Nacque il nostro Santo nella terra di Calabria da pii genitori, dai quali sin dalla tenera età fu dato ad educare in un monastero
Avendo scelto la virtù per compagna della sua vita diede a vedere in organismo puerile una mente provetta. Non si dilettava infatti nei giuochi e nei trastulli, nelle facezie, nel correre e nel saltare, come sono soliti fare la maggior parte dei fanciulli, ma al contrario era dedito all’orazione e alle pie letture, esercitando la pietà verso Dio, e studiandosi di giungere alla più alta perfezione. Ma sopra tutte le sue azioni virtuose risplendeva l’amore al digiuno, cui egli si studiò di osservare sino all’ultimo suo respiro.
Fanciullo ancora, dai superiori del Monastero veniva mandato come un garzone nel vicino castello per qualche bisogno del monastero. Ora trovando spesso a desinare coloro, cui veniva mandato, invitato a mangiare con essi, egli non accettava l’invito, giustificando il rifiuto con un grazioso pretesto. Diceva: «Ho già mangiato nel monastero e quindi sono sazio». In tal modo, senza accettare l’invito, se ne tornava al monastero digiuno. E qui pure invitato da quei monaci a mangiare, esimendosi con lo stesso pretesto, serbava inviolato il merito.
Mentre pertanto così bene egli veniva educandosi in questo monastero, la fama del beatissimo Nilo, scorrendo da per tutto a guisa di messaggero divino, invitava quanti erano amanti della virtù, a mettersi sotto la direzione del Santo. Parlo di Nilo, il Giovane, anch’esso oriundo dalla Calabria, che per amore della solitudine, abbandonata la patria e pellegrinando di luogo in luogo, si era portato in Italia. Per fuggire la gloria degli uomini, che è d’inciampo alla virtù, si andava nascondendo nei luoghi più solitari. Ma poiché, a detta del Signore, non può rimanere nascosta una città posta sul monte non riuscì a Lui di rimanere celato: infatti la fama delle sue virtù, divulgandosi più del suono d’una tromba, rendeva manifesto l’Uomo di Dio. Pertanto non appena (Nilo) ebbe stabilito un monastero nelle parti della Campania, erano corsi da Lui oltre 60 monaci, tra i quali il giovane Bartolomeo, a Dio carissimo, di cui stiamo parlando.
Anche qui di bel nuovo la pratica della vita monastica e la ripresa delle fatiche e dei sudori primieri; anche qui il giovane Bartolomeo, a Dio diletto, si dava con fervore agli stessi esercizi di prima. Radunandosi i monaci alla Sacra Lezione, e talvolta essendo tutti sorpresi dal sonno, egli solo restava a vegliare insieme col Padre (Nilo), interrogandolo sopra i passi difficili della Sacra Scrittura, che dal Grande (Nilo) gli venivano spiegati, tanto che ammirato della sua condotta, mentre rimproverava gli altri, perché si lasciavano vincere dal sonno, incapaci di vegliare, ad esempio del giovanetto, di questi approvava l’alacrità ed il fervore nel bene.
E che avvenne in seguito? Era giusto ormai che il nostro gran Padre Nilo, liberato dalle diuturne fatiche ne riportasse il premio e, passato a vita migliore, godesse l’eterno godimento (dei beati). Il che accadde, poiché in bella vecchiaia lasciò questa vita e passò al Signore, che egli aveva amato. Pertanto dopo la morte di lui, tra coloro che tennero il governo dei fratelli, terzo fu l’ammirabile Bartolomeo ad assumere la dignità dell’egumenato. Non perseguì egli tal dignità, ma dalla dignità fu perseguito e molto più costrettovi dalla Comunità dei fratelli, quantunque ancora giovane di età. Anche in questo grave ufficio dié a vedere la sua umiltà e la sua modestia, mentre non volle da solo esercitare il governo della Comunità, ma chiese istantemente che gli si desse per coadiutore nel governo uno dei fratelli, insigne per prudenza e sagacità.
