«Gli ortodossi non hanno mai avuto simpatia per le summe teologiche,
né per i sistemi scolastici. Ogni formulazione o definizione eccessiva
provoca una diffidenza
istintiva, L’ortodossia non ha bisogno di formulare, ha bisogno di
non formulare. È una convinzione innata che viene dai Padri della
Chiesa, che non è bene speculare sui misteri, è meglio
contemplarli, lasciarsi illuminare e penetrare dalla loro luce; così
senza farsi razionalizzare, il mistero diviene illuminante. Da qui ogni
tipo di spiritualità, molto più liturgico e
iconografico che discorsivo, concettuale e dottrinale».
P. N. Evdokjmov
(teologo russo – 1901/1970)
CULTO, CULTURA E CRISTIANESIMO (1)
di p. Pavel A. Florenskij
La cultura è la lotta consapevole contro
l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale
resistenza al processo di livellamento dell’universo,
è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che
assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione,
sinonimo di morte. Ogni cultura è un sistema
finalizzato e saldo dimezzi atti alla realizzazione e al
disvelamento di un valore, adottato come fondamentale e assoluto, e
dunque fatto assurgere a oggetto di fede. I primi riflessi di questa
fede nelle funzioni imprescindibili dell’uomo determinano i punti di
vista sui settori inerenti a dette funzioni, ossia sulla realtà
oggettiva nella sua interazione con l’uomo. Tali punti di
vista sono, sì, categorie, ma non categorie astratte, bensì concrete
(si veda la Kabbalah); la loro manifestazione nella pratica è il culto.
La cultura, come risulta chiaro anche
dall’etimologia, è un derivato del culto, ossia un ordinamento del
mondo secondo le categorie del culto. La fede determina il culto e il
culto la concezione del mondo, da cui deriva la
cultura (…)
Per un ortodosso la Chiesa non è un’autorità esterna come per i cattolici; gli ortodossi non hanno mai avuto cara quell’unità della Chiesa che i fedeli
conquistano a scapito detta propria libertà, ma sono altrettanto lungi dall’interpretazione protestante, per la quale «Chiesa» è una parola vuota. Il cattolicesimo tende a
identificare la Chiesa con il Clero, a opporre il clero ai laici. Nell’ortodossia la Chiesa non è pensabile senza la gente, e il popolo dei credenti è la Chiesa.
È
un’opinione che accomuna tutte le Chiese ortodosse, dagli armeni ai
greci; nel XV paragrafo dell’enciclica dei patriarchi d’Oriente del 6
maggio 1848 dice: «Né i patriarchi né le chiese hanno mai
potuto introdurre, da nessuno alcunché di nuovo, giacché custode
della nostra devozione e dottrina il corpo stesso della Chiesa, cioè il
popolo». Innocenzo, vescovo dei isole Aleutine,
sosteneva che il vescovo è allo stesso tempo maestro allievo dei
proprio gregge.(…)
Un’altra peculiarità del rapporto tra ortodossia e Chiesa
è il primato del culto, e della liturgia in particolare, sulla dottrina
e la morale cristiana.
Turpiloquio, zuffe, ubriachezza sono un peccato minore rispetto a un
digiuno violato; un confessore perdona più facilmente un peccato di
lussuria che una celebrazione mancata; prender parte alla
liturgia avvicina alla salvezza più che la lettura del Vangelo; l’esercizio del culto è più importante della beneficenza.
Non per nulla il nostro popolo ha assimilato il
cristianesimo non dal Vangelo ma dal prologo (delle vite dei santi),
è stato edotto non dai sermoni ma dalle liturgie, non dalla teologia ma
dal culto e dalla devozione alle cose sacre. Menti
avvezze a concedere il primato alla ragione, all’intelletto e
all’analisi si scandalizzano della cosiddetta fede liturgica degli
ortodossi; ma il loro scandalo altro non è che un malinteso.
