Giampiero Comolli
I pellegrini dell'Assoluto
Storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente
Baldini e Castoldi Editore
Stampato nel settembre 2002
© 2002 Baldini e Castaldi S.p.A.
Collana “I Saggi” n.212
Da pagina 198 a pagina 203
Intervista fatta all’incirca nel 2000
Al servizio dell'ortodossia
È un uomo sui trent'anni, dall'aria buona e quieta, ma nel suo eloquio, nel suo sguardo si avverte una tensione mistica, un'ascetica vibrazione. So che fa il bancario e che da alcuni anni si è convertito al cristianesimo ortodosso. Mi riceve indossando una sorta di tonaca, di grembiulone nero, all'ingresso della piccola chiesa ortodossa dove nel tempo libero serve come «ipodiacono»: un incarico simile a quello del sacrestano. Di lui però non conosco il nome e, quando glielo chiedo, si schermisce: per eccesso di umiltà non me lo vuole dire. Quello che segue è il suo racconto.
Preferisco presentarmi come un servo di una comunità che crede. Non ho particolari ambizioni, sono qui per servire una realtà in cui il Signore mi ha posto. Nella nostra comunità ognuno ha un compito, è tutta un'armonia, io sono semplicemente un servitore che vive in questa armonia, la serve e ne ha giovamento. Ma nulla si può fare senza credere: essere un credente, questo è fondamentale.
Ho avuto un'educazione religiosa molto, molto cattolica. Di quel cattolicesimo di paese, tanto semplice ma anche profondamente vero. Venivo da un piccolo centro del Meridione, radicato nelle sue origini cristiane. Si viveva una fede di tipo popolare, semplice e bella, una fede che soprattutto i miei nonni mi hanno testimoniato con grande bontà. Questo modo di vivere la fede, che mi è stato donato dalla loro testimonianza, è rimasto radicato in me, anche se la mia razionalità a un certo punto ha cercato di sottovalutarlo.
Durante l'adolescenza, infatti, mi sono staccato dalla fede, volevo essere razionale, scettico e scientista. Poi, verso i diciassette anni, incontrai per caso un gruppo di amici che vivevano un'esperienza di tipo cristiano cattolico, molto robusta. Ero meravigliato dalla letizia dei loro rapporti, dalla loro profonda vita comunitaria, e riscoprii così il fascino della vita cristiana. Capii che questi amici erano così buoni, non per loro merito, ma perché riconoscevano nella loro esistenza la volontà di un Altro che li guidava: il Signore Gesù. Decisi di assaporare anch'io questa letizia e piano piano riabbracciai l'esperienza cristiana. Tutto da allora mi divenne più lieto, anche se, orgoglioso e razionalista com'ero, dovetti cambiare totalmente me stesso.
Dai diciotto ai ventitré anni approfondii questa mia esperienza cristiana, senza diventare mai un bigotto. Quel nome e cognome che cambiava la mia vita si chiamava Gesù Cristo e quella nuova famiglia in cui ero entrato si chiamava Chiesa: il mio rapporto con Gesù Cristo dava senso alle cose attraverso la vita della Chiesa. L'abbraccio di Gesù non mi ha mai abbandonato, e quando io decisi di ricambiarlo lo feci in modo radicale. Verso i ventitré anni capii che essere tutto per Cristo significava la salvezza totale.
Gesù Cristo per me è colui senza il quale non posso fare niente. Lui è per me la Verità resa visibile: non solo un personaggio storico, ma una Persona divina che ho incontrato e continuo a incontrare, fisicamente e spiritualmente. Io so che devo seguirlo e mi rendo conto che questa sequela è giusta, perché ne godo cento volte tanto nella mia vita. L'abbraccio con Lui, infatti, mi fa essere vivo, lo sento sempre su di me. Semmai è il mio abbraccio verso di Lui a essere deficitario, e questa mia insufficienza, essa sì, è il mio dramma. Più grande è il suo amore verso di me, e più mi rendo conto del mio limite verso di Lui, cioè della mia distrazione, del mio peccato, del mio egoismo. Mi sento inadeguato a quanto Lui mi dà, e questo è fondamentale, perché mi aiuta a imparare l'umiltà. Si tratta insomma di un dramma sereno, perché Lui stesso mi dà gli strumenti per rimanere sulla sua strada.
