La civiltà sonora arbëreshë
Quando si viaggia da soli si è soli;
quando si viaggia in due ti metti a litigare;
ma se viaggi in tre sicuramente ti metterai a cantare".
(proverbio albanese)
quando si viaggia in due ti metti a litigare;
ma se viaggi in tre sicuramente ti metterai a cantare".
(proverbio albanese)
Esiste una civiltà che non viene mai raccontata nei libri di storia, perché fatta di suoni, profumi ed emozioni antiche. Quasi non ci accorgiamo che sta scomparendo insieme ai rintocchi delle campane suonate dal vecchio sagrestano, al venditore ambulante di ombrelli, al gregge che passa in mezzo al centro abitato, alle chiacchiere fatte nella piazza del paese, al cantastorie che si sposta di città in città. Sono suoni che non sentiamo più, non solo perché sostituiti dal traffico e dal sovraffollamento delle nostre città, ma perché non abbiamo più tempo per il nostro “sentire”. Richiederebbe una attenzione diversa, come oramai per i salutisti il cibo, per i religiosi la quiete per pregare, per gli animalisti le specie animali in via di estinzione.
Esiste anche la civiltà sonora arbérèshe, sparsa nel nostro Meridione, in cui da più di 500 anni i suoni dipingono icone bizantine, madonne odigitrie, papàs vestiti di nero con le lunghe barbe bianche, vallje (danze) per le strade. Qui i suoni sono quelli dei canti della diaspora dall’Albania, del rito greco ortodosso, delle feste di matrimonio e delle serenate, dei lamenti funebri e del lavoro nei campi. E’ una intera civiltà sonora che deve resistere alla massificazione operata continuamente dalla tv e dai mass media, all’omologazione imposta dalla cultura dominante, al disinteresse di “quei” giovani abituati a “consumare” continuamente musica, ma non ad ascoltarla davvero. Una intera civiltà che si racconta attraverso la sua musica e le sue danze, nell’arberisht (la sua lingua), con bellissimi canti a cappella, o accompagnandosi con strumenti desueti come la zampogna sordulina, la lira calabrese, la chitarra battente, il più delle volte costruiti da sé, da contadini e pastori.
Danze e musiche vengono da sempre considerate espressioni minori della cultura arbérèshe, così come più in generale la musica popolare viene considerata musica ignorante rispetto alla musica colta. Del resto quanto tempo abbiamo impiegato per riconoscere la dignità musicale e culturale della canzone “classica” napoletana, o per annoverare le canzoni di De Andrè e De Gregori alla Poesia italiana ed inserirle nei testi scolastici? Stiamo scontando uno snobismo culturale da cui dobbiamo smarcare anche la nostra letteratura, sostenendo la rivalutazione di quelle espressioni musicali, attraverso cui si esprime oralmente la cultura popolare. Soprattutto quella etno-folk arbérèshe, che a buon diritto, e sicuramente più di altre, può essere definita etno, in quanto strumento, attraverso l’oralità, di costruzione ed affermazione identitaria.
La musica, infatti, è lo strumento con cui la comunità italo-albanese racconta se stessa e la Diaspora dal Paese delle aquile, riafferma la discendenza comune e rinsalda i vincoli idenentitari, rammemora i valori condivisi e condanna le infrazioni sociali, socializza il lutto e sottolinea le occasioni sociali d’incontro. In quanto espressione privilegiata dell’oralità, accompagna e spiega la dimensione individuale e collettiva della doppia identità, della preghiera, del lavoro, del lutto, delle serenate e delle feste.
Sul piano socio-antropologico si può dire quindi che la musica riproduce tutto il travaglio storico e psicologico del Popolo della Diaspora, esplica il sistema valoriale e la dimensione emica dell’identità. Questo è riscontrabile anche dalla lettura superficiale dei testi di canzoni come Ce me pe ti, zog?, o E Ikura, anche senza arrivare alla magistrale interpretazione “a cappella” del Lamento per la morte di Skanderbeg di Silvana Licursi, attenta e raffinata cultrice della cultura arbérèshe.
E ìkura, di Silvana Licursi
Ma sul piano strettamente musicologico la cosa si fa ancora più interessante per il riecheggiare della musica iso-polifonica albanese, già riconosciuta dall’Unesco, nella musica polifonica arbérèshe di gruppi femminili come le Vjesh di San Costantino Albanese, ma non solo.
