TRADURRE E TRADIRE
Riguardo
alla traduzione di testi liturgici e Sacra Scrittura.
Esistono
diversi testi sia della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo e di San
Basilio, sia di vari testi liturgici e della Sacra Scrittura; tradotti dai
testi originali si proclama. Sicuramente in passato ci sono stati diversi
errori nel tradurre il testo greco, originale, in latino per la non perfetta conoscenza
della lingua greca.
Vedi a questo proposito la preghiera
Domenicale e l’esegesi del Padre nostro da Sant’Ambrosio (Libretto:
La Fede dei Padri). Padre nostro
che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta
la tua volontà, come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane essenziale,
e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E
non ci esporre in tentazione, ma liberaci dal maligno.
Vedi anche Luca 17, 20-21,
il testo originale in greco
dice:Ἐπερωτηθεὶς δὲ ὑπὸ τῶν Φαρισαίων, πότε ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ
θεοῦ, ἀπεκρίθη αὐτοῖς καὶ εἶπεν, Οὐκ ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ μετά παρατηρήσεως·
οὐδὲ ἐροῦσιν, Ἰδοὺ ὧδε, ἤ, Ἰδοὺ ἐκεῖ. Ἰδοὺ γὰρ, ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ ἐντὸς ὑμῶν ἐστίν. Traduzione CEI e non solo: Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: «Il regno
di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui,
o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». Chi ha una minima
conoscenza di greco, anche scolastica, si chiederà come mai ἐντὸς ὑμῶν è stato tradotto è in mezzo a voi invece di è dentro di voi. Una mia piccola ricerca
fa risalire questi, ma anche altri, errori alla Vulgata, in altre parole al beato
Gerolamo. Ma mi pongo la domanda perché anche nei giorni nostri si continua a
portare avanti errori del genere? I professori che traducono la Sacra Scrittura
dai testi originali è possibile che non conoscano il greco? Non sarà forse che
per il Vaticano riconoscere gli errori, anche errori di questo genere, è sempre
difficoltoso?
Consideriamo adesso anche le odierne traduzioni di testi
liturgici.
Ci si
ostina a chiamare la Vergine Maria “Madre di Dio” cancellando il fatto che l’argomento
è stato affrontato da un Concilio Ecumenico e che i Padri nel Concilio Ecumenico del 432, riunito nella città di Efeso, dichiaravano:
“Professiamo la Vergine Theotokos
poiché il Verbo di Dio si è incarnato diventando uomo in lei ..”. “Theotokos”, cioè colei che ha partorito Dio incarnato. Questo termine
è stato adottato dalla Chiesa universale di allora. La Chiesa d’occidente adoperò il termine Deipara che in latino significa appunto “colei
che ha partorito Dio”.
Nelle
varie traduzioni dell’Inno Acathistos, al di fuori di quella dell’Antologhio, l’arcangelo
si rivolge alla Vergine con Ave o Salve ignorando le considerazioni dei
teologi bizantini riguardo al saluto dell’angelo. Giovanni Geometris riguardo al saluto dell’Angelo dice: “Gioisci,
perché la gioia hai concepito, la gioia è cresciuta nel tuo ventre, la gioia
che oltrepassa ogni intelletto e parola hai generato ..”. L’arcangelo Gabriele porta alla Vergine il gioioso annuncio ed insieme a
lei gioiscono le schiere angeliche e ogni uomo in terra. Gioiscono tutti,
piccoli e grandi, servi e potenti, poiché la Vergine diventa motivo di gioia
spirituale per l’ecumene.
Gioisci perché partorirai il Salvatore.