Ma io non posso pensare all'abbraccio di Cristo, senza pensare ai fratelli che Lui mi ha messo intorno, che mi sono esempio e strumento per crescere nella fede. Non posso pensare al mio rapporto con il Signore senza la realtà della Chiesa. Vivere nella Chiesa è una grande grazia, perché un pover'uomo come me, per migliorare il proprio rapporto con il Signore, si può giovare della Tradizione cristiana custodita dalla Chiesa, può imparare la santità dagli insegnamenti dei santi Padri, i quali appunto, nel corso dei millenni, hanno già vissuto e testimoniato la santità.
Il mio passaggio all'ortodossia è stato estremamente armonioso, ma anche lungo e difficile, ed è durato circa tre anni e mezzo. Tutto nacque per caso, allorché entrai in una chiesa ortodossa, per ripararmi dalla pioggia. Per me gli ortodossi stavano in Russia e in Grecia, mai più pensavo che ve ne fossero anche in Italia. Era l'agosto del '96, pioveva a dirotto, passai per caso di fronte a una chiesa da dove uscivano dei canti, entrai bagnato come un pulcino, mi ritrovai dentro la celebrazione, e subito mi resi conto di un'esperienza diversa. L'esperienza di una Chiesa che ha saputo mantenere una spiritualità fedele alla Tradizione dei Padri, una Chiesa radicata nella propria origine.
Questo incontro mi stimolò a capire che esistevano altre realtà cristiane, in cui la trama dei valori non coincideva con quella che mi era stata insegnata. Mi sentii messo in discussione, e così volli tornare, quasi con un atteggiamento di sfida. Entrai con molta decisione una domenica, e dopo la liturgia mi misi a parlare con il sacerdote. Quello che mi colpì fu il suo, il loro amore per la Chiesa. Cominciammo ad approfondire insieme la storia del nostro reciproco amore per la Chiesa, io cattolico e loro ortodossi. Piano piano diventammo amici e fratelli, in senso cristiano, cioè complici di una vita di fede portata avanti insieme.
Iniziai a servire in questa comunità senza quasi rendermene conto, fino a quando divenne evidente che il mio posto era qui. Ma naturalmente non divenni subito ortodosso. La prima cosa che feci fu quella di offrire la mia nuova esperienza alla Chiesa cattolica, e quindi al mio padre spirituale. Iniziammo così un confronto in cui la mia anima era guidata dal sacerdote ortodosso e dal padre cattolico, affinché fosse fatto il volere di Dio e non il mio: non dovevo seguire il mio gusto, fare la scelta che personalmente mi piaceva o mi convinceva di più, bensì seguire quello che effettivamente il Signore voleva da me. La mia conversione non è stata determinata neanche da un ragionamento su quale delle due Chiese avesse ragione e quale torto: questo sarebbe stato un insulto a entrambe le Tradizioni. Piuttosto è avvenuto col tempo un prendere atto, un riconoscere che l'amore del Signore nei miei confronti, l'abbraccio che volevo sempre stringere con Lui, passava attraverso la Chiesa ortodossa.
Mi sono reso conto, abbiamo capito assieme che la strada offerta da questa Chiesa poteva dare maggiore completezza e ricchezza alla mia esperienza di fede, mentre nella mia esperienza di cattolico c'era qualcosa di deficitario. Ciò che reputo adesso mancante in un'esperienza cristiano-cattolica di tipo metropolitano - quale quella che può svilupparsi in una grande città - è il mordente. La Chiesa cattolica corteggia eccessivamente questa società segnata da un livello altissimo di ateismo: cerca di modernizzarsi secondo i criteri stessi di questa società, ma in tal modo l'esperienza di fede perde appunto di mordente, diventa deficitaria, e la Chiesa alla lunga rischia di soccombere agli imperativi stessi della società che corteggia. Invece io ho l'impressione che, per poter essere davvero moderna, la Chiesa dovrebbe recuperare la ricchezza del proprio passato, le radici della Tradizione, i tesori che i Padri ci hanno dato nel corso dei secoli. La Chiesa ortodossa ha appunto mantenuto una spiritualità molto fedele alla Tradizione dei Padri: una fedeltà che per me si è rivelata fondamentale al fine di approfondire il mio rapporto con il Signore. Perdere qualsiasi parte di questa Tradizione significa avere uno strumento in meno, un elemento in meno che ci permetta di diventare santi.