Polifonia Arbëreshë, Le Vjesh
Le Vjesh contano sulla collaborazione dell’etnomusicologo Nicola Scaldaferri, che ha compiuto una profonda ricerca filologica dei testi arbérèshe e un approfondito esame musicologico riguardante il movimento delle parti, mettendo in luce che la struttura corale di questi canti prevede una voce superiore di canto e altre due di armonia, con una terza che funziona da bordone. A San Costantino, come nella maggior parte dei paesi dell’Arberia, canzoni la Ce me pe ti, zog? cantata dalle Vjesh, accompagnano le Vallje, le danze tradizionali, nel martedì dopo Pasqua, giorno in cui ricorre la vittoria dell’eroe nazionale Skanderbeg sui Turchi, avvenuta il 24 aprile 1467, giorno di Pasqua.
In queste occasioni le donne indossano il Llambadhor, il bellissimo costume tradizionale e intonano i Vjershë, i canti antichi che si rifanno al Moti i Madh (La grande epoca). Sfilano per le strade del paese in festa, formando una sorta di catena ad “U” e tenendosi per mano o attraverso fazzoletti. In testa al semicerchio stanno i “caporali” (chiamati in altre località anche “bastoni”), cioè gli uomini che guidano il gruppo. Queste danze, che nascono come la rievocazione storica delle gesta epiche di Skanderberg, con il tempo si sono trasformate in un “agguanto” a qualcuno del pubblico, in genere uno straniero o un turista, che viene condotto nel bar più vicino per offrire da bere ai componenti del gruppo, in cambio della “libertà”.
Questione più complessa è, invece, quella dei canti liturgici della tradizione bizantina degli Arbérèshe di Piana degli Albanesi, anche questi riconosciuti Patrimonio dell’umanità dall’Unesco (2005). I Canti dell’Eparchia di Lungro, non hanno ottenuto questo importante riconoscimento, pur vantando la stessa specificità (in quanto il sistema musicale di riferimento è sempre di tipo modale) e la stessa derivazione bizantina. Infatti l’etnomusicologo Girolamo Garofalo sostiene che “La grammatica musicale del repertorio liturgico arbérèshe, analogamente alle antiche musiche del Mediterraneo, al Canto Gregoriano e alle culture di interesse etnomusicologico, non è basata sulla sensibilità tonale e sulla opposizione fra modi maggiori e minori che caratterizza la musica euroculta. Il suo sistema musicale è infatti di tipo modale e rimanda alla teoria bizantina dell’oktoichos ( www.etnolab.lett.unitn.it).”
La musica arbérèshe si rifà quindi tanto alla monodia bizantina, quanto all’iso-polifonia albanese?
E’ una ipotesi affascinante, ma deve essere ancora avvalorata dai necessari riscontri scientifici. Né rientra negli scopi di questa breve trattazione stabilire quanto i canti liturgici di Piana degli Albanesi siano vicini a quelli dell’Eparchia di Lungro; quanto la polifonia di San Costantino Albanese sia vicina all’iso-polifonia albanese çam o lab; o quanto la musica dell’Arberia sia oggi influenzata dalla tradizione melurgica, dalla pizzica o dalla taranta, ecc. ecc.
Quello che invece qui vale la pena di sottolineare è l’importanza di questi processi di variazione e rielaborazione della musica, così come della danza arbérèshe; o se vogliamo l’importanza di quei processi di assimilazione-elaborazione-espulsione che le arti musicali e coreutiche arbérèshe riescono ad operare secondo la propria utilità, creando atmosfere di profonda adesione spirituale e di grande suggestione emotiva e psicologia, al fine di favorire quei processi di auto-identificazione che rinforzano il senso di appartenenza di ogni arbérèshe alla propria comunità.
Se nella musica isopolifonica albanese l’opposizione è del tipo io/loro (cantante/coro), nella musica arbérèshe questa tensione si scioglie per diventare monodia, canto intimo e personale che racconta un vissuto di perdita (da klloshar), il rimorso per la Patria lasciata, il prezzo della povertà (non solo materiale) sofferta per il mantenimento della propria identità.
La trasformazione delle Vallje nel tempo, da racconto epico e rievocazione delle gesta guerresche di Skanderbeg (l’eroe che sempre si distinse per la capacità di sorprendere il nemico e tendergli “agguati”), a nemesi (o autoriparazione) storica e momento di festa per tutta la collettività, riflette proprio questa capacità della cultura arbérèshe di inglobare e metabolizzare, conciliare e fondere elementi eterogenei appartenenti tanto alla cultura dominante italiana, quanto alla cultura albanese di provenienza. Così nella danza, al “nemico” piano piano si sostituisce “lo straniero” e poi “il turista”, che una volta inglobato nella ridda, “riscatta la propria libertà” pagando da bere a tutti.