L’invidia però non permise che ciò durasse a lungo. Dopo che fu posto quale lampada sul candelabro e preparato a diffondere la sua bella luce chi può ridire quanto fosse carissimo ai suoi sudditi, quanto affabile con i forestieri, ammirabile ai lontani, ai vicini amabilissimo, soave nel parlare, sapiente nella dottrina e con quanto zelo si affaticasse nella composizione degli inni? Ne rendono testimonianza i sapientissimi cantici, che egli compose in onore della Tuttapura Madre di Dio e degli altri Santi, ripieni di ogni sapienza e di bella armonia, e, ciò che è assai mirabile, mentre era occupato e assorbito dalle cure del governo.
Frattanto durante il tempo in cui egli con tanta sapienza e fervore di spirito reggeva il governo della Comunità, gli affari del monastero prosperavano, ed aumentava pure la moltitudine dei monaci. E tale grazia di Dio era con lui, e benediceva i suoi disegni, che poté erigere in terra straniera un tempio assai grande e bello in onore della Madre di Dio (intendo parlare di questo tempio visibile e agli stranieri e agli indigeni, nel quale noi siamo soliti ivi recitare la Divina Ufficiatura a gloria di Dio), di ornarlo d’immagini e (arricchirlo) di vasi sacri, come pure di preziosissime e splendide suppellettili.
Non è fuor di proposito narrare qui il miracolo avvenuto durante la costruzione del tempio. Infatti, quale era il Beato, tali erano anche i suoi sudditi.
Ora il Santo stabilì che questo tempio poggiasse sopra delle colonne. E poiché una di queste colonne stava in un luogo elevato, quelli che erano stati incaricati di trasportarla, trascinatala a forza in un declivio, la lasciarono precipitare a basso, senza l’opera loro. Mentre pertanto quella con impeto irrefrenabile precipitava, un monaco del monastero, ignaro della discesa della colonna, si era fermato proprio sul passaggio di essa, rivolto altrove, non sapendo affatto quanto stava facendosi. Quelli intanto, sollevato il masso, accortisi che questo precipitava direttamente proprio in quel sito, e che il monaco né si voltava indietro, né si scansava dalla via del masso, altamente gridando verso di lui, lo avvisavano che evitasse il precipitare del masso. Ma egli tranquillamente voltatosi indietro e veduta la colonna in procinto d’investirlo, «Fermati», disse, e sull’istante il masso inanimato, come se fosse stato legato dalla parola del monaco, risté e cessò di muoversi. In tal modo successe questo grande e ammirabile prodigio.
Ne narreremo ora un altro non inferiore. Poco discosto dal tempio v’era un muro impastato con fango e pietra, all’ombra del quale il suddetto beato monaco, collocato il suo letto, concedeva un breve riposo al suo corpo. Ma questo muro, fosse per malizia del perverso demonio, oppure per caso, (come per lo più suole accadere), era per riuscire insidioso al monaco ivi dappresso. Infatti, una notte, crollando improvvisamente si vide abbattuto a terra; ma, (oh! amorosa protezione e pronto soccorso di Dio verso i suoi servi!) mentre il muro giaceva rovinato al suolo là sul luogo stesso, ove era il letto del monaco, questi, addormentato, com’era, e quindi ignaro dell’accaduto, si ritrovò sano e salvo in altro luogo.
Narreremo in seguito gli altri miracoli.
Ora dobbiamo tornare là donde ci siamo dipartiti, e riprendendo la narrazione delle cose spettanti al nostro santissimo Padre, dimostreremo all’evidenza in qual modo la virtù lo rese ammirabile a tutti, come più sopra già abbiamo accennato.
