martedì 4 agosto 2009

Il diritto degli Apostoli a portare le mogli con loro (Dr. Heinz J. Vogels)

IL DIRITTO DEGLI APOSTOLI A PORTARE LE PROPRIE MOGLI CON LORO
di Heinz J. Vogels


Il fatto che il carisma del celibato non sia ottenibile su richiesta riflette anche il diritto di ciascun apostolo di portare con sé la propria moglie: un prete che non abbia ricevuto il dono del celibato, ha ovviamente il diritto naturale e spirituale di vivere il sacramento del matrimonio, come dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi (7,7) “ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro”.
Prima di soffermarci sull’esegesi del testo di S. Paolo riguardo tale diritto, è necessario rivedere il testo della prima lettera ai Corinzi al capitolo 9, versetto 5, dato che secoli di tradizione hanno lasciato il segno su questa frase, per ragioni più o meno comprensibili. Per quanto possa sorprendere, Paolo in questo versetto reclama un diritto apostolico: “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”.
1. Secondo l’analisi di G. Zuntz, il testo originale sicuramente parla, nel passaggio decisivo, del diritto di portare le donne con sé (gynaíkas peri gein), al plurale, senza l’aggiunta del termine “sorelle” (adelpàs). Il testo successivo recita invece: adelphên gynaíka periágein “portare una donna come sorella”, che, tuttavia, non cambia il significato essenziale, poiché per “sorella” si intende seguace di Cristo. Il significato di “moglie” dato al termine “donna” non viene intaccato. Se si sottolinea, oltre al termine “sorella”, il termine “donna”, e se, come sembra possibile, questa è la versione più accreditata, non c’è dubbio che la donna che accompagna gli apostoli sia proprio la moglie. E’ questo il senso della nostra esegesi. Zuntz adduce la seguente ragione per la preferenza riservata al testo più breve “gynaíkas”: i sostenitori di questo testo breve “Uxores circumducere” sono molti - a partire da Tertulliano da Cartagine (morto nel 220), Clemente di Alessandria (morto nel 215), S. Ilario di Poitiers (morto nel 367), il saggio persiano Afrate (morto nel 345) – cui possiamo aggiungere Ambrosiastro (366-384) e il primo S. Girolamo nell’Adversus Helvidium (383) e nell’Epistola 22 (384) – e non possono aver scritto i loro testi influenzandosi a vicenda : bisogna tornare all’epoca in cui le copie di questi manoscritti così diffusi furono fatte da una fonte comune, cioè, da un manoscritto antico, arrivando fino al secondo secolo. I più antichi manoscritti giunti a noi, primo fra tutto il Papiro 46, che risale al terzo secolo, mentre gli altri partono dal quarto-quinto secolo, contengono il testo più lungo. Quindi, bisogna preferibilmente considerare questi manoscritti dei primi padri della chiesa, in primo luogo per ragioni oggettive, in quanto rappresentavano le prime testimonianze. Lo stesso ritroviamo in due manoscritti del nono secolo, chiamati Boernerianus (G) e Augiensis (F), i quali, pur essendo contemporaneamente tradotti in latino, sono arrivati a noi anche nella versione greca. Una testimonianza dall’interno ritiene migliore il testo breve: la singolarità del testo successivo (textus receptus) è probabilmente dovuta al tentativo di scoraggiare l’idea della poligamia tra gli apostoli, come se ognuno di loro avesse inteso portare “delle donne” (plurale) con se. E il termine “sorella” potrebbe essere stato aggiunto, come spiegazione, per ragioni di decenza: naturalmente, la moglie doveva essere necessariamente cristiana. Lo sviluppo opposto, la cancellazione del termine “sorella” dal testo originale e il cambiamento del singolare al plurale, non sarebbe comprensibile: il testo più breve e più complesso è comunque ritenuto valido, come quello antico. Quindi, il testo di Clemente e di Tertulliano, della fine del second secolo, può essere ritenuto valido con una buona percentuale di accreditamento. In tutti i casi, bisogna notare, che i primi padri della chiesa hanno tradotto il termine gynaíkas, che ritroviamo in entrambe le versioni, senza eccezione alcuna, con “uxores”, cioè mogli. L’ultima versione della Vulgata-Clementina, datata intorno al 1592, quando fu distribuita come traduzione ufficiale della bibbia latina dopo il Concilio di Trento, che certifico la traduzione di S. Girolamo come autentica, richiede ampia discussione. Questa edizione postuma cambia l’ordine delle parole del testo più lungo: sororem mulierem circumducendi, cioè portare con sé una sorella come donna; e si legge così: mulierem sororem circumducendi, cioè portare con sé una