Kosovo, nuove violenze contro i cristiani
I recenti episodi di intolleranza etnica contro la minoranza serba contribuiscono a peggiorare il clima di un paese sempre più “isola islamica” nel cuore dell’Europa
raffaele guerra roma
Il Kosovo ritorna al centro dell’attenzione negli ambienti
ecclesiastici ortodossi. Oltre a nuovi eventi di intolleranza etnica
contro la minoranza serba, a sollevare l’attenzione sono i recenti
interventi del patriarca russo Kirill e dell’archimandrita Tikhon (Shevkunov), abate del monastero moscovita di Sretensky Stavropegic.
Dopo la pulizia etnica operata dalla Serbia di Milošević contro gli albanesi musulmani del Kosovo (undicimila vittime e ottocentomila sfollati, oltre a cinquemila vittime serbe e centododici moschee distrutte) è rimasta nella regione una minoranza serba ortodossa
(5,3% contro il 92% degli albanesi), arroccata e, di fatto, ghettizzata
soprattutto nella parte settentrionale della regione. Le violenze ai danni dei serbi ortodossi sono in crescita e non stupisce che alcuni di loro parlino espressamente di genocidio culturale: ad oggi le chiese distrutte o gravemente danneggiate durante gli attacchi albanesi sono circa centoquindici, e una ventina i cimiteri pesantemente profanati. Tra i luoghi di culto rasi al suolo ve ne sono alcuni risalenti al XII-XIV secolo. Intanto, proprio lo scorso 9 marzo, l’Unione
Europea si è pronunciata in merito alla necessità di proteggere il
patrimonio culturale costituito dai monasteri serbi in Kosovo,
inseriti nella lista dei cinque più importanti luoghi sacri del
mediterraneo insieme a Gerusalemme, il Vaticano, La Mecca e il monte
Athos. In questo modo, ha spiegato il presidente dell’UE Barroso, sarà
necessario adottare un documento internazionale che sancisca il
particolare livello di protezione dei siti ortodossi in Kosovo.
Ad oggi, la Repubblica del Kosovo si autoproclama multietnica, ma la realtà dei fatti è ben diversa: la regione appare, infatti, sempre più come un’isola islamica nel cuore dell’Europa e vi si dirigono le mire di numerosi stati arabi. L’Arabia Saudita, ad esempio, vi ha infatti istituito il Comitato Saudita per il Kosovo, oltre al centro linguistico arabo al-Haramain. Il Bahrein,
invece, vi ha fondato la società El-Asla, oltre a numerosi centri per
la “gioventù islamica” e istituti di istruzione incentrati sul Corano;
lo stesso ha fatto il Sudan con l’Associazione Mondiale della Gioventù Islamica; senza contare le cinquanta moschee finanziate dagli Emirati Arabi Uniti. Non è di aiuto al processo di riappacificazione quanto riportato dal New York Times
all’inizio del mese di gennaio: una commissione d’inchiesta con sede a
Parigi ha terminato dopo due anni un rapporto destinato al Consiglio
Europeo secondo cui il presidente kosovaro Hashim Thaçi è stato a capo del gruppo terroristico di Drenica, specializzato nel traffico di eroina e di organi estratti dai prigionieri serbi giustiziati durante il conflitto del 1999.
A riprova di quanto la situazione kosovara sia niente affatto pacifica, sono intervenute le recenti tensioni. Lo scorso 3 marzo, la chiesa ottocentesca di San Giorgio nel villaggio di Stanišor
ha subito un ennesimo furto nelle casse parrocchiali; i malfattori
hanno danneggiato un’icona nell’atto di distruggere il vetro di
protezione e hanno spezzato una delle croci conservate nella chiesa. La
profanazione e il furto a Stanišor hanno seguito di poco le violente
proteste degli albanesi musulmani contro l’arrivo, il 6 gennaio scorso,
del presidente serbo Boris Tadic allo storico monastero di Decani
per le celebrazioni del Natale; tanto che è stato dispiegato intorno al
luogo un numero imponente di poliziotti. Del resto, negli ultimi tempi
sembra profilarsi la possibilità che le tre regioni a maggioranza serba nel nord del Kosovo si ricongiungano politicamente alla Serbia, dato l’estremo disordine istituzionale in cui versano. È proprio contro la secessione
che l’Unione Europea ha anche voluto pronunciarsi proclamando
l’importanza culturale e la necessaria difesa dei luoghi di culto
ortodossi nella regione, dicendosi interessata a “preservare l’identità
serba nel Kosovo”. L’UE, infatti, è fra i pochi stati che riconoscono la
sovranità nazionale della regione e, insieme a Gran Bretagna e Stati
Uniti, ha sostenuto la nascita dello stato kosovaro appoggiando e difendendo la componente albanese perseguitata da Milošević.
Dobbiamo però rilevare un probabile indice di malumore nei confronti della stessa Serbia da parte delle minoranza ortodosse presenti in Kosovo,
a causa di quello che molti kosovari serbi ritengono un atteggiamento
troppo morbido da parte di Belgrado, che, per non sollevare polemiche
internazionali, non sostiene la causa della secessione serba. Nello
scorso novembre, infatti, ventunomila serbi kosovari si sono rivolti alla Duma affinché sia loro riconosciuta la cittadinanza russa. È qui che entrano in campo le recenti dichiarazioni delle autorità ecclesiastiche di Mosca. Lo scorso 29 gennaio, infatti, un quotidiano serbo ha pubblicato una lunga intervista al patriarca
di Mosca e di tutta la Russia Kirill. “I serbi che vivono in Kosovo e
Metochia”, ha dichiarato Kirill, “sono divenuti ostaggi di un enorme
gioco politico”. “La Federazione Russa”, ha aggiunto il patriarca, “ha
dato un sostegno considerevole ai serbi del Kosovo: proprio per la
decisione delle autorità russe, attraverso l’UNESCO sono stati destinati
fondi per il recupero dei luoghi di culto”. Kirill ha anche parlato del
ruolo della Santa Sede: “Il papa di Roma Benedetto XVI, come è
risaputo, ha preso una giusta posizione in merito. Il Vaticano non ha
ancora deciso di riconoscere il Kosovo come uno stato indipendente. Il
papa ha sempre sostenuto la necessità di difendere i diritti della
minoranza serba”.
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