Colui, che in quel tempo sedeva sul Trono Apostolico essendo troppo giovane – il che non doveva essere – cedendo alle suggestioni della voluttà, era caduto in un fallo dell’umana fragilità. Ma, infine, dopo molto tempo, ravvedutosi del suo trascorso, e cercando perdono del suo fallo, volle avere il Padre (Bartolomeo) per mediatore e riconciliatore con Dio. Perciò, chiamato l’Uomo di Dio, con la più grande riverenza e benignità gli manifesta la passione, ricercandogli la cura conveniente. Il Santo non si atterrì per l’altezza del trono, non ebbe riguardo all’eccellenza della dignità, né ebbe la mira ai donativi e agli onori, come sono soliti fare molti medici delle anime, ma alla ferita mortale, di difficile guarigione, applicando il taglio opportuno, gli disse: «Non ti è lecito d’ora in poi di esercitare la dignità sacerdotale; che anzi devi deporla e placare Dio, che peccando irritasti». Ed il Pontefice non frappose indugio, né differì ad altro tempo l’esecuzione (dell’ordine del Santo), ma subito abbandonato il trono si ritirò a vita privata.
Quanto poi fosse caro ai Principi il discorso ora lo dimostrerò. Il Principe di Salerno, assalito con forza il Duca di Gaeta, lo fece prigioniero in guerra e lo tradusse in catene a Salerno . I congiunti del Duca, avendo mosso ogni pietra, come suol dirsi, per liberarlo dai ceppi, non riuscirono a nulla, e tutti i loro sforzi furono vani, e non v’era speranza alcuna di aiuto da nessuna parte. In tale situazione disperata si rifugiarono al porto serenissimo, voglio dire, al nostro Padre. Trattatone dapprima con i Principi della città di Tuscolo, supplicano il Santo di recarsi colà. (Al suo arrivo) che cosa non sanno dire, che cosa non fanno per piegare l’animo di lui? Piangevano miseramente, lo supplicavano istantemente, gli baciavano le mani, gli si prostravano ai piedi, dicendo che giammai lo avrebbero lasciato partire di là, né se ne sarebbero distaccati, poiché per l’infelice (Duca) non v’era altra speranza di liberazione, fuorché in lui. Egli, che non soffriva di vedere un’anima afflitta (senza consolarla), si piegò alle loro suppliche. Intraprende, pertanto, il faticoso viaggio e parte, pronto a dare l’anima sua per l’amico, conforme la parola del Signore. Che cosa avvenne poi? E che cosa dispose quel Dio, che glorifica con maggiore gloria quelli che lo glorificano, in siffatto negozio? Non appena il Principe ebbe notizia che il Santo era vicino gli uscì incontro con una grande moltitudine di popolo, poiché già lo conosceva da prima, ed era pienamente informato delle sue virtù lo ricevette con segni di benevolenza, salutandolo con tutto l’affetto. Ora qui mi opportuno narrare un graziosissimo fatto, e la digressione ci verrà compensata dalla meraviglia del prodigio accorso. Abitava nei pressi della città di Salerno un monaco. Costui aveva udito vantare da tutti la gran fama del Santo, il suo ascetismo, la sua santa condotta, la sua vita penitente, semplice ed umile, nel vederlo, in questa circostanza, circondato da tanta gente e accompagnato con tanto onore dai Principi, intese seco un tal quale umano risentimento, sospettando che fosse falso quanto si diceva di lui. Poiché, pensava, non poteva essere operatore di quelle virtù, di cui aveva udito parlare, chi era circondato da tanta gloria e da tal corteggio di onore.