Anche sul piano musicale di può parlare di una sorta di sincretismo musicale arbérèshe, se è vero che nella musica arbérèshe è rintracciabile sia la monodia bizantina, che la polifonia albanese. Un processo similare è avvenuto anche sul piano linguistico laddove l’arberish, come sostengono alcuni studiosi, ha fuso il dialetto del Nord con il dialetto del Sud dell’Albania, avvalendosi anche di prestiti dialettali locali ed italiani, soprattutto per i termini che non esistevano nel XVI secolo (ad esempio antenna, televisore, ecc.).
Insomma nell’Arberia tutto è musica e suono: anche la lingua oscura e musicale delle donne che la sera si siedono fuori dalla porta di casa, a raccontare; le nenie che i pastori suonano con le zampogne sorduline; il calpestio degli asini e dei muli che la mattina portano i contadini in campagna; il rumore regolare e meccanico dei telai ancora in uso; le voci dei bambini che giocano per strada.
Sul piano strettamente musicale operano, invece, personalità come Anna Stratigò, multiforme interprete della musica e dell’arbereshità, fautrice di mille iniziative ed instancabile promotrice culturale; gruppi come i Peppa Marriti e gli Spasulati; strumentisti come Cataldo Perri; artisti che fanno musica d’autore, impossibile citarli tutti, o che si sono lasciati sedurre dalle contaminazioni del jazz e gravitano intorno alla figura artistica e manageriale di Franco Stezzi, che dirige il Centro Jazz Calabria.
Poi ci sono i suoni della festa, delle Vallje e dei canti dei Riti della liturgia greco ortodossa legati alla Pasqua e ai matrimoni celebrati nei bellissimi costumi tradizionali. In queste occasioni, alla suggestione profonda delle musiche e della melurgia, si somma la suggestione iconica delle bellissime chiese ed icone bizantine, dei paramenti rossi e violacei dei papàs e dei loro gesti, delle processioni e delle tante rappresentazioni religiose che si svolgono per strada. Chiunque si avventuri nell’Arberia avrà l’impressione di viaggiare attraverso un enorme Parco musicale, una magica Civiltà sonora, al tempo stesso antica e nuova, che si esprime attraverso l’oralità, che di volta in volta diventa lingua, racconto mitico e musica.
Se neanche questo bastasse a conferire alla musica dell’Arberia il carattere di Bene immateriale dell’umanità, bisogna pensare che questa rappresenta una intera Civiltà sonora, che deve essere salvaguardata già come tale, e pensata come nucleo emotivo e psicologico del sentire di ognuno noi. Non solo degli Arbérèshe.
Esiste anche la civiltà sonora arbérèshe, sparsa nel nostro Meridione, in cui da più di 500 anni i suoni dipingono icone bizantine, madonne odigitrie, papàs vestiti di nero con le lunghe barbe bianche, vallje (danze) per le strade. Qui i suoni sono quelli dei canti della diaspora dall’Albania, del rito greco ortodosso, delle feste di matrimonio e delle serenate, dei lamenti funebri e del lavoro nei campi. E’ una intera civiltà sonora che deve resistere alla massificazione operata continuamente dalla tv e dai mass media, all’omologazione imposta dalla cultura dominante, al disinteresse di “quei” giovani abituati a “consumare” continuamente musica, ma non ad ascoltarla davvero. Una intera civiltà che si racconta attraverso la sua musica e le sue danze, nell’arberisht (la sua lingua), con bellissimi canti a cappella, o accompagnandosi con strumenti desueti come la zampogna sordulina, la lira calabrese, la chitarra battente, il più delle volte costruiti da sé, da contadini e pastori.
Danze e musiche vengono da sempre considerate espressioni minori della cultura arbérèshe, così come più in generale la musica popolare viene considerata musica ignorante rispetto alla musica colta. Del resto quanto tempo abbiamo impiegato per riconoscere la dignità musicale e culturale della canzone “classica” napoletana, o per annoverare le canzoni di De Andrè e De Gregori alla Poesia italiana ed inserirle nei testi scolastici? Stiamo scontando uno snobismo culturale da cui dobbiamo smarcare anche la nostra letteratura, sostenendo la rivalutazione di quelle espressioni musicali, attraverso cui si esprime oralmente la cultura popolare. Soprattutto quella etno-folk arbérèshe, che a buon diritto, e sicuramente più di altre, può essere definita etno, in quanto strumento, attraverso l’oralità, di costruzione ed affermazione identitaria.