moglie come una sorella, che ne modifica profondamente il senso. Così come il doppio accusativo in Matteo 1:20: mè phobetès paralabeín Marian tèn gynaíká sou, o in latino: noli timere accipere Mariam conjugem tuam, deve essere tradotto: “Non temere di prendere Maria, come tua sposa”, così anche nella prima lettera ai Corinzi 9:5 sororem mulierem circumducere, deve essere tradotto come “Prendere con sé una sorella come donna”, o moglie. Capovolgerlo rende la traduzione in tutti i casi impossibile. E non produce un significato chiaro: “Portare con sé una donna come sorella” – cosa dovrebbe significare? “Una donna come cristiana”, non ha senso, “Una donna solo se è realmente tua sorella carnale”, forse è quello che si è voluto far intendere, ma non sembra essere nelle intenzioni di Paolo; riporterebbe l’idea di “matrimonio spirituale”, propria del terzo secolo, indietro al tempo degli apostoli. “Una donna come ‘sorella’ (cioè appartenente ad un ordine)” sarebbe un pessimo anacronismo: gli ordini religiosi sorgono a partire dal sesto secolo. Girolamo (347-420), considerato l’autore della versione latina della Vulgata, non sa di questo cambiamento. Il suo testo, comunque, secondo il decreto di Trento del 1592 doveva “essere stampato il più correttamente possibile senza errori”. E’ accertato che nei suoi scritti successivi Girolamo preferisca tradurre come sorores mulieres (sorelle come donne) invece che uxores (mogli) rifacendosi – in assenza del manoscritto latino che recita così – ai codici greci che contengono il testo più lungo. Ma in tutti i testi aderisce alla forma “sorelle come donne”, sorores mulieres, ritrovata sia nei manoscritti greci che latini di cui disponeva, e non l’altra versione alternativa. I redattori della Vulgata non si appellarono dunque a Girolamo, il cui lavoro fu certamente sfruttato, quando cambiarono il testo il mulierem sororem. Gli stessi manoscritti della Vulgata che consultarono, incluso il famoso Codex Amiatinus, unanimemente riportavano la dicitura sororem mulierem. L’edizione critica più recente della Vulgata di Wordsworth-White nel 1913 è stata in grado di citare solo due dei trenta manoscritti in cui il senso della frase veniva alterato. Ma, data la conoscenza dell’epoca, gli editori del 1592 non erano in grado di esaltare questi manoscritti dato che preferirono comunque riferirsi al Codex Amiatinus. Partendo da queste osservazioni, è chiaro che essi non intendevano fare una critica testuale, ma avevano altre specifiche ragioni. Possiamo stabilirlo con grande probabilità: gli editori hanno tentato di nascondere, per quanto possibile, attraverso la trasposizione, l’ovvio significato delle parole testuali: “Non abbiamo il diritto di essere accompagnati da una moglie, come gli altri apostoli?” quasi a prevenire la normativa che sarebbe stata poi introdotta, come precisa proibizione ai successori degli apostoli di rito latino occidentale. Con questa mossa, la commissione del 1592 sulla Vulgata, divenne straordinaria testimone dell’importanza della parole di Paolo. Se la commissione non avesse realizzato che questa specifica frase, una volta approfondita, avrebbe avuto il potere di distruggere l’intera disciplina latina del celibato, non si sarebbe riservata il diritto di cambiare le parole e il senso dello scritto, in opposizione al testo originale greco, al testo di Girolamo e all’unanimità dei contenuti dei manoscritti della Vulgata. Che questa frase di S. Paolo sia ancora così poco conosciuta si deve anche alla trasposizione della Vulgata “ufficiale” che è stata considerata per quattrocento anni il testo autentico, anche se non corrispondeva a quello di Girolamo a alla Bibbia. In questo caso è quanto mai difficile credere alla buona fede della commissione. Certamente la sua intenzione era obbedire alla chiesa e alle sue leggi. L’obbedienza alla parola di Dio, comunque, deve essere intesa in modo più profondo – come testimonia il Nuovo Testamento quando parla della resistenza di Pietro ai Sommi Sacerdoti (Atti 4:19; 5:29). Il “diritto di essere accompagnati da una moglie”, che anche Paolo ha “così come tutti gli altri apostoli e fratelli del Signore, così come Pietro/Cefa”, ovviamente elimina ogni giustificazione sulla norma ecclesiastica del celibato: né “la proibizione ad avere figli” (quarto secolo), né la dichiarazione di nullità del matrimonio dei preti (dodicesimo secolo), né il matrimonio come ostacolo all’ordinazione (Trento, sedicesimo secolo) risultano legittimati se messi a confronto con il diritto degli apostoli.