Stando il monaco in questo pensiero, sopraggiunta la notte, si mise a dormire, e subito gli si rappresentò questo sogno: Gli pareva di vedere una Donna piena di vaghissimo splendore, che fermatasi vicino a lui lo riprendeva del suo pensiero, dicendogli: «Perché non ti sei portato a venerare il mio eremita?». Ed egli atterrito dalla visione e dall’aspetto e dalla grazia, che da quella Matrona emanava, riconosciuta in essa la Santissima Madre di Dio, con gran timore e riverenza Le rispose: «E chi è, o Signora, il tuo eremita?». «È proprio il monaco Bartolomeo, testé arrivato in questa città. Lui infatti io ritengo e chiamo mio eremita. Ciò inteso il monaco, e destatosi dal sonno, ripensando alla visione, si reca in fretta dal Santo e gli rivela il sospetto avuto, manifestandogli la visione. E chiesto ed ottenuto perdono, se ne tornò tutto lieto alla sua dimora. E d’allora in poi, fatto certo dall’apparizione della Santa Madre di Dio, persistette nel primo giusto concetto, che del Santo si era formato. Il Duca di Gaeta, poi, non solo fu liberato dalle catene e dalla prigione, ma di più, per la mediazione del Santo, ricevette dal Principe (di Salerno) la signoria su di un altro dominio. E così il Duca con gioia se ne tornò tra i suoi, glorificando Dio e rendendo moltissime grazie al Santo.
Si aggiunga, a testimonianza di quanto è stato detto, il fatto di Giovanni Scolastico, il che conferma, sia ciò che abbiamo narrato come anche manifesta l’amore dei Santi verso il nostro Beato Padre. Giuntagli la fama delle virtù, dell’ingegno e dell’eloquenza del nostro Santo, mossosi dall’isola di Sicilia, bramava di veder di presenza e godere della sua conversazione e delle sue orazioni. Mettendo, perciò, in esecuzione il suo proposito, intraprese il viaggio, e a termine di pochi giorni raggiunse il monastero. Ottenuto ciò che desiderava, avendo constatato che ciò che si aspettava era superiore alla fama, volle recarsi a Roma, per venerarvi i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo; come veramente fece. Venerate (le tombe dei santissimi Apostoli), e trattenutosi alcuni giorni a Roma, non avendo ricevuto da quel giusto attenzioni e cure, (forse per divina disposizione, affinché fosse manifesta la predilezione, che i santissimi Apostoli avevano per quell’Uomo di Dio, pur trovandosi ancora in questo mondo) seco stesso biasimò il Santo di inurbanità, e pensò di ritornarsene in patria, senza il suo beneplacito e la sua benedizione. Imbarcatosi, pertanto, su di una nave, si pose in cammino, eseguendo così ciò che aveva deliberato di fare; ma diversamente disponeva la Divina Provvidenza. Difatti, non appena la nave si inoltrò in mare, scatenatosi un vento contrario, veniva, sballottata da un luogo all’altro. E Giovanni, per più giorni, con grande disagio, trascinato qua e là per il mare, si trovò in preda all’angustia e alla ansietà, giacché altro non si aspettava che di morire annegato. Orbene, mentre essi navigavano nell’impotenza, in mezzo alla caligine, comparve un’altra nave che si avvicinava ad essi. Giovanni, interrogato e venuto a sapere che erano Amalfitani, e che facevano navigazione verso Roma, li pregò di prenderlo seco. Ciò fatto, dopo felice navigazione, approdarono al porto di Roma. Sbarcato Giovanni Scolastico dalla nave, si fermò in una località vicina al mare a godervi la quiete ed il riposo, pensieroso e melanconico, indeciso sul da fare. Mentre, pertanto, se ne stava così triste ed addolorato nel cuore, gli apparvero sulle acque del mare due uomini, che si dirigevano verso di lui. Assomigliavano essi ai santi Corifei degli Apostoli Pietro e Paolo. Avvicinatisi, gli dissero: «Salve, o amico! Donde vieni? E dove vai? Perché te ne stai qui tutto solitario?». Ed egli con timore narrò l’accaduto ed i suoi propositi per l’avvenire. Allora i due Personaggi apparsi, rimproverando la sua inconsiderazione, gli dissero: «Non ti sei ben consigliato; infatti perché partendo non ti sei premunito della benedizione del Padre Bartolomeo? Giacché, in tal modo, con speditezza e gaudio avresti navigato verso la patria». E Giovanni rimasto attonito per il grande splendore dei Personaggi, intimorito li interrogò : «E voi, chi siete, Signori?». E subito uno di essi, stesa la mano destra, indicò il tempio del Santo Apostolo Paolo, dicendo: «Quella è la mia casa!». L’altro poi, additando verso Roma, indicava il tempio del santo Apostolo Pietro, affermando: «Ecco, quella è la mia grande casa!». Così detto, disparvero dai suoi occhi. Pertanto, quando lo Scolastico dalla figura e dalle parole riconobbe in essi i Corifei degli Apostoli, meditando le parole dette da loro e comprendendone il significato, nuovamente si recò a Roma, e, con lettera scritta di propria mano, manifestò tutto al Santo, domandò perdono del suo errato giudizio e gli chiese che rendesse propizio con la preghiera il suo ritorno in patria. Ottenuto l’intento, lieto, con felice navigazione si avviò verso la patria.