Ci si
ostina a chiamare il Signore “amico dell’uomo” nella quasi totalità dei testi
tradotti, ma il rapporto fra il Signore
Iddio e l’uomo non
è un rapporto di amicizia ma di amore, di eros dicono i Padri della Chiesa. Il rapporto fra Dio e l’uomo è un rapporto di amore come ci conferma
anche l’evangelista Giovanni: “Dio ha
così amato l’uomo da mandare il suo Figlio unigenito..”. Dio non si
incarna per amicizia ma per amore, non subisce la passione perché è amico dell’uomo
ma lo fa perché lo ama. Dio è colui che ama l’uomo. A me personalmente il termine “Filantropo” sembra il più appropriato anche se oggi giorno ha un
significato, nella lingua corrente, diverso ma ha la sua valenza nel linguaggio
ecclesiastico. “Filantropo” infatti è composto da due parole: “fìlos” e “antropo” che significa colui che
ama l’uomo.
Il termine “Kirie eleison” (un termine che è stato usato fino a qualche anno indietro da tutta la
Chiesa, d’oriente e d’occidente) è tradotto con la parola
pietà, ma anche il termine ἱλάσθητι che significa
compassione è tradotto allo stesso modo pietà. “Kirie
eleison” risulta essere di difficile traduzione poiché il suo significato
esatto sarebbe: Signore abbi compassione di me peccatore e donami nella tua
misericordia e amore quello di cui ho bisogno: amore per amarti, pace, forza
per resistere alle trappole del demonio, purezza ecc..
La
traduzione più appropriata di “eleison”è “abbi misericordia”
e a questo proposito seguirà un testo di padre Ambrosio di Torino che ha affrontato
e approfondito l’argomento.
Mi chiedo perché si continua a usare questi e altri termini che alterano
la teologia fin qui tramandata dalla Chiesa? Perché anche gli ortodossi (non
tutti) che dovrebbero essere i più attenti a custodire usano queste traduzioni?
Note sull’uso di pietà e misericordia dell’ Igumeno
Ambrogio
DOMANDA
Caro padre Ambrogio,
nelle tue traduzioni, il greco elèison è tradotto con “abbi
misericordia”. Perché non segui la maggioranza delle versioni correnti, che
traducono “abbi pietà”?
RISPOSTA
La terminologia “abbi pietà” è lo
specchio di un uso molto povero e decadente della lingua italiana, nel quale ha
non poco peso l’inserimento della mentalità feudale che ha progressivamente
estraniato l’Occidente cristiano dall’Ortodossia.
Il latino pietas indica precisamente la devozione (evlavia in greco e in romeno, blagochestie
o l’equivalente blagogovenie in
slavonico), cioè l’atteggiamento di giusto rapporto con la divinità (ovvero,
come ancora oggi si dice in italiano, l'essere “pio”). Tale qualità non ha
correlazione con l’esercizio della misericordia (in slavonico e romeno mila: la sua sfera semantica può
comprendere: amore, tenerezza, indulgenza, commiserazione, compassione…) se non
nel senso lato e popolaresco di “appello alla pietà” di una data persona, di
cui si vuole stimolare il senso religioso perché usi compassione. Il fatto di
volersi appellare alla pietà (=devozione?) di Dio indica quanto improprio sia
l'uso di questa espressione corrente.
In latino – spero non ci sia
dubbio tra alcuno studioso – pietas e
misericordia non erano affatto
sinonimi. Sulpizio Severo, al punto 27/2 della Vita Sancti Martini episcopi et confessoris, scrive di san Martino:
numquam in illius ore nisi Christus,
numquam in illius corde nisi pietas, nisi pax, nisi misericordia inerat. Se
nel cuore di san Martino non c’era altro che pietà e pace e misericordia,
pare piuttosto evidente che pietà e misericordia – ameno alle orecchie di un
autore cristiano del IV-V secolo come Sulpizio Severo – non siano la stessa cosa,
così come nessuna delle due è la stessa cosa della pace.
Prendiamo come altro esempio –
soprattutto perché riguarda un appello accorato – una delle colonne del
pensiero cristiano ortodosso in (ottima!) lingua latina, i Dialoghi di san Gregorio Magno. Nel primo capitolo del libro III,
san Paolino di Nola accompagna una vedova in Africa per ottenere la liberazione
del figlio della donna, prigioniero del genero del re dei Vandali. La donna
prega il barbaro con le parole: solummodo
pietatem in me exhibe, “soltanto mostra pietà nei miei confronti”, ovvero
“abbi soltanto pietà di me”. Versione perfetta e antica e ortodossa, MA… riferita al genero di Genserico, NON a Dio onnipotente!