Amo la Chiesa cattolica non solo per quel che mi ha dato. La amo quando penso alla mia Italia, piena di martiri, piena di chiese da cui traspira la santità delle origini del cristianesimo. Ecco perché la mia conversione è stata così armoniosa. Sono contento di essere divenuto ortodosso, non in seguito a una contrapposizione fra Chiese, ma in virtù di un amore verso Cristo.
Certo, c'è stato un momento in cui ho maturato la decisione di passare all'ortodossia: dopo tre anni di preparazione e di servizio, tutto successe in una notte, devo ancora smaltire il sonno mancato. Durante quella notte di veglia mi resi definitivamente conto che la pienezza del mio cammino di fede era la Chiesa ortodossa. Allora, al mattino, mi presentai qui, chiesi di essere accettato e lo fui. Questo avveniva ad agosto dell'anno scorso. Da allora vado avanti con grande letizia, anche se è molto duro essere cristiani nella Chiesa ortodossa. La responsabilità, infatti, è enorme. C'è tutto un lavoro per imparare a non peccare più, c'è la disciplina della Chiesa, coi suoi digiuni e la sua preghiera costante. Se uno vuole diventare santo, se vuole amare Cristo e la Chiesa, qui gli strumenti li trova, ma è la fedeltà a questi strumenti che si rivela difficile. Tale fedeltà è, se vogliamo, la vera conversione.
Noi ad esempio digiuniamo a lungo, ed è difficile concepire il digiuno in una società atea e consumista come la nostra. Le preghiere di preparazione alla liturgia domenicale e all'eucaristia durano tutta la settimana, la quale per noi è sempre, interamente santa. E queste preghiere di preparazione sono così intense che ti fanno venire i brividi, ti fanno capire la tremenda potenza del Sacramento dell'Eucaristia. Venendo dal cattolicesimo, io ero abituato a un digiuno di un'ora, prima di avvicinarmi al Santissimo. Prepararsi invece all'eucaristia per tutta la settimana, questo atteggiamento di serietà estrema, ti fa arrivare al sacramento in una condizione veramente potente.
Quando parlavano della comunione, i miei amici cattolici sottolineavano l'aspetto personale del loro rapporto con il Signore. Mentre nell'ortodossia l'aspetto comunitario viene molto più enfatizzato. Nella comunione, infatti, non c'è soltanto il proprio rapporto personale con Gesù Cristo, ma questo rapporto avviene entro la comunità dei fedeli, testimoni e amanti del tuo gesto di comunione. Il proprio rapporto con il Signore è immerso nel rap¬porto con i fratelli. E quindi l'unità della Chiesa è totale.
Il mio servizio di ipodiacono è come quello di un servo, io ho il compito di far sì che i miei fratelli abbiano la possibilità di veni¬re qui, per incontrare Cristo pregando. Metto il sacerdote in con¬dizione di fare il suo lavoro, aiuto il coro, tengo in ordine la chie¬sa, sono solo un piccolo ingranaggio che permette a tutti di essere vicini al Signore, ciascuno secondo la sua vocazione. Ciò che dà si¬gnificato alla mia esistenza è l'essere servo di Dio: se smettessi di farlo non sarei più me stesso, è questo che mi tiene in piedi. Il mio futuro sono questi fratelli, di cui sono servo, un futuro che vedo nei loro volti. Non so quali altri compiti il Signore mi darà. Ma og¬gi sento più stretto, vicino, profondo, completo, maturo il mio rapporto con il Signore. Lui non si è mai allontanato da me, mi ha sempre abbracciato nello stesso modo, totalmente. Semmai ero io, sono io a essermi allontanato da Lui. Il punto su cui sempre mi in¬terrogo è quanto traditore o quanto amante io sia verso di Lui, fi¬no a che punto cioè io riesca a corrispondere con la mia fedeltà al suo grande, totale abbraccio.