimò il Santo di inurbanità, e pensò di ritornarsene in patria, senza il suo beneplacito e la sua benedizione. Imbarcatosi, pertanto, su di una nave, si pose in cammino, eseguendo così ciò che aveva deliberato di fare; ma diversamente disponeva la Divina Provvidenza. Difatti, non appena la nave si inoltrò in mare, scatenatosi un vento contrario, veniva, sballottata da un luogo all’altro. E Giovanni, per più giorni, con grande disagio, trascinato qua e là per il mare, si trovò in preda all’angustia e alla ansietà, giacché altro non si aspettava che di morire annegato. Orbene, mentre essi navigavano nell’impotenza, in mezzo alla caligine, comparve un’altra nave che si avvicinava ad essi. Giovanni, interrogato e venuto a sapere che erano Amalfitani, e che facevano navigazione verso Roma, li pregò di prenderlo seco. Ciò fatto, dopo felice navigazione, approdarono al porto di Roma. Sbarcato Giovanni Scolastico dalla nave, si fermò in una località vicina al mare a godervi la quiete ed il riposo, pensieroso e melanconico, indeciso sul da fare. Mentre, pertanto, se ne stava così triste ed addolorato nel cuore, gli apparvero sulle acque del mare due uomini, che si dirigevano verso di lui. Assomigliavano essi ai santi Corifei degli Apostoli Pietro e Paolo. Avvicinatisi, gli dissero: «Salve, o amico! Donde vieni? E dove vai? Perché te ne stai qui tutto solitario?». Ed egli con timore narrò l’accaduto ed i suoi propositi per l’avvenire. Allora i due Personaggi apparsi, rimproverando la sua inconsiderazione, gli dissero: «Non ti sei ben consigliato; infatti perché partendo non ti sei premunito della benedizione del Padre Bartolomeo? Giacché, in tal modo, con speditezza e gaudio avresti navigato verso la patria». E Giovanni rimasto attonito per il grande splendore dei Personaggi, intimorito li interrogò : «E voi, chi siete, Signori?». E subito uno di essi, stesa la mano destra, indicò il tempio del Santo Apostolo Paolo, dicendo: «Quella è la mia casa!». L’altro poi, additando verso Roma, indicava il tempio del santo Apostolo Pietro, affermando: «Ecco, quella è la mia grande casa!». Così detto, disparvero dai suoi occhi. Pertanto, quando lo Scolastico dalla figura e dalle parole riconobbe in essi i Corifei degli Apostoli, meditando le parole dette da loro e comprendendone il significato, nuovamente si recò a Roma, e, con lettera scritta di propria mano, manifestò tutto al Santo, domandò perdono del suo errato giudizio e gli chiese che rendesse propizio con la preghiera il suo ritorno in patria. Ottenuto l’intento, lieto, con felice navigazione si avviò verso la patria.
Sparsasi dovunque la fama del nostro Santo, e accorrendo quotidianamente verso di lui una innumerevole moltitudine di gente, alcuni egli nutriva con la parola della divina grazia, altri generosamente provvedeva anche nelle loro necessità temporali: gli uni e gli altri poi erano sostentati e nell’anima e nel corpo.
Ma essendo il Santo anche egli uomo, era necessario che fosse provato.