Nessuno, nell’antichità
cristiana, avrebbe avuto la sfacciataggine di chiedere la pietas di Dio (…a chi dovrebbe essere devoto, Dio?): si chiedeva
piuttosto la sua misericordia
(termine latino così come italiano), e questo è quel che fa ogni autore ortodosso in Italia fino al tempo del
feudalesimo. Poi, con il moltiplicarsi degli appelli alla pietas per stimolare il potente di turno a essere pius e a non scannarti, la misericordia
inizia surrettiziamente a cedere il passo alla “pietà” nel periodo più oscuro
dei latinismi liturgici.
Uno dei meriti del Compendio liturgico ortodosso (1990) –
per il quale non sarà mai ringraziato abbastanza – è quello di avere messo in
discussione nell’ambiente ortodosso italiano la traduzione di èleos con il termine “pietà”. Al suo
posto propone il termine “misericordia”, nulla di fantasioso, ma semplicemente
la corretta traduzione latina (e italiana) di èleos. In tal senso non si è mosso solo un gruppo di ortodossi:
così traducevano già da tempo serie figure del mondo cattolico come padre
Giovanni Vannucci, osm (1913-1984) e don Divo Barsotti (1914-2006), buoni
letterati e poeti oltre che esperti di lingua liturgica.
Non vedo buone ragioni, in una nuova
traduzione della Liturgia, di tornare al linguaggio sacrocuorista delle
versioni precedenti. In tale linguaggio non c’è nessun dogma conclamato,
senz’altro, ma perché, se ce l’abbiamo teologicamente
con i sacri cuori, dobbiamo meschinizzarci linguisticamente
a parlare da sacrocuoristi? Forse che i modi con i quali ci esprimiamo non
hanno alcun nesso con il modo di vivere la nostra fede? Non riesco a spiegarmi
perché gli ortodossi di oggi, talvolta attenti in modo maniacale a cogliere i pensieri dell’Occidente latino (radici
di eresie vere o presunte) devono poi bersi supinamente le espressioni linguistiche che vengono dalla stessa fonte, invece di
usare i termini altrettanto accettabili dell’antico Occidente ortodosso.
Queste piccole ma importanti
considerazioni sono il sine qua non
di una sensibilità linguistica alle cose sacre. Se una retta dottrina porta a
una retta pratica, una buona semantica non può che aiutare una buona
intelligenza della fede.
Vogliamo poi vedere che razza di
caos viene a crearsi nelle nostre traduzioni con l’inclusione di questa
piccolezza, la “pietà di Dio”, di questo “iota”, di questa innocua espressione
che tanto “ormai è entrata nell’italiano corrente”?
1 – Quei punti che meriterebbero
davvero la traduzione letterale di “pietà” – per esempio la petizione per
quelli che entrano in chiesa “con fede, pietà e timor di Dio” – diventano
oscuri. Di solito si mantiene in questi punti il termine “pietà”, e non si
riesce più a capire in cosa questa pietà dovrebbe distinguersi da quella
riferita a Dio negli altri punti in cui si è tradotto eleos in questo modo.
2 – Quando si traduce eleos con “pietà” non si riesce mai ad
andare a fondo nella coerenza. Perché “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua
grande misericordia” e non: “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande
pietà”? Si tratta dello stesso termine.
3 – A “misericordioso” cede il
passo “pietoso”, oggi piuttosto sinonimo di “oggetto di compassione” (come in:
“avere un aspetto pietoso”), e chi non si sente di parlare di un “Dio pietoso”
se non in apnea, ritorna spesso e volentieri a usare il termine
“misericordioso”, usando deliri di confusione del genere “abbi pietà perché sei
un Dio misericordioso”.
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