In “Note al margine, sull’ultimo libro di Carmine Abate” (1), come recita il sottotitolo dell’articolo sotto riportato (tratto dal sito arbitalia.net) da noi ri-proposto, dello scrittore, giornalista, pittore arbëresh Nando Elmo (nativo del paese arbëresh di Acquaformosa in provincia di Cosenza) ci pone l’interrogativo sempre attuale su “che cosa significa essere Arbëresh?”, e cerca di dare una spiegazione.
CHE COSA SIGNIFICA ESSERE ARBËRESH?
Note al margine, sull’ultimo libro di Carmine Abate
di Nando Elmo (2)
Visto in libreria, acquistato, letto nel giro di un pomeriggio, l’ultimo romanzo di Carmine Abate: La festa del ritorno, Mondadori. Non sono un gran lettore di romanzi, e non perdo tempo con la narrativa. Non ho potuto, però, esimermi dal leggere quest’opera. Vuoi per il tam tam degli amici, Antonio Sassone da Roma, Alfredo Frega da Lungro, Skirò di Maxho da Piana degli Albanesi, ecc…- tam tam che è la migliore pubblicità per un libro. Vuoi per la curiosità, grande, per l’impressione che mi aveva prodotto l’altro libro del nostro autore, Tra due mari: l’impressione di un autore consumato, abile, dalla fascinosa scrittura, gran conoscitore dei trucchi del mestiere. Vuoi perché è l’opera di un conterraneo e di un “consanguineo” (gjaku ynë).
Non farò il critico letterario. Credo che il nostro abbia recensori più abili di me. Se, poi, può permettersi tanto editore e in epigrafe un lusinghiero giudizio di Consolo, magnifico scrittore siciliano di cui sono appassionato, se non fanatico, lettore, allora davvero posso esimermi dall’esprimere giudizi sulle sue indubbie qualità letterarie.
Parlerò d’altro, del mio approccio all’opera come lettore arbëresh. Capzioso, forse. Di sicuro rompipalle.
Ho letto tutte le opere di Abate. Le ho lette soprattutto con la curiosità di scoprire, almeno in filigrana, i tratti caratteristici dell’arbëresh.
Si sa, C. Abate scrive in italiano, ma un lettore che non sia arbëresh come fa a capire che quella che è descritta è una comunità arbëreshe e i personaggi sono arbëreshë? Sì, d’accordo, come in quest’ultimo libro, i personaggi talvolta pronunciano qualche frase arbëreshe, ricordano brandelli di qualche antica rapsodia. Ma basta?
Voglio dire: anche in traduzione italiana, senti che il giovane Holden di Salinger è americano nelle midolla. Senti che sono americani i personaggi di Kerouak. Che lo sono i personaggi di Steinbeck, di Hemingway, di Scott Fitzgerald, di Dos Passos, di Faulkner. Che è ebrea americana la madre del Kaddish di Ginsberg, e ebrei americani quelli di Safran Foer. Che è tedesco von Aschenbach – nessun professore italiano avrebbe avuto i suoi deliqui, né quelli di Adrian Leverkün.
Senti che è spagnolo don Chisciotte, della stessa pasta di Teresa D’Avila e di Juan e Juana de la Cruz. Che è irlandese Bloom. Che sono Hassidim i personaggi dell’altro Salinger, il Nobel.
Senti che Oblomov è russo, e russi i personaggi di Cecov, di Dostoevskij, Tolstoj, Lermontov. Sai da subito che è russo il Dottor Divago. E che sono argentini i personaggi di Borges che, come gli spagnoli, sanno che la vida es sueño - donchisciotti a modo loro.
E puoi anche dimenticare che quelle storie si svolgono in America, in Russia, o dove che sia. E non hai bisogno che l’autore ti ricordi che quei personaggi sono americani, russi o quello che sia. In loro scorre una mentalità, una visione del mondo, che è poi la cultura (qualunque cosa ciò significhi), che è americana, tedesca, russa – sempre che si sappia che cosa sia un americano un russo, uno spagnolo, un tedesco, ma con la televisione ormai e con il turismo…
Dei russi, poi, capisci subito che sono imbevuti, in positivo o in negativo, di teologia ortodossa, anche quando sono poveri diavoli – anzi proprio quando sono poveri diavoli. Anche quando si chiamano Stalin e Lenin. I Karamazov, I Demoni, escono pari pari da un testo di teologia ortodossa.
Per non dire dei francesi, e del loro “illuminismo”.