Un anno la regione fu colpita dalla carestia: tutti, e indigeni e forestieri, ricorrevano al monastero, come al porto di rifugio. I monaci stessi erano ridotti all’estrema penuria, (giacché anche ai giusti può accadere di essere abbandonati, secondo i giudizi che ben conosce l’Occhio che tutto scruta). Il Beato vedeva con dolore la moltitudine del popolo e il monastero sprovvisti dei cibi corporali, poiché i granai si erano esauriti per l’affluenza di coloro che accorrevano. Venute a mancare le vettovaglie e gli agricoltori, mentre gli amici erano nell’impossibilità di dargli aiuto, l’Uomo di Dio, non potendo rimirare le anime afflitte dalla calamità della fame, decise di fuggirsene; ciò che fece, intraprendendo la via di Roma, in compagnia di altri due monaci. Ma chi non ammirerà stupefatto, o Cristo, i tuoi prodigi e la liberalità con la quale tu liberi con sapiente provvidenza gli afflitti? Si narra pertanto che il Beato, durante il cammino, fu colto dal sonno e perciò disse a quelli che erano con lui: «Sospendete alquanto il viaggio e fatemi riposare un poco». Fatto questo, e addormentatosi il Beato Padre sul suolo, ebbe un sogno divino, nel quale ebbe questa visione: Gli sembrava di vedere un personaggio sacro, vestito di abiti sacerdotali, il quale, appressatosi a lui, e riprendendolo della sua fuga, lo esortava a ritornare nel monastero, fidente nelle ineffabili misericordie di Dio, e a non volere irritare con la sua pusillanimità il Signore, «che apre la sua mano e colma ogni essere vivente di benedizione» Colui che gli era apparso gli sembrava fosse il grande Gregorio, il Dialogo, il quale porse nelle mani del nostro Beato Padre anche un vasetto di profumi, che spiravano una singolare fragranza. Svegliatosi frattanto, non senza suo stupore, fiducioso, pose in atto ciò che gli era stato comandato e pieno di buone speranze ritornò al monastero. Nel tornare vide un tale che scendeva dalla città di Tuscolo e veniva verso il monastero. Tranquillamente rivoltosi ai compagni, disse: «Costui viene a portarci buone nuove». Ed infatti veniva veramente ad annunziare che il Conte di Tuscolo donava al Beato Padre 100 moggia di grano. Da allora il Beato Padre con mano generosa abbondantemente dispensava gli aiuti, fiducioso in Dio e nel santo Pontefice (Gregorio il dialogo), che mediante la visione lo aveva rincuorato.
Èsufficiente questo a dimostrare la predilezione di Dio verso il Santo, e la gloria con la quale fu dal Signore esaltato, come pure a farci conoscere quanta familiarità avessero con lui i Santi. Ma il discorso richiede che si faccia menzione non solo dei miracoli, che Dio operò per mezzo del nostro Beato Padre quando egli era in vita, ma anche durante e dopo il suo transito a Dio: miracoli veramente stupendi e assolutamente certi.
Noi ammiriamo Elia il Tesbita per aver ottenuto la potestà di chiudere e aprire i cieli ammiriamo Gedeone, cui fu concesso di fare esperimento sul vello e sull’aia il primo per l’incredulità e per la durezza di cuore del popolo, l’altro per la debolezza dell’esercito, e forse per una più provvida divina disposizione. Ma non fu inferiore il prodigio operato dal nostro Santo Padre al confronto di questi, come lo dimostrerà la narrazione.
Si era in tempo di estate, anzi nel cuore dell’estate, e l’aia era piena di spighe, e non di spighe immature e di probabile raccolto, ma ormai mietute e pronte per la trebbiatura. Come però suole spesso accadere, ecco d’improvviso accumularsi le nubi e scatenarsi un temporale col fragore dei tuoni, mentre le tenebre avvolgevano l’aria. Il cielo si era oscurato e la pioggia era tanto imminente che già si scorgeva piovere nei dintorni. Lo scoraggiamento e la tristezza avevano sì penosamente abbattuto gli operai, che prorompevano in bestemmie e in tutti gli altri trasporti del dolore. Ma l’Uomo di Dio (che era presente ad incoraggiare gli operai e a rincuorarli nel lavoro), dapprima con esortazioni li fece cessare da siffatte parole, sollevando il loro scoraggiamento, poscia li invitò a mangiare, dicendo: «Venite a desinare, o figliuoli, e il Signore opererà con voi le sue misericordie».
Dopo aver così animato gli operai, rimase nell’aia con un solo compagno; si pose in ginocchio, rivolto verso l’oriente, e con le preghiere miste a lagrime supplicava Iddio ad esser propizio, e a trasportare altrove la pioggia, che era imminente con danno e rovina delle messi. Ebbene, che cosa accadde? Colui che è sollecito a soccorrere e che «fa la volontà di coloro che lo temono» forse disprezzò il suo Servo, o tardò ad esaudirlo? Niente affatto – ma rinnovò qui l’antico miracolo: infatti la pioggia, quasi ubbidiente al comando, cadeva impetuosa nei luoghi circostanti; mentre non ardì affatto appressarsi all’aia del giusto. Visto il miracolo, il grave abbattimento si converti in gioia, e tutti innalzarono a Dio le loro voci di ringraziamento, magnificando il suo Santo. Ma Egli, veramente umile, e diligentissimo custode delle leggi di Cristo, ancor più umile si manifestava, e attendeva, come al solito, a servire Dio, avendo per compagni il digiuno e la penitenza, sì da nutrirsi del solo necessario. Con il basso sentire di sé si avviliva talmente che neppure si conosceva che egli fosse il superiore. Consumava sé stesso nelle veglie, così da gareggiare quasi con gli Angeli; e oltre a ciò lavorava con le proprie mani, affaticandosi incessantemente. Difatti l’ammirabile Padre scriveva anche con venustà, come se fosse un calligrafo, e così perfettamente da non dare occasione alcuna di critica ai periti in questa materia.