Forse che un malato farebbe meglio a studiare medicina
invece di prendere un farmaco e curarsi? La religione non è mai figlia
della ragione; a infastidire chi non la ammette non
è solo la fede liturgica, ma anche la filosofia religiosa; che la
religione la ammette, invece, riconoscerà che essa non è propriamente
ragione, né conoscenza, ma relazione concreta con Dio;
la religione non è speculazione sulle cose di Dio, ma accoglimento del divino nella sua essenza.
Perciò la preghiera - durante la quale Dio scende nel cuore deflorante -
è per
chi crede financo superiore alla lettura della Bibbia o alla
devozione per le reliquie, dalle quali, come da un vaso ricolmo, si
riversa la grazia; è più importante del far propria la saggezza
teologica. L’Eucaristia, l’accoglienza del Corpo del Signore nel
proprio, è infinitamente più importante di qualunque sermone, di
istituti di beneficenza, scuole, ospedali da fondare ecc.
L’ortodosso ritiene graditi a Dio non solo gli atti suddetti: le
formule di preghiera pronunciate in chiesa, le melodie che visi cantano,
i lumi, i ceri accesi non sono solo parole e gesti, ma
cerimoniali, ossia formule e atti che - per quanto somiglino a
parole e gesti consueti - se ne distinguono per una forza misteriosa,
mistica, sovrannaturale. Esteriormente l’acqua santa non è
diversa dalla normale, ma scaccia i demoni, guarisce dal malocchio
ed è d’aiuto contro i malanni. Si comprende, così, l’ostinato
conservatorismo dell’ortodossia russa, che non consente di
modificare una sola lettera, un solo gesto della liturgia. Sono
quelle formule ad aver dato la salvezza, e non è dato mai sapere se le
nuove possano fare altrettanto. (…)
«L’ortodossia» ha scritto Pobedonoscev « è religione di pubblicani e prostitute, che entreranno nel Regno dei Cieli prima di uomini di
legge e farisei.» Così intendevano l’ortodossia Leskov e Dostoevskij, e nessuno meglio di loro ha descritto la sostanza della fede popolare. La forza di Dio si compie nella
debolezza; se Dio stesso si è fatto debole, come possiamo
noi disprezzare i deboli? Che sia nella debolezza che si manifesta la
grazia? Per questo l’ortodosso non giudica mai
dall’aspetto esteriore. Egli non ha fretta di giudicare e
scandalizzarsi, prova persino una certa simpatia per ubriachi, miseri,
straccioni, ignoranti o semplici idioti. Egli non cerca splendore,
grandezza forza, al contrario è quanto mai cauto quando vede forza e
fulgore che sempre gli paiono «umani, troppo umani». L’ortodossia è l’esito opposto dell’idea pagana ed europea
moderna (come espresso suo massimo da Nietzsche) per la
quale il valore dell’uomo aumenta con l’accrescersi delle sue qualità
esteriori, per la quale quanto più intelligente, bello e
forte in corpo e volontà è l’uomo, tanto più egli sarà divino. L’ortodossia attua un rovesciamento dei valori assai più radicale; non solo essa mette in dubbio la corrispondenza diretta
il valore dell’uomo e i suoi meriti umani, ma è incline a intende tale corrispondenza come inversa. (…)
Il suo giudizio l’ortodossia lo applica anche all’ambito
del sociale. «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i
costruttori (Salmi
CXXVI)» Essa guarda con sospetto al processo sociale e culturale, e
nel migliore dei casi lo giudica opera assai relativa, del tutto umana e
che poco ha in comune con quei processi autenticamente
divini e misteriosi che si compiono nell’animo delle genti.
Raggiungere l’uguaglianza, eliminare la povertà e la fame, ottenere che
la pace regni nel mondo è forse possibile, ma «quando si dirà:
“pace i sicurezza”, allora all’improvviso li coprirà la rovina» (1 Tessalonicesi 5,3). E
se al mondo servissero sofferenze e povertà? Se una volta raggiunto il
benessere,
l’umanità si facesse presuntuosa e dimenticasse Dio? Se la sazietà
quietasse la coscienza? Se l’ozio e una vita senza dolore risvegliassero
vizi inauditi? Per questo l’ortodossia
non mira ad adoperarsi nella società e non ha un’alta opinione delle iniziative sociali.