2. Dopo questo excursus nella storia del testo, possiamo tornare al suo significato.
a. Il testimone più antico di questo testo, Tertulliano, fornisce l’interpretazione più vecchia e forse probabilmente la più imparziale. Scrive nel De Exhortatione Castitatis 8 (circa 204): “Anche gli apostoli potevano sposarsi e portare le mogli con loro”. Non c’è dubbio che sia una citazione del paragrafo della prima lettera ai Corinzi 9:5; lo deduciamo dalle parole usate: licebat che rende il senso di exousía o potestas; apostolis, che ritroviamo nel versetto; uxores, che traduciamo con gynaikas; circumducere, cioè periàgen; ne deriva la frase successiva di Tertulliano: “Potevano così anche vivere il Vangelo”, licebat et de evangelio ali, citazione anch’essa dalla lettera di Paolo, 9:4-14. E’ strano e significativo allo stesso tempo che Tertulliano aggiunga alle parole di Paolo in 9:5 “Avevano il diritto di sposarsi”, quando Paolo parla esclusivamente del diritto di essere accompagnati dalla moglie, mentre lui aggiunge che potevano sposarsi. Tertulliano è quindi assertore del diritto naturale degli apostoli, nonostante nel contesto egli stesso abbia optato per non sposarsi. Tredici anni dopo Tertulliano cambia opinione. Questo fatto probabilmente ebbe luogo nel contesto del suo avvicinamento al Montanismo rigorista che risale al 205, al quale aderì fino alla morte. Poi, nel De monogamia 8,6, datato intorno al 217, non riesce più ad attribuire agli apostoli la presenza delle mogli e cambia la prima lettera ai Corinti 9:5, traducendo gynaìkes come “donne che li servivano”. L’intenzione, nata dal rigorismo eretico, è chiara: l’ostilità del Montanismo verso il matrimonio ebbe una certa risonanza in Tertulliano, influenzando quindi il suo lavoro esegetico. Non è più né originale, né tanto meno affidabile. Clement di Alessandria (prima del 215), al contrario, nel Paedagogos II, 1,9 mette la frase “essere accompagnati dalle moglie” sullo stesso piano del “mangiare e bere” del capitolo 9 versetto 4 della prima lettera ai Corinzi, essendo “naturali utilizzi”, in altre parole, “diritti naturali”. Nel suo scritto Stromateis II, 6,52, pensa addirittura che sia possibile dedurre dalla lettera ai Filippesi 5,3 che Paolo avesse moglie, che certamente non viaggiava con lui, poiché non avrebbe potuto servirgli nella missione. Questa interpretazione, comunque, risulta contraria alle stesse ammissioni dell’apostolo di non essere sposato (1Cor 7:7). Tuttavia, questo evidenzia come il termine gynaìka venisse inteso alla fine del secondo secolo: cioè “moglie”. C’è un altro sostenitore di questa versione nel terzo secolo: Eusebio di Cesarea (265-335). Sebbene non abbia analizzato questo versetto, ci dice qualcosa sul fatto che gli apostoli avevano una moglie. Secondo la sua opinione, l’apostolo Filippo aveva tre figlie e ci parla della storia di due nipoti di Giuda Taddeo, il fratello di Gesù, mandati a Roma per essere martirizzati in quanto cristiani, ma rimandati indietro perché il giudice vide le loro mani callose. Chi ha figli e nipoti ha ovviamente anche una moglie. Il Vescovo S. Ilario di Poitiers (310-367), nel suo commento ai Salmi, si esprime in termini molto simili alle precedenti opinioni sul “diritto di matrimonio per gli apostoli”: “Quando l’apostolo elogia l’astinenza, allo stesso tempo non si esprime sul diritto al matrimonio; si riferisce soltanto al valore del celibato… “Non abbiamo anche noi il diritto di portare una donna con noi come gli altri apostoli e discepoli del Signore e Cefa?”