La musica, infatti, è lo strumento con cui la comunità italo-albanese racconta se stessa e la Diaspora dal Paese delle aquile, riafferma la discendenza comune e rinsalda i vincoli idenentitari, rammemora i valori condivisi e condanna le infrazioni sociali, socializza il lutto e sottolinea le occasioni sociali d’incontro. In quanto espressione privilegiata dell’oralità, accompagna e spiega la dimensione individuale e collettiva della doppia identità, della preghiera, del lavoro, del lutto, delle serenate e delle feste.
Sul piano socio-antropologico si può dire quindi che la musica riproduce tutto il travaglio storico e psicologico del Popolo della Diaspora, esplica il sistema valoriale e la dimensione emica dell’identità. Questo è riscontrabile anche dalla lettura superficiale dei testi di canzoni come Ce me pe ti, zog?, o E Ikura, anche senza arrivare alla magistrale interpretazione “a cappella” del Lamento per la morte di Skanderbeg di Silvana Licursi, attenta e raffinata cultrice della cultura arbérèshe.
E ìkura, di Silvana Licursi
Ma sul piano strettamente musicologico la cosa si fa ancora più interessante per il riecheggiare della musica iso-polifonica albanese, già riconosciuta dall’Unesco, nella musica polifonica arbérèshe di gruppi femminili come le Vjesh di San Costantino Albanese, ma non solo.
Polifonia Arbëreshë, Le Vjesh
Le Vjesh contano sulla collaborazione dell’etnomusicologo Nicola Scaldaferri, che ha compiuto una profonda ricerca filologica dei testi arbérèshe e un approfondito esame musicologico riguardante il movimento delle parti, mettendo in luce che la struttura corale di questi canti prevede una voce superiore di canto e altre due di armonia, con una terza che funziona da bordone. A San Costantino, come nella maggior parte dei paesi dell’Arberia, canzoni la Ce me pe ti, zog? cantata dalle Vjesh, accompagnano le Vallje, le danze tradizionali, nel martedì dopo Pasqua, giorno in cui ricorre la vittoria dell’eroe nazionale Skanderbeg sui Turchi, avvenuta il 24 aprile 1467, giorno di Pasqua.
In queste occasioni le donne indossano il Llambadhor, il bellissimo costume tradizionale e intonano i Vjershë, i canti antichi che si rifanno al Moti i Madh (La grande epoca). Sfilano per le strade del paese in festa, formando una sorta di catena ad “U” e tenendosi per mano o attraverso fazzoletti. In testa al semicerchio stanno i “caporali” (chiamati in altre località anche “bastoni”), cioè gli uomini che guidano il gruppo. Queste danze, che nascono come la rievocazione storica delle gesta epiche di Skanderberg, con il tempo si sono trasformate in un “agguanto” a qualcuno del pubblico, in genere uno straniero o un turista, che viene condotto nel bar più vicino per offrire da bere ai componenti del gruppo, in cambio della “libertà”.
Questione più complessa è, invece, quella dei canti liturgici della tradizione bizantina degli Arbérèshe di Piana degli Albanesi, anche questi riconosciuti Patrimonio dell’umanità dall’Unesco (2005). I Canti dell’Eparchia di Lungro, non hanno ottenuto questo importante riconoscimento, pur vantando la stessa specificità (in quanto il sistema musicale di riferimento è sempre di tipo modale) e la stessa derivazione bizantina. Infatti l’etnomusicologo Girolamo Garofalo sostiene che “La grammatica musicale del repertorio liturgico arbérèshe, analogamente alle antiche musiche del Mediterraneo, al Canto Gregoriano e alle culture di interesse etnomusicologico, non è basata sulla sensibilità tonale e sulla opposizione fra modi maggiori e minori che caratterizza la musica euroculta. Il suo sistema musicale è infatti di tipo modale e rimanda alla teoria bizantina dell’oktoichos ( www.etnolab.lett.unitn.it).”
La musica arbérèshe si rifà quindi tanto alla monodia bizantina, quanto all’iso-polifonia albanese?