Prima di por termine alla mia narrazione ricorderò un altro fatto prodigioso, e poscia gli altri miracoli avvenuti durante e dopo la sua morte. Il Monastero, con l’aiuto di Dio, era giunto ad avere un gran numero di fratelli. Occorrevano pertanto, per il servizio dei monaci e per gli altri bisogni, degli animali, fra cui anche dei cavalli. Una volta che il Santo era assente dal Monastero, uno dei cavalli, lasciato solo, divenne facile preda dei ladri. Il cavallo seguiva i ladri per un tratto di strada, disponendo così Iddio, sia perché essi si emendassero, come anche per glorificare il suo Santo, pur non presente. I ladri correvano lieti, mentre il cavallo teneva loro dietro. Ma attendiamo alla narrazione, giacché non è spiacevole, che anzi, oltre ad essere prodigiosa, e assai graziosa. Infatti quando i ladri credevano di aver raggiunto l’intento del furto e di possederne ormai il guadagno nella borsa, e pieni di speranza correvano, d’improvviso il cavallo si fermò, completamente immobile come un masso. Lo frustarono essi e colpirono di calci, e afferrandolo l’uno e l’altro per la cavezza, lo trascinarono con quanta forza avevano; ma il cavallo stava fermo, come cosa inanimata, senza affatto sentirli, ricusando di procedere oltre. Disperando perciò i ladri di poter avanzare per la via intrapresa volsero il cammino indietro per provare il cavallo; questo, non appena si accorse di camminare indietro, (oh! prodigio!) correva velocissimo e pieno di alacrità batteva la strada, per la quale era venuto. Visto ciò, essi furono colti da timore e stupore; e, rientrati in sé e discorrendo tra loro del prodigio, insieme col cavallo raggiunsero il monastero. Ivi confessarono l’operato, giurando di non commettere mai più i passati misfatti, ma di procacciarsi col lavoro delle proprie mani il sostentamento della vita. E così si comportarono.
In tutto, poi, veniva glorificato Iddio, che ancor più largamente esalta coloro che Lo glorificano.
Ma poiché era necessario che anch’egli, dopo aver compiuto il suo corso e conservata la fede , secondo il divino Paolo, fosse liberato dalle molte fatiche e sudori, e morisse per esser insieme con Cristo presente alla Triade, fonte di vita, cadde in quella infermità, con la quale raggiunse il suo beato fine.
Nello stesso giorno, in cui stava per emigrare da questa temporanea dimora, un monaco di nome Leonzio, insignito della dignità sacerdotale ed uno dei primi dignitari del monastero, terminato, come al solito, l’inno mattutino, postosi a dormire, udì una voce simile al tuono
[12], la quale così diceva: «È stato apparecchiato al Padre Bartolomeo un trono sempiterno». Il monaco, sorpreso dal timore, si alzò e, balzato con un salto fuori dalla cella, interrogava quelli che incontrava se anch’essi avessero sentito la voce; ma alla risposta di non aver udito nulla, egli soggiunse: «Eppure, io ritengo che quella voce sia stata udita persino nella città di Tuscolo». Certamente quella voce manifestava anche a noi i beni preparati al Santo e la gloria che egli stava per ottenere. Il Beato Padre passò al Signore quando già il giorno era declinato; ed ora è nei cieli a contemplare quel Dio che egli amò e servi; e stando al suo divino cospetto Lo supplica direttamente per noi .
Non è però giusto tralasciar di narrare il miracolo avvenuto dopo il suo beato transito, soprattutto perché concorda con la voce udita dal monaco Leonzio, e la conferma.