. Quindi lui interpreta questo versetto in modo tale che il naturale “diritto di sposarsi” è espressamente dichiarato come quello degli apostoli. Dobbiamo riservare un grande peso all’esegesi di questo Padre della Chiesa, poi canonizzato, ed elevato al rango di Dottore della Chiesa nel 1851, poiché i suoi scritti risalgono a prima della lettera di Papa Siricio a Himerio di Spagna nel 385, che rese obbligatoria l’astinenza sessuale del clero: Ilario scriveva in un tempo in cui non esisteva nessuna legge che sfavorisse la sua interpretazione. Invece Girolamo (347-420) è chiaramente influenzato dalla legislazione. Prima della lettera pontificia a Himerio di Terragona (385), nel Adversus Helvidium 11 (383), egli copia nella sua risposta a Helvidio il testo letterale del suo avversario, “uxores circumducere”, senza criticarlo. Comunque, dopo la lettera papale, nel Adversus Jovinianum 1,26 (393), preferisce tradurre gynaìkas con “mulieres”, donne, piuttosto che “uxores”, mogli, “poiché gyné significa entrambe le cose in greco”; inoltre, egli ritiene che Joviniano volle aggiungere la parola trovata nei manoscritti greci sorores, da ciò “ne deriva che egli sta parlando di altre donne irreprensibili che li aiutavano nella loro missione, così come sappiamo che il Signore aveva donne che lo servivano”, e si riferisce a Luca 8:1-3. Seguendo l’interpretazione di C. Spicq e J.B. Bauer: c’è un preciso intento dietro questa interpretazione. Si voleva mettere, d’autorità, la crisi del celibato causata dal matrimonio di Joviniano allo stessa stregua del matrimonio e della verginità a Roma intorno al 390. Anche se mettiamo da parte questa intenzione di annacquare il senso dato da Girolamo, è una tesi insostenibile, poiché “le donne, che seguivano il Signore e si prendevano cura” di lui e dei suoi discepoli (Luca 8:2-3), non sono oggetto di un diritto degli apostoli, come dice Paolo nella prima lettera ai Cornzi 9:5. Nessuno ha diritto ad una domestica o a una serva, men che meno i seguaci di Cristo, dato che “il Figlio dell’Uomo viene non per essere servito, ma per servire” (Mc 10;45) e “un discepolo non è da più del suo maestro” (Mt 10;24). C’è, quindi, una sorta di diritto “a vivere il Vangelo” (1Cor 9;14), che è stato stabilito e reso effettivo dal Signore, di cui Luca 10;7 e 8:3 sono la prova. Quindi, le donne in Luca 8:3 sono un corrispondente della lettera ai Corinzi 9;4 e 14 e non di quanto si dice in 9:5. Fra i cristiani, il diritto di un uomo su una donna è ristretto all’ambito del matrimonio. Le donne di cui si parla nella prima lettera ai Corinzi 9;5, verso le quali gli apostoli avevano un diritto, dovevano essere le rispettive mogli. Ed era proprio così secondo le conoscenze storiche che abbiamo di Pietro, Filippo e Giuda. E’ chiaro, quindi, che sia il rigorismo (Tertulliamo) che la legge canonica latina (Girolamo) abbiano influenzato la comprensione del testo presentato sia dai Padri nei primi scritti, che da Clemente e Ilario. La ragione del cambiamento risiedeva nella speranza di eliminare “le mogli degli apostoli” che erano viste come un’offesa nel quarto secolo solo perché sembravano contraddire la tendenza ascetica di quel tempo. Si deve preferibilmente considerare l’interpretazione più naturale del primo periodo. Tutti gli scritti successivi della chiesa furono influenzati dall’interpretazione di Girolamo, quando