Per dirne un’altra, nostra questa volta. Montalbano potrebbe non parlare siciliano. Puzza lontano un miglio di siciliano. Quello che pensa, quello che mangia, i suoi polipi, le sue triglie, la sua pasta con le sarde, il modo di apostrofare i suoi colleghi, il modo di rapportarsi alla sua donna ecc… sono pura sicilianità. In ogni caso, dopo che hai letto un libro di Camilleri sai chi è, com’è fatto, un siciliano. Erano siciliani i personaggi di Sciascia e Bufalino. Ed è siciliano il barocco di Consolo: l’esuberanza d’una cassata; e ti ritrai da un suo libro con desiderio di Sicilia. Come con desiderio di Liguria da un libro di Biamonti (i suoi venti, i suoi profumi di macchia mediterranea). E di Sardegna dalla sobrietà di Pintor, esile come un mirto, asciutto come un sughero.
Imprinting antropologici, per i grandi avventi dello Spirito, che fanno sì che solo uno spagnolo possa essere un Picasso o un Dalì, solo un ebreo uno Chagall o un Modì, e solo un russo un Rublëv o un Malevič. Quanta Provenza c’è in Ravel?
Ecco, avrei voluto trovare nei libri di Abate questa peculiarità, l’ arbreshità di primo acchito.
Nel romanzo Tra due mari, si capisce benissimo che il fotografo non è e non può essere arbresh: per il lavoro che fa, per l’amante giovane che ha, per il suo svagato senso della vita ecc...
Ma gli arbëreshë: che cos’è che li fa tali?
Uomini del sud. Benissimo. Emigranti, benissimo. La ricostruzione del vecchio casale. D’accordo. Ma basta questo esperanto antropologico per farli arbëreshë?
Nell’ultimo libro - che, devo dire, mi pare molto esile nella trama, che ripete (ossessivamente? – ma un autore scrive sempre lo stesso libro), in sottrazione però, nella struttura, gli altri - tranne i canti della nonna, per altro sussurrati, pura archeologia della mente, non mi pare che ci sia alcunché di arbëresh; non nella festa, non nella psicologia dei personaggi, non in quello che mangiano, non in quello che bevono (birra, come tutti i calabresi emigrati). Il piccolo protagonista a scuola si esprime in calabrese – ai miei tempi ci si esprimeva in un arbëreshit che tentava di adattarsi, con esiti esilaranti, all’ italiano, (l’arbreshino, come lo chiamerebbe Skirò di Maxho, ma rovesciato) con grande disperazione della maestra che non capiva, naturalmente, i piccoli barbari, indegni della pura Italia fascista. Il “bir” pronunciato qua e là dal padre di Marco dice pochissimo, forse niente del suo essere arbëresh. A me vengono due sospetti, a questo punto.
Il primo: gli arbresh semplicemente non esistono, nonostante il gran parlare che se ne fa.
Pure entità ectoplasmatiche evocate in sedute spiritiche dai nostri studiosi, tutti intenti in una disperata respirazione bocca a bocca per tenere in vita la già “grande” defunta. Gli arbëreshë sono talmente integrati che hanno perso qualsiasi tratto distintivo della propria etnia, salvo la lingua che non fa conto essendo in stato catalettico. Salvo il rito. Anch’esso, però, gesuiticamente, tomisticamente, incattolicato, e non da ora. Gli arbëreshë sono, in tutto e per tutto, calabresi e come tali si comportano. Capisco le difficoltà di uno scrittore che voglia distinguere una comunità dall’altra, se, in tutto e per tutto, esse s’assomigliano. Come si reperiscono le marche, i tratti distintivi, gli elementi antropologici tipici che definiscano una comunità rispetto all’altra con cui vive in simbiosi?
Il secondo: essendo Carfizi di rito latino, è venuto a mancare ad Abate un elemento importante che avrebbe potuto offrirgli la materia per dar colore arberisco ai suoi personaggi. Un rito come la colliva, la picihudra della commemorazione dei morti, che non cade a novembre, il matrimonio con le corone, il battesimo per immersione, i papas con barba e moglie, le icone, le cerimonie pasquali o i canti natalizi, che non sono certamente “Tu scendi dalle stelle” o “Adeste fideles” o i canti abusati dalla pubblicità televisiva, e la liturgia in greco, che non si sognerebbe di cantare “sono stati i miei peccati”, ma che tuttavia così canta, ecc… avrebbero potuto fornire al nostro scrittore, più delle espressioni arberische, dei tratti che distinguono le nostre comunità da quelle latine. Sarebbe, a questo proposito, interessante indagare quanto di bizantino abbia lasciato nella psicologia arberisca la liturgia, dove essa è sopravvissuta.
