Il piccolo villaggio arbëreshë di Villa Badessa,in provincia di Pescara, si trova a pochi chilometri dal comune di Rosciano (in Abruzzo), dove esiste una delle parrocchie uniate (la più settentrionale in Italia) delle 29 appartenenti alla diocesi di Lungro (in provincia di Cosenza). Anche a Villa Badessa è accaduto di assistere a quanto ormai avviene in quasi tutta l’isola (o ghettizzata) “chiesa bizantina arbëreshë”.
Dell’articolo ci interessa soprattutto sottolineare (se mai abbiamo inteso bene) il valore “feudale” del popolo di Dio nella chiesa uniata-arbëreshë, o per dirla in termini moderni il numero “politico”. Purtroppo ben sappiamo, che per chi vive (come i fedeli arbëreshë) all’interno della gabbia vaticanista, esiste e “canta”, alla stessa s-tregua di quell’uccello del celebre proverbio popolare dove si dice che: “chiuso in gabbia, non canta per amore, ma per rabbia”. Quindi comprendiamo la nostra povera gente arbëreshë.
Una cosa comunque è certa: la scomparsa silenziosa di tutto un popolo (quello arbëreshë appunto) si sta compiendo davanti agli occhi di tutti. E chi fino a ieri si vantava di aver aiutato, difeso, custodito l’identità degli arbëreshë e il “rito greco-bizantino” (la classe levitica, cortigiana e/o scriba-cchina di popolo) oggi si sta procedendo di gran corsa, alla cancellazione di quel poco che è rimasto di una tradizione orientale nei piccoli villaggi arbëreshë. Insomma, pare che vogliano mettere fine alla presenza secolare degli Arbëreshë.
UNA FAVOLA ROMENA: IL FEUDO DI VILLA BADESSA
di Gaetano Passarelli
C’era una volta. Così cominciavano e cominciano le storie, e così comincia anche quella che vi voglio raccontare.
C’era una volta un conte, un signorotto in Calabria che, non si sa perché, non si sa per come, aveva ereditato un piccolo feudo in Abruzzo, di nome Villa Badessa.
Questo signorotto, duro di cuore e di cervice, aveva diversi vassalli barbuti che amministravano le sue terre. Un giorno morì quello del feudo di Badessa, ma non si diede pensiero, lasciò che un mezzadro lo conducesse. Il poveretto s’era però lasciato abbindolare da una nobile famiglia. Così, nel piccolo feudo, non c’era foglia che non fosse soppesata al generoso desco della nobile famiglia.
Un giorno il signorotto decise di nominare un vassallo barbuto per questa sua terra lontana. I sudditi, diffidenti, pensavano che nulla sarebbe cambiato: l’uno vale l’altro, si dicevano sconsolati, ma ben presto dovettero ricredersi. Questa terra cominciò a verdeggiare, a fiorire, e tanto era il profitto che tutti erano convinti, tranne la nobile famiglia spodestata. Non si diede, tuttavia, per vinta, e intensificò l’invito di piccioni viaggiatori al signorotto che solitamente non ascoltava alcuno, ma, per uno strano scherzo del destino, prestava sempre orecchio ai messaggi della nobile famiglia.
Ora, avvenne che da un regno lontano cominciarono a venire dal signorotto uomini imberbi, tanti che gli riempirono la corte. “Sono incapaci di amministrare – si disse il signorotto – ma prima o poi impareranno”; e, all’insaputa di qualche vassallo, cominciava a nominare qualche uomo imberbe come valvassore. “tanto che cosa possono dire: loro sono miei vassalli ed io sono al di sopra della legge, anzi io sono la legge”, si rassicurava il signorotto. Ed essendo lui la legge, spesso non si peritava di passare maldestramente sopra a vassalli, valvassori e valvassini. Voi mi chiederete: ed i sudditi? Facile a dirsi. Quelli erano sempre poveretti, sia che appartenessero al grande o al piccolo feudo. Erano solo numeri.
Un giorno in cui il vassallo di Badessa era lontano, arrivò all’improvviso, il signorotto con un valvassino imberbe. La nobile famiglia gli preparò il desco. Il cibo abbondante, la grande disponibilità, e chissà cos’altro, fecero prendere al signorotto una decisione: “Io sono la legge, quindi, tolgo quel vassallo barbuto e nomino il mio fedele ciambellano che si può servire del valvassino imberbe!”.
Così avvenne che, senza nessun preavviso, nel piccolo feudo di Badessa giunse il ciambellano dalla voce possente, lesse il proclama del signorotto che lo nominava vassallo di quella terra, ma, lui impegnato a corte, lasciava il valvassino imberbe, coadiuvato dalla nobile famiglia.
I sudditi piangevano tutti, tranne la nobile famiglia, che dopo tre anni di sofferenza, finalmente, riprendeva il controllo di ogni foglia.
Avvenne in tal modo che i sudditi del piccolo feudo di Badessa dovettero constatare che il loro signorotto dalla lontana Calabria ancora una volta non li aveva considerati neppure numeri, ma questo poco importava, al signorotto, al suo ciambellano, alla nobile famiglia.
Una storia d’altri tempi, direte. L’epilogo è avvenuto solo l’altro giorno, 4 giugno,[i]giorno della Pentecoste. Perché questa precisazione cronologica? Perché la storia è molto chiara per i badessani, ma il lettore ignaro adesso deve sapere che quel signorotto è il vescovo di Lungro, il ciambellano il suo Vicario, il valvassino imberbe il vice-parroco romeno. Sì, l’ennesimo romeno. Esagerato aver usato una tale figura per designare il vescovo, mi si potrà dire. Certo, il comportamento non è stato paterno né rispettoso delle persone, di quella che spesso vien detta “la comunità ecclesiale”. Eh, sì, la realtà spesso supera la fantasia e la finzione. Chi ha orecchie da intendere, intenda.
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