affermava che le donne servivano Gesù e i suoi apostoli, Luca 8:3. Non intendiamo quindi considerarli nel dettaglio. Bisogna però fare un’osservazione sulle tesi di J. Galot che afferma che al tempo in cui gli apostoli furono chiamati da Gesù non erano sposati. Una spiegazione potrebbe essere che Galot ha sempre negato quanto spiegato fino ad ora. Soprattutto, non considera il testo di Tertulliano: “Anche gli apostoli potevano sposarsi e portare le mogli con loro” (Exh. 8). Un altro esempio della convinzione della chiesa che la lettera ai Corinzi 9;5 parlasse di mogli degli apostoli, è la lettera di Umberto da Selva Candida all’Abate Niketas (1054), riprodotta nel Decretum Gratiani, in cui ammette il diritto dei preti di “avere moglie” (uxores), come abbiamo letto che gli apostoli avevano, dato che l’apostolo Paolo dice: “Non dobbiamo anche noi…..” (1Cor 9;5). Anche se nega che avessero rapporti sessuali, ammette l’importanza giuridica del testo per la successiva introduzione della regola canonica (siamo ancora prima del Laterano II del 1139). Non si può far altro che credere a Paolo che ha conosciuto personalmente le “donne” degli apostoli.
b. Questa discussione è stata descritta esaurientemente da J.B. Bauer nel suo articolo “Uxores circumducere”. Il senso di “mogli” guadagna terreno. O. Kuss, J. Küzinger, C. Spicq e E.-B. Allo convergono sul fatto che si trattasse proprio delle “mogli”; secondo loro, comunque, sembra venga utilizzato il termine generico di “donne”. H.D. Wendland ha dato una svolta al dibattito. Non si parla del diritto di sposarsi, ma al diritto di sostegno da parte delle comunità. Questo deriva da un esame dettagliato della Prima lettera ai Corinzi 9:4, 6-14 e il diritto di avere una compagna è solo accennato. Il senso di questo accenno è che gli apostoli non potevano chiedere alle chiese di mantenere anche le loro mogli. Per contro si può affermare che Paolo, almeno indirettamente, parla del diritto ad avere una moglie. Poiché, se lui e Barnaba hanno il diritto di essere accompagnati da una moglie, anche loro avranno il diritto di scegliere una moglie, cioè di sposarsi. Altrimenti come avrebbero potuto affermare il diritto di portare la moglie con loro? Immediatamente prima, nel capitolo 7 della lettera di Corinzi, Paolo ha già parlato del diritto al matrimonio. Non sarebbe necessaria quindi una ulteriore considerazione sui capitoli successivi. Bisogna notare che Paolo, dopo aver enunciato i propri diritti in 9;4-14, e aver parlato generalmente di altri diritti nel versetto 15, dichiara di non farne uso: “Tuttavia io non ho fatto uso di nessuno di essi”, ou kéchremai oudenì toútôn. Quindi, non parlava di un solo diritto, ma di svariati. Secondo il testo breve originale, gynaìkas, col suo significato originario di uxores, mogli, non c’è bisogno di altri argomenti che sanciscano il risultato di questo lavoro esegetico: nella sua lettera ai Corinzi, Paolo parla dell’abitudine di alcuni, cioè degli apostoli, Pietro e i fratelli del Signore, e degli altri apostoli, di portare con loro in missione le proprie mogli, e il loro diritto di pretendere per loro cibo e acqua dalle comunità, allo stesso modo di come pretendevano per se stessi. Anche se preferissimo il testo lungo “una sorella come moglie”, questa interpretazione non altererebbe il senso, poiché l’oggetto diritto dell’apostolo può essere sono una moglie – naturalmente cristiana, cioè una “sorella” – non una cameriera.