Un altro monaco, di nome Franco, ammalatosi, sembrava giunto al termine della vita. Venutagli a mancare la favella, pareva morto, esanime, immobile, non manifestando alcun segno di vita. Accorsero i fratelli, come al solito; e sostenendo alcuni che gli si desse sepoltura, altri invece che si differisse, il giorno ormai si avvicinava alla notte, e quegli nondimeno appariva morto. Preparatisi a fargli la lavanda per la sepoltura, appena gli versarono l’acqua e cominciarono a rivolgere il corpo da una parte all’altra, improvvisamente il morto diede segni di vita, e colui che poco prima era privo di favella, parlava, e lamentandosi con coloro che lo lavavano, soggiunse: «Perché, o fratelli, avete tentato di farmi violenza? Perché mi avete svegliato dal mio dolce sonno?». Ed essi gli risposero: «Vedendoti morto per tutta la giornata, ci decidemmo ora di lavarti». Ma l’infermo riprese a parlare: «Io (non so se fossi nel corpo o fuori del corpo ) mi vedevo camminare solitario in un certo luogo e due colombe mi precedevano, delle quali una bianca e l’altra nera; esse svolazzavano intorno a me, la bianca alla mia destra e la nera alla sinistra. E così, precedendomi le colombe ed io tenendo loro dietro, arrivammo in una pianura, si ripiena di luce e di fragranza da non potersi esprimere. Mentre io osservavo quella pianura, vidi presente il nostro Padre, circondato da una folla di poveri; e stendendo egli la mano, mi sembrava che distribuisse loro il pane. E quando il Santo, rivoltò gli occhi e mi vide: «Perché qui, o Franco, mi disse; chi ti ci ha condotto?». Ed io gli narrai come vi ero giunto. Il Padre di nuovo mi interrogò: «Come stanno i fratelli?». – «Bene, grazie a Dio e per le tue preghiere, risposi». – Ed egli: «Ritorna al monastero e dì ai Fratelli che perseverino nella tradizione da me loro lasciata». Detto ciò, mi sembrava che egli si inoltrasse più addentro nella pianura. Mentre egli camminava, ed io lo seguivo, che non volevo separarmi da lui, giungemmo in una città, la cui bellezza non può essere descritta da lingua umana. Entrato il Padre in uno dei palazzi che colà si trovavano, anche io vi entrai con lui. Ivi ammirai un trono assai magnifico, sul quale il Padre salì, ponendosi a sedere. Gli stavano accanto due personaggi, i cui volti erano più luminosi del sole. Rivoltosi intanto il Beato Padre e vistomi, disse: «Anche qui sei venuto, o Franco? Ritorna al monastero e, come già ti ho detto, esorta i fratelli a perseverare con costanza nella virtù e nelle opere buone e nella pazienza. Ed io spero nella mia Signora e Sovrana – e ciò dicendo sollevò gli occhi in alto –, che mai sarete abbandonati, e che io non mi separerò mai da voi, né in questo né nel futuro secolo». Mentre il Padre parlava così, anch’io, alzato lo sguardo al di sopra del suo capo, vidi, seduta su di un magnifico trono, una Matrona – la cui bellezza e lo splendore da Lei emanante non valgo descrivervi. Attorno a Lei alcuni splendidi personaggi stavano con timore e reverenza; ed io compresi che Ella era la Santissima Madre di Dio. Avendo ciò veduto ed ascoltato, uscii dal palazzo e nuovamente preceduto da quelle colombe sono tornato qua». Questo è ciò che il monaco riferì di aver visto ed ascoltato.
Noi però, doppiamente persuasi, sia per la virtuosa e perfetta vita del nostro santo Padre, come anche per i prodigi per sua intercessione da Dio operati, celebriamo con fermo giudizio e ardente amore sua memoria. E venerando il deposito delle sue sacre Reliquie preghiamo di averlo a nostro mediatore e intercessore presso il Salvatore e Dio nostro, affinché in virtù delle sue preghiere e per intercessione della Signora e Sovrana nostra, la sempre Vergine Madre di Dio, non veniamo esclusi dai beni che egli ha ereditati; ma noi seguiamo l’eredità e la porzione con tutti i Santi, cari allo stesso Cristo, Dio nostro, al Quale sia gloria col sempiterno suo Padre e al Coeterno, Principio di vita, Vivificante e Buono Spirito, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amìn.