La comunione col pane e col vino, per esempio. Una volta scrissi di una signora arberisca che a Torino si rifiutava di fare la comunione con l’ostia. Per non venir meno al precetto domenicale, dopo la messa latina, si chiudeva in camera sua e si comunicava a suo modo intingendo il pane nel vino: “Pse zoti Krisht ket ostia, fora li peccati, ësht pa sapur, insipido”. Non solo: sapeva che la comunione con una sola specie è quella di Giuda, e se ne faceva uno scrupolo grandissimo… e si segnava con le tre dita giunte, prima a destra poi a sinistra con l’inchino profondo…
Tra l’altro, in comunità veramente pacifiche come quelle di Lungro o Acquaformosa, Firmo,
S. Basile (non so delle altre) è difficile immaginare personaggi arbëreshë che imbracciano fucili, s’armano di coltello ecc… Di solito personaggi così, da noi, sono latini, o mezzosangue come mi suggerisce Skirò di Maxho. I personaggi violenti, che abbiamo avuto dalle nostre parti, erano di “razza” (mi si passi l’espressione, ma ci si esprime così) latina, litinjë.
Da noi, se mai, vige una certa bonomia, un certo lasciar fare, uno spirito disincantato (Ma çë vete ture gjetur. Le’ të rrinë, mos i ji’ rraxhë kurmit) che esaspera. Nessuno muove un dito, per quieto vivere, contro gli incendiari d’ogni estate che, si sa, sono latini; contro i politici corrotti, che sono latini anch’essi. Verso questi personaggi noi di solito “siamo in venerazione”, si dice, per quel senso d’inferiorità che abbiamo nei loro confronti (se sa di litiri) – ma perché non di sovrano distacco (vete vëfe me litinjët, jan si kriatur)?
Certo, le ragioni (e le regioni) “drammaturgiche” dello scrittore non sono quelle dell’etnologo, dell’antropologo ecc…, né la realtà là fuori è mai quella del libro, ma vorrei poter leggere il prossimo libro di Abate e dire: ecco un arbëresh. Come dico: ecco un greco, leggendo Zorba, L’ultima tentazione, e perfino il Poverello di Dio (Francesco d’Assisi) di Kazantzakis.
Ma insomma, i personaggi di Abate sono calabresi a tutto tondo; e nei suoi libri respiri aria di Calabria, non di Arberia. Personaggi, i suoi, simili a quelli che incontravo nei “treni del sud” con cui in giovinezza percorrevo l’Italia. Ti guardavano negli occhi con diffidente durezza, battendo veloci gli occhi e ridendo di gola come carcarazze.
C. Abate rimane scrittore italiano. Calabrese italiano, se vogliamo; per l’impasto (timido) linguistico (di maniera ormai?). Bravo scrittore italiano.
E gli scrittori (si fa per dire) arbëreshë gli sono grati per questo: non devono confrontarsi con la sua bravura.
Così dice Skirò di Maxho di Piana degli Albanesi, Hora anche quella, com’è Hora, indegnamente, Castrovillari, che non c’entra niente con tanto nome.
Così dice Skirò, che per la sua flemma arbëreshina (le’ të rrier, çë vete ture gjetur, mos u llavë), per il suo sovrano scetticismo pessimistico molto greco (da gran Sileno), che sa da sempre come va la vita, potrebbe tranquillamente abitare a Lungro.
NOTE
(1) Carmine Abate è nato a Carfizzi (KR) il 24 ottobre 1954. Ha studiato in Italia e si è laureato presso l'Università di Bari. Successivamente ha vissuto in Germania e, da oltre dieci anni, vive nel Trentino, dove esercita la professione di insegnante. Nel 1991 è uscito il suo primo romanzo Il ballo tondo, Nel 1999 esce il romanzo La moto di Scanderbeg. Nel 2002 esce il romanzo Tra due mari. Nel 2004 esce il romanzo La festa del ritorno. Nel 2006 pubblica il romanzo Il mosaico del tempo grande. Nel 2008 scrive il romanzo Gli anni veloci. La sua ultima creatura è il libro di racconti Vivere per addizione e altri viaggi;
(3) Nando Elmo, nato ad Acquaformosa nel 1938, vive e lavora a Rivarolo Canavese (TO). E' un ex insegnante di lettere. Ha pubblicato articoli di varia umanità sulla rivista arberesh Katundi Ynë. E' autore di "Lo specchio l'enigma" un saggio sulla "Venerazione di Maria nella tradizione bizantina" di V. Matrangolo.
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