c. Ora, la definizione di questo diritto è così spiegata: exousìa significa generalmente “permesso, diritto”, derivante da éxestin, “viene concesso”. Nel Nuovo Testamento, exousìa significa sempre un potere derivante da Dio. In 1 Corinzi 9, comunque, Paolo elenca una lista di diritti speciali degli apostoli. Egli ne ha diritto così come “gli altri apostoli”, per il fatto stesso di essere apostoli e ufficiali; non sono diritti di tutti i cristiani! I semplici cristiani non possono pretendere sostentamento economico dalle comunità. Perciò, Paolo inizia il capitolo 9, che tratta dei suoi diritti o della sua volontaria rinuncia ad essi (come a farsi esempio per gli stessi Corinzi), con la triplice domanda: “Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?” (1Cor 9:1). Nella prima domanda egli sintetizza il senso di tutti I suoi diritti; con la seconda evidenzia la sua autorità di apostolo; con la terza intende fondare la sua autorità sulla chiamata del Signore. Nel contesto dei capitoli 8 e 10, che trattano del diritto divino dei Corinzi di mangiare carne proveniente dai sacrifici, Paolo dice nel capitolo 9: voglio darvi un esempio di cosa dovreste fare riguardo al vostro diritto di mangiare carni offerte agli idoli e poi vendute nei mercati: avete diritto di mangiarne poiché non ci sono idoli, non esistono. Ma se qualcuno è malvagio e non crede nella inutilità degli idoli, e offende quindi il vostro pasto, dovete quindi astenervi dal mangiare, per amore del vostro fratello che pensa che anche voi forniate culto agli idoli. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero (9;15-19). Ciò che segue riguarda quindi le libertà o i diritti soggettivi riservati a lui in quando apostolo. Tornare alle origini dei suoi diritti, cioè fondandoli sulla chiamata di Dio è vitale per interpretarli: come i Corinzi hanno i loro diritti di fronte a Dio di mangiare carni offerte agli idoli, così i diritti apostolici hanno origini divine. Paolo sottolinea ancora una volta questa cosa alla fine del passaggio (9:14): “Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo.” Ciò si riferisce al diritto di essere mantenuti dalle comunità: “Non abbiamo il diritto di mangiare e bere” con cui Paolo allude alle frasi del Signore in Luca 10:7 (Matteo 10:10): “Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede.” Il secondo diritto (9:5) è urgente ed importante quanto il primo: “Non abbiamo forse il diritto di portare con noi le nostre mogli?”, mè ouk échomen exousían gynaíkas periágein? Si riferisce a quelle mogli che condividono con gli apostoli il diritto a mangiare e bere. La connessione a questa caratteristica apostolica è la ragione per cui Paolo menziona il diritto di essere accompagnati dalle mogli: le mogli di un predicatore sono coinvolte nel servizio di predicazione; quindi, devono essere loro riservati gli stessi riguardi. Quindi, se il primo diritto apostolico “mangiare e bere” è riconducibile al Signore, il secondo, secondo Paolo, lo è altrettanto. Gli apostoli “hanno” il diritto, non lo usurpano. E lo “hanno” dal Signore, ad esempio mangiare e bere (Luca 10:7), avere una compagna creata espressamente dallo stesso Signore (Gen 1:28; 2:24 1Cor 7:9-29). Il terzo diritto deriva dal primo: gli apostoli, occupati nella missione, non devono svolgere lavoro fisico: “E’ solo Barnaba che ha il diritto di asternersi dal lavoro?” (9:6), ma di vivere dei doni, delle “tasse ecclesiastiche” oppure “del Vangelo”, come dice il Signore. Quindi, i tre diritti sono la volontà di Gesù, il Signore. Abbiamo a che fare con la legge di Dio garantita dal Signore – nel linguaggio tecnico, con lo ius divinum. Possiamo individuare l’affetto del Signore che voleva proteggere i suoi apostoli – e i loro successori e aiutanti, come Barnaba – dall’essere oberati di attività, o dal peso del celibato che non possono sopportare (Mt. 19:11). Come ci mostrano sia Paolo che gli altri, il diritto “divino” non contempla una rinuncia volontaria “al loro utilizzo” (1 Cor 9:15). Mantengono il diritto anche se vi rinunciano. Quindi, anche se hanno rinunciato al diritto di sposarsi per un certo tempo: “Abbiamo lasciato tutto (e