Sparsasi dovunque la fama del nostro Santo, e accorrendo quotidianamente verso di lui una innumerevole moltitudine di gente, alcuni egli nutriva con la parola della divina grazia, altri generosamente provvedeva anche nelle loro necessità temporali: gli uni e gli altri poi erano sostentati e nell’anima e nel corpo.
Ma essendo il Santo anche egli uomo, era necessario che fosse provato.
Un anno la regione fu colpita dalla carestia: tutti, e indigeni e forestieri, ricorrevano al monastero, come al porto di rifugio. I monaci stessi erano ridotti all’estrema penuria, (giacché anche ai giusti può accadere di essere abbandonati, secondo i giudizi che ben conosce l’Occhio che tutto scruta). Il Beato vedeva con dolore la moltitudine del popolo e il monastero sprovvisti dei cibi corporali, poiché i granai si erano esauriti per l’affluenza di coloro che accorrevano. Venute a mancare le vettovaglie e gli agricoltori, mentre gli amici erano nell’impossibilità di dargli aiuto, l’Uomo di Dio, non potendo rimirare le anime afflitte dalla calamità della fame, decise di fuggirsene; ciò che fece, intraprendendo la via di Roma, in compagnia di altri due monaci. Ma chi non ammirerà stupefatto, o Cristo, i tuoi prodigi e la liberalità con la quale tu liberi con sapiente provvidenza gli afflitti? Si narra pertanto che il Beato, durante il cammino, fu colto dal sonno e perciò disse a quelli che erano con lui: «Sospendete alquanto il viaggio e fatemi riposare un poco». Fatto questo, e addormentatosi il Beato Padre sul suolo, ebbe un sogno divino, nel quale ebbe questa visione: Gli sembrava di vedere un personaggio sacro, vestito di abiti sacerdotali, il quale, appressatosi a lui, e riprendendolo della sua fuga, lo esortava a ritornare nel monastero, fidente nelle ineffabili misericordie di Dio, e a non volere irritare con la sua pusillanimità il Signore, «che apre la sua mano e colma ogni essere vivente di benedizione» Colui che gli era apparso gli sembrava fosse il grande Gregorio, il Dialogo, il quale porse nelle mani del nostro Beato Padre anche un vasetto di profumi, che spiravano una singolare fragranza. Svegliatosi frattanto, non senza suo stupore, fiducioso, pose in atto ciò che gli era stato comandato e pieno di buone speranze ritornò al monastero. Nel tornare vide un tale che scendeva dalla città di Tuscolo e veniva verso il monastero. Tranquillamente rivoltosi ai compagni, disse: «Costui viene a portarci buone nuove». Ed infatti veniva veramente ad annunziare che il Conte di Tuscolo donava al Beato Padre 100 moggia di grano. Da allora il Beato Padre con mano generosa abbondantemente dispensava gli aiuti, fiducioso in Dio e nel santo Pontefice (Gregorio il dialogo), che mediante la visione lo aveva rincuorato.