Persino nell’ambito della Chiesa e delle sue opere (la missione,
l’istruzione religiosa),
l’ortodossia mostra non solo imperizia, ma financo indifferenza. Di
questo atteggiamento ha dato una definizione precisa san Eulogio quando
venne consacrato vescovo di Lublino: «Dobbiamo
forse impugnare la spada anche noi» disse «armarci di tutto
punto per la battaglia come fanno le altre religioni che si vantano dei
grandi, enormi successi della loro propaganda? Si ode
allora la voce minacciosa del nostro primo pastore: “chi di spada
ferisce, di spada perisce”. No, non è questa la forza del vero pastore nello spirito di Cristo: essa
non sta nel rigore e nella salda organizzazione dei suoi
uomini, non nel fatto che essi occupino ogni ambito della società, non
nell’abbondanza di mezzi materiali, e nemmeno nei sermoni
che tanto ripugnano alla saggezza umana; no, dice il santo
apostolo, non è per la carne che combattiamo; le armi del nostro
esercito non sono di carne, ma hanno forza in Dio; sono la
corazza della giustizia, lo scudo della fede, l’elmo della salvezza,
la spada dello spirito, il verbo di Dio e la preghiera».
Le parole citate esprimono con chiarezza sia il disprezzo
per le forme umane di lotta, sia il timore di scambiare per divine
quelle che sono gesta umane. Ciò non
significa che l’ortodossia neghi tutte le opere dell’uomo, ma più d’ogni altra cosa essa teme di confondere il divino col terreno.
Siamo agli antipodi del luteranesimo che
ritiene compito della Chiesa, o meglio degli uomini, sia gli uffici
religiosi che la predicazione, e la beneficenza. L’ortodossia non nega
la beneficenza; vestire gli ignudi, sfamare gli
affamati, visitare i malati sono virtù antiche dei russi, ma hanno
senso solo in quanto atti d’amore, di carità, e non quale mutamento del
mondo da «valle di lacrime e pianto» in paradiso
terrestre. Laddove in Occidente l’attività sociale e la beneficenza
religiosa si prefiggono di rendere più normali le condizioni di vita e
assumono perciò forme neutre e meccaniche (ospizi per i
poveri, eliminazione della povertà, pensioni di Stato per gli
anziani, assistenza), pur provando grande compassione per chi soffre,
l’ortodossia non crede nella possibilità di cambiare le cose
per tramite di sforzi umani, e dunque la beneficenza… ha carattere
personale di aiuto a una determinata persona, senza intermediari e solo
per amore nei confronti del singolo uomo, e non perché
si creda con ciò: di cambiare le condizioni di vita dell’umanità.
(…)
E poiché tutto si compie non grazie alla nostra ragione,
ma nel giudizio Divino, poiché l’uomo pone e Dio dispone e tutto, alla
fin fine, è nelle Sue mani,
il dovere religioso dell’uomo è di sottomettersi a Dio, di
rinunciare alla propria volontà umana e di non contrariare quella
Divina. Questo è il primo obbligo del cristiano. E
deve compiere in umiltà ciò a cui viene chiamato, vivere come tutti
gli altri senza mettersi in evidenza né porsi grandi traguardi, e
disquisire il meno possibile. (…)
Vien da credere che di tutte le confessioni cristiane nessuna senta proprio Cristo come l’ortodossa. Nel protestantesimo Cristo è un’immagine lontana senza
nulla di individuale; nel cattolicesimo egli è fuori dal mondo e fuori dal cuore dell’uomo. I santi cattolici lo vedono dinanzi
a loro, come modello a cui somigliare fino alle stigmate,
le ferite dei suoi chiodi, e solamente l’ortodosso - non solo il
santo, ma qualsiasi laico devoto lo sente dentro di sé, nel proprio
cuore. (…)
L’intimità con Dio non ha nulla in comune con l’esaltazione e il sentimentalismo occidentali...
NOTA
(1)Tratto dal libro di Florenskij, Bellezza e liturgia - Oscar Mondadori - I edizione oscar - 2010
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