tutti) e ti abbiamo seguito: dov’è la nostra ricompensa?”, chiede Pietro a Gesù (Mt. 19:29), poiché nessun legame terreno può avere precedenza su Cristo e sul Vangelo. Comunque, dopo l’ascensione del Signore, “gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa” hanno iniziato, sono tornati a vivere con le mogli, e le hanno portate in missione, come ci dice Paolo (1 Cor 9:5). Questo significa che gli apostoli, così come Paolo, sono in ogni caso liberi di far uso del proprio diritto di portare con loro la moglie, poiché lei è di sicuro aiuto nell’evangelizzazione. La possibilità di fare uso, in qualunque momento, dei suoi diritti, è una delle ragioni per cui Paolo ne parla spesso: insiste di “avere” gli stessi diritti di tutti gli altri apostoli, sulla base di una eguaglianza di status con tutti loro. Non è inferiore a loro quanto ad autorità o a diritti. Quindi insiste: “Se per gli altri io non sono un apostolo, almeno lo sono per voi; questa è la mia difesa di fronte agli altri che mi esaminano: Non abbiamo forse il diritto di mangiare e bere? Non abbiamo il diritto di essere accompagnati da una moglie? O io e Barnaba sono i soli che non abbiamo il diritto di astenerci dal lavoro? Perché gli altri apostoli ce l’hanno?” (1Cor 9:2-6). E’ chiaro che usa i suoi diritto per dimostrare che la sua autorità apostolica è identica a quella degli altri. E’ cruciale che questi siano diritti reali e possano essere esercitati in ogni momento. Egli ha “ancora” il diritto di scegliere una donna come compagna, non è negato per sempre poiché egli ha rinunciato ad usare quel diritto: egli resta libero” (9.1). Il fatto di astenersi è il suo vanto (9:15). Dobbiamo tenere a mente il problema del matrimonio dopo l’ordinazione: secondo Paolo, qualunque successore degli apostoli, cioè qualunque prete, si può sposare anche dopo l’ordinazione.
d. Per tirare le somme: possiamo affermare che dove troviamo la parola gyné nel Nuovo Testamento versione greca in connessione con un uomo, anér, significa sempre “moglie”, come in molti linguaggi dire “la mia donna”, significa “mia moglie”. Così, ad esempio, reggiamo in 1 Cor 7:2: “Ogni uomo deve avere la sua donna”. Quindi, in 1 Cor 9:5, la stessa parola gyné, in stretta connessione con il termine “uomini” indica la compagna, cioè la moglie degli apostoli. Come ci dice il Vangelo di Marco (1:30) e gli scritti di Eusebio nella Storia della Chiesa (III,20,1-5 and 31,2-3), alcuni apostoli menzionati in 1 Cor 9:5 erano sposati. Questo significa che Paolo allude alle mogli degli apostoli. Infatti, i testimoni più antichi, Tertulliano, Clemente, la vecchia traduzione latina, Ilario e il primo Girolamo, hanno tradotto ed interpretato la parola gyné come uxores, mogli. La traduzione successiva “mulieres”, donne, e l’interpretazione che le ha fatte diventare “le donne aiutanti”, è stata influenzata dall’eresia (Tertulliano) o dalla legislazione legata alla continenza (Girolamo). L’altra aggiunta postuma adelphén o sororem, sorelle, avvenne per motivi di decenza, o in occidente, per sminuire il significato di “moglie”. La trasposizione della Vulgata Clementina, mulierem sororem, “prendi una donna come sorella”, rende evidente questa tendenza. La nostra critica al testo ci ha permesso di scoprire le parole originarie di Paolo e le sue affermazioni per capire il reale significato: il Signore ha garantito agli apostoli e ai loro seguaci il diritto di portare le mogli con loro e che venissero mantenute dalle comunità. Astenersi volontariamente da questo diritto è possibile e previsto, ma è una questione soggettiva: il diritto, la libertà di sposarsi, rimane garantita dal Signore.
e. La domanda quindi è sempre la stessa – e più puntuale di prima – se, contrariamente al diritto di tutti gli uomini, inclusi gli apostoli, di avere una moglie, garantito da Dio il Creatore e da Cristo Signore, la proibizione della chiesa in qualità di legislatore, possa ritenersi valida. Non è piuttosto una legge nulla fin dalle origini? Dobbiamo prestare la massima attenzione a questa domanda decisiva.

(Traduzione cortesia di Stefania Salomone)

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