Èsufficiente questo a dimostrare la predilezione di Dio verso il Santo, e la gloria con la quale fu dal Signore esaltato, come pure a farci conoscere quanta familiarità avessero con lui i Santi. Ma il discorso richiede che si faccia menzione non solo dei miracoli, che Dio operò per mezzo del nostro Beato Padre quando egli era in vita, ma anche durante e dopo il suo transito a Dio: miracoli veramente stupendi e assolutamente certi.
Noi ammiriamo Elia il Tesbita per aver ottenuto la potestà di chiudere e aprire i cieli ammiriamo Gedeone, cui fu concesso di fare esperimento sul vello e sull’aia il primo per l’incredulità e per la durezza di cuore del popolo, l’altro per la debolezza dell’esercito, e forse per una più provvida divina disposizione. Ma non fu inferiore il prodigio operato dal nostro Santo Padre al confronto di questi, come lo dimostrerà la narrazione.
Si era in tempo di estate, anzi nel cuore dell’estate, e l’aia era piena di spighe, e non di spighe immature e di probabile raccolto, ma ormai mietute e pronte per la trebbiatura. Come però suole spesso accadere, ecco d’improvviso accumularsi le nubi e scatenarsi un temporale col fragore dei tuoni, mentre le tenebre avvolgevano l’aria. Il cielo si era oscurato e la pioggia era tanto imminente che già si scorgeva piovere nei dintorni. Lo scoraggiamento e la tristezza avevano sì penosamente abbattuto gli operai, che prorompevano in bestemmie e in tutti gli altri trasporti del dolore. Ma l’Uomo di Dio (che era presente ad incoraggiare gli operai e a rincuorarli nel lavoro), dapprima con esortazioni li fece cessare da siffatte parole, sollevando il loro scoraggiamento, poscia li invitò a mangiare, dicendo: «Venite a desinare, o figliuoli, e il Signore opererà con voi le sue misericordie».
Dopo aver così animato gli operai, rimase nell’aia con un solo compagno; si pose in ginocchio, rivolto verso l’oriente, e con le preghiere miste a lagrime supplicava Iddio ad esser propizio, e a trasportare altrove la pioggia, che era imminente con danno e rovina delle messi. Ebbene, che cosa accadde? Colui che è sollecito a soccorrere e che «fa la volontà di coloro che lo temono» forse disprezzò il suo Servo, o tardò ad esaudirlo? Niente affatto – ma rinnovò qui l’antico miracolo: infatti la pioggia, quasi ubbidiente al comando, cadeva impetuosa nei luoghi circostanti; mentre non ardì affatto appressarsi all’aia del giusto. Visto il miracolo, il grave abbattimento si converti in gioia, e tutti innalzarono a Dio le loro voci di ringraziamento, magnificando il suo Santo. Ma Egli, veramente umile, e diligentissimo custode delle leggi di Cristo, ancor più umile si manifestava, e attendeva, come al solito, a servire Dio, avendo per compagni il digiuno e la penitenza, sì da nutrirsi del solo necessario. Con il basso sentire di sé si avviliva talmente che neppure si conosceva che egli fosse il superiore. Consumava sé stesso nelle veglie, così da gareggiare quasi con gli Angeli; e oltre a ciò lavorava con le proprie mani, affaticandosi incessantemente. Difatti l’ammirabile Padre scriveva anche con venustà, come se fosse un calligrafo, e così perfettamente da non dare occasione alcuna di critica ai periti in questa materia.
Prima di por termine alla mia narrazione ricorderò un altro fatto prodigioso, e poscia gli altri miracoli avvenuti durante e dopo la sua morte. Il Monastero, con l’aiuto di Dio, era giunto ad avere un gran numero di fratelli. Occorrevano pertanto, per il servizio dei monaci e per gli altri bisogni, degli animali, fra cui anche dei cavalli. Una volta che il Santo era assente dal Monastero, uno dei cavalli, lasciato solo, divenne facile preda dei ladri. Il cavallo seguiva i ladri per un tratto di strada, disponendo così Iddio, sia perché essi si emendassero, come anche per glorificare il suo Santo, pur non presente. I ladri correvano lieti, mentre il cavallo teneva loro dietro. Ma attendiamo alla narrazione, giacché non è spiacevole, che anzi, oltre ad essere prodigiosa, e assai graziosa. Infatti quando i ladri credevano di aver raggiunto l’intento del furto e di possederne ormai il guadagno nella borsa, e pieni di speranza correvano, d’improvviso il cavallo si fermò, completamente immobile come un masso. Lo frustarono essi e colpirono di calci, e afferrandolo l’uno e l’altro per la cavezza, lo trascinarono con quanta forza avevano; ma il cavallo stava fermo, come cosa inanimata, senza affatto sentirli, ricusando di procedere oltre. Disperando perciò i ladri di poter avanzare per la via intrapresa volsero il cammino indietro per provare il cavallo; questo, non appena si accorse di camminare indietro, (oh! prodigio!) correva velocissimo e pieno di alacrità batteva la strada, per la quale era venuto. Visto ciò, essi furono colti da timore e stupore; e, rientrati in sé e discorrendo tra loro del prodigio, insieme col cavallo raggiunsero il monastero. Ivi confessarono l’operato, giurando di non commettere mai più i passati misfatti, ma di procacciarsi col lavoro delle proprie mani il sostentamento della vita. E così si comportarono.
In tutto, poi, veniva glorificato Iddio, che ancor più largamente esalta coloro che Lo glorificano.
Ma poiché era necessario che anch’egli, dopo aver compiuto il suo corso e conservata la fede , secondo il divino Paolo, fosse liberato dalle molte fatiche e sudori, e morisse per esser insieme con Cristo presente alla Triade, fonte di vita, cadde in quella infermità, con la quale raggiunse il suo beato fine.
Nello stesso giorno, in cui stava per emigrare da questa temporanea dimora, un monaco di nome Leonzio, insignito della dignità sacerdotale ed uno dei primi dignitari del monastero, terminato, come al solito, l’inno mattutino, postosi a dormire, udì una voce simile al tuono[12], la quale così diceva: «È stato apparecchiato al Padre Bartolomeo un trono sempiterno». Il monaco, sorpreso dal timore, si alzò e, balzato con un salto fuori dalla cella, interrogava quelli che incontrava se anch’essi avessero sentito la voce; ma alla risposta di non aver udito nulla, egli soggiunse: «Eppure, io ritengo che quella voce sia stata udita persino nella città di Tuscolo». Certamente quella voce manifestava anche a noi i beni preparati al Santo e la gloria che egli stava per ottenere. Il Beato Padre passò al Signore quando già il giorno era declinato; ed ora è nei cieli a contemplare quel Dio che egli amò e servi; e stando al suo divino cospetto Lo supplica direttamente per noi .
Non è però giusto tralasciar di narrare il miracolo avvenuto dopo il suo beato transito, soprattutto perché concorda con la voce udita dal monaco Leonzio, e la conferma.
Un altro monaco, di nome Franco, ammalatosi, sembrava giunto al termine della vita. Venutagli a mancare la favella, pareva morto, esanime, immobile, non manifestando alcun segno di vita. Accorsero i fratelli, come al solito; e sostenendo alcuni che gli si desse sepoltura, altri invece che si differisse, il giorno ormai si avvicinava alla notte, e quegli nondimeno appariva morto. Preparatisi a fargli la lavanda per la sepoltura, appena gli versarono l’acqua e cominciarono a rivolgere il corpo da una parte all’altra, improvvisamente il morto diede segni di vita, e colui che poco prima era privo di favella, parlava, e lamentandosi con coloro che lo lavavano, soggiunse: «Perché, o fratelli, avete tentato di farmi violenza? Perché mi avete svegliato dal mio dolce sonno?». Ed essi gli risposero: «Vedendoti morto per tutta la giornata, ci decidemmo ora di lavarti». Ma l’infermo riprese a parlare: «Io (non so se fossi nel corpo o fuori del corpo ) mi vedevo camminare solitario in un certo luogo e due colombe mi precedevano, delle quali una bianca e l’altra nera; esse svolazzavano intorno a me, la bianca alla mia destra e la nera alla sinistra. E così, precedendomi le colombe ed io tenendo loro dietro, arrivammo in una pianura, si ripiena di luce e di fragranza da non potersi esprimere. Mentre io osservavo quella pianura, vidi presente il nostro Padre, circondato da una folla di poveri; e stendendo egli la mano, mi sembrava che distribuisse loro il pane. E quando il Santo, rivoltò gli occhi e mi vide: «Perché qui, o Franco, mi disse; chi ti ci ha condotto?». Ed io gli narrai come vi ero giunto. Il Padre di nuovo mi interrogò: «Come stanno i fratelli?». – «Bene, grazie a Dio e per le tue preghiere, risposi». – Ed egli: «Ritorna al monastero e dì ai Fratelli che perseverino nella tradizione da me loro lasciata». Detto ciò, mi sembrava che egli si inoltrasse più addentro nella pianura. Mentre egli camminava, ed io lo seguivo, che non volevo separarmi da lui, giungemmo in una città, la cui bellezza non può essere descritta da lingua umana. Entrato il Padre in uno dei palazzi che colà si trovavano, anche io vi entrai con lui. Ivi ammirai un trono assai magnifico, sul quale il Padre salì, ponendosi a sedere. Gli stavano accanto due personaggi, i cui volti erano più luminosi del sole. Rivoltosi intanto il Beato Padre e vistomi, disse: «Anche qui sei venuto, o Franco? Ritorna al monastero e, come già ti ho detto, esorta i fratelli a perseverare con costanza nella virtù e nelle opere buone e nella pazienza. Ed io spero nella mia Signora e Sovrana – e ciò dicendo sollevò gli occhi in alto –, che mai sarete abbandonati, e che io non mi separerò mai da voi, né in questo né nel futuro secolo». Mentre il Padre parlava così, anch’io, alzato lo sguardo al di sopra del suo capo, vidi, seduta su di un magnifico trono, una Matrona – la cui bellezza e lo splendore da Lei emanante non valgo descrivervi. Attorno a Lei alcuni splendidi personaggi stavano con timore e reverenza; ed io compresi che Ella era la Santissima Madre di Dio. Avendo ciò veduto ed ascoltato, uscii dal palazzo e nuovamente preceduto da quelle colombe sono tornato qua». Questo è ciò che il monaco riferì di aver visto ed ascoltato.
Noi però, doppiamente persuasi, sia per la virtuosa e perfetta vita del nostro santo Padre, come anche per i prodigi per sua intercessione da Dio operati, celebriamo con fermo giudizio e ardente amore sua memoria. E venerando il deposito delle sue sacre Reliquie preghiamo di averlo a nostro mediatore e intercessore presso il Salvatore e Dio nostro, affinché in virtù delle sue preghiere e per intercessione della Signora e Sovrana nostra, la sempre Vergine Madre di Dio, non veniamo esclusi dai beni che egli ha ereditati; ma noi seguiamo l’eredità e la porzione con tutti i Santi, cari allo stesso Cristo, Dio nostro, al Quale sia gloria col sempiterno suo Padre e al Coeterno, Principio di vita, Vivificante e Buono Spirito, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amìn.
martedì 7 aprile 2009
Inviatoci dal nostro grande amico Gabrijè
Vita ed opere del nostro santo padre Bartolomeo da Rossano detto il Giovane
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