E’ una ipotesi affascinante, ma deve essere ancora avvalorata dai necessari riscontri scientifici. Né rientra negli scopi di questa breve trattazione stabilire quanto i canti liturgici di Piana degli Albanesi siano vicini a quelli dell’Eparchia di Lungro; quanto la polifonia di San Costantino Albanese sia vicina all’iso-polifonia albanese çam o lab; o quanto la musica dell’Arberia sia oggi influenzata dalla tradizione melurgica, dalla pizzica o dalla taranta, ecc. ecc.
Quello che invece qui vale la pena di sottolineare è l’importanza di questi processi di variazione e rielaborazione della musica, così come della danza arbérèshe; o se vogliamo l’importanza di quei processi di assimilazione-elaborazione-espulsione che le arti musicali e coreutiche arbérèshe riescono ad operare secondo la propria utilità, creando atmosfere di profonda adesione spirituale e di grande suggestione emotiva e psicologia, al fine di favorire quei processi di auto-identificazione che rinforzano il senso di appartenenza di ogni arbérèshe alla propria comunità.
Se nella musica isopolifonica albanese l’opposizione è del tipo io/loro (cantante/coro), nella musica arbérèshe questa tensione si scioglie per diventare monodia, canto intimo e personale che racconta un vissuto di perdita (da klloshar), il rimorso per la Patria lasciata, il prezzo della povertà (non solo materiale) sofferta per il mantenimento della propria identità.
La trasformazione delle Vallje nel tempo, da racconto epico e rievocazione delle gesta guerresche di Skanderbeg (l’eroe che sempre si distinse per la capacità di sorprendere il nemico e tendergli “agguati”), a nemesi (o autoriparazione) storica e momento di festa per tutta la collettività, riflette proprio questa capacità della cultura arbérèshe di inglobare e metabolizzare, conciliare e fondere elementi eterogenei appartenenti tanto alla cultura dominante italiana, quanto alla cultura albanese di provenienza. Così nella danza, al “nemico” piano piano si sostituisce “lo straniero” e poi “il turista”, che una volta inglobato nella ridda, “riscatta la propria libertà” pagando da bere a tutti.
Anche sul piano musicale di può parlare di una sorta di sincretismo musicale arbérèshe, se è vero che nella musica arbérèshe è rintracciabile sia la monodia bizantina, che la polifonia albanese. Un processo similare è avvenuto anche sul piano linguistico laddove l’arberish, come sostengono alcuni studiosi, ha fuso il dialetto del Nord con il dialetto del Sud dell’Albania, avvalendosi anche di prestiti dialettali locali ed italiani, soprattutto per i termini che non esistevano nel XVI secolo (ad esempio antenna, televisore, ecc.).
Insomma nell’Arberia tutto è musica e suono: anche la lingua oscura e musicale delle donne che la sera si siedono fuori dalla porta di casa, a raccontare; le nenie che i pastori suonano con le zampogne sorduline; il calpestio degli asini e dei muli che la mattina portano i contadini in campagna; il rumore regolare e meccanico dei telai ancora in uso; le voci dei bambini che giocano per strada.
Sul piano strettamente musicale operano, invece, personalità come Anna Stratigò, multiforme interprete della musica e dell’arbereshità, fautrice di mille iniziative ed instancabile promotrice culturale; gruppi come i Peppa Marriti e gli Spasulati; strumentisti come Cataldo Perri; artisti che fanno musica d’autore, impossibile citarli tutti, o che si sono lasciati sedurre dalle contaminazioni del jazz e gravitano intorno alla figura artistica e manageriale di Franco Stezzi, che dirige il Centro Jazz Calabria.
Poi ci sono i suoni della festa, delle Vallje e dei canti dei Riti della liturgia greco ortodossa legati alla Pasqua e ai matrimoni celebrati nei bellissimi costumi tradizionali. In queste occasioni, alla suggestione profonda delle musiche e della melurgia, si somma la suggestione iconica delle bellissime chiese ed icone bizantine, dei paramenti rossi e violacei dei papàs e dei loro gesti, delle processioni e delle tante rappresentazioni religiose che si svolgono per strada. Chiunque si avventuri nell’Arberia avrà l’impressione di viaggiare attraverso un enorme Parco musicale, una magica Civiltà sonora, al tempo stesso antica e nuova, che si esprime attraverso l’oralità, che di volta in volta diventa lingua, racconto mitico e musica.
Se neanche questo bastasse a conferire alla musica dell’Arberia il carattere di Bene immateriale dell’umanità, bisogna pensare che questa rappresenta una intera Civiltà sonora, che deve essere salvaguardata già come tale, e pensata come nucleo emotivo e psicologico del sentire di ognuno noi. Non solo degli